I mondi di Raffaele Mattioli
di Alessandro AresuUna volta
Marcello De Cecco, geniale conoscitore della storia e dell’anima dell’economia,
sempre fortemente legato alla sua identità abruzzese, ha raccontato il suo
incontro col conterraneo Raffaele Mattioli, storica guida della Banca
Commerciale Italiana. L’intervento del banchiere di Vasto fu essenziale per
permettere al giovane De Cecco (non senza evitare di rimarcare, con ironia, che
non si trattava di “quello della pasta”) di studiare a Cambridge[1],
nel percorso di ricerca che ha poi portato a classici internazionali come Moneta e
Impero.
È solo uno dei
cento rivoli del fiume impetuoso di Raffaele Mattioli nella storia d’Italia,
nella storia delle idee e delle classi dirigenti. Il profilo di Mattioli
restituisce una figura di prima grandezza tra gli attori della ricostruzione
italiana. Il suo ricordo continua ad alimentare attenzione pubblica a
cinquant’anni dalla morte avvenuta il 27 luglio 1973. Ancora oggi ci sorprende
l’originalità del suo esempio italiano ed europeo, come ha ricordato di recente
Ferruccio De Bortoli sulle pagine del Corriere della Sera[2].
E questo avviene perché vari mondi s’intersecano nel banchiere nato nel 1895 a
Vasto, oltre alla sua impronta nella storia della Banca Commerciale Italiana.
Il mondo dei
libri, senz’altro. Apriamo anzitutto l’opera in due volumi Cinquant’anni
di vita intellettuale italiana, che Mattioli cura con Carlo Antoni,
studioso di Hegel e della filosofia tedesca, per gli ottant’anni di Benedetto
Croce. Mattioli, che ci tiene personalmente a fare il curatore, convoca per
quell’impresa editoriale personalità che comprendono Bruno Nardi per gli studi
medievali, Arnaldo Momigliano per la storia antica, Mario Praz per la
letteratura inglese, Giovanni Macchia per la letteratura francese, Luigi
Einaudi per la scienza economica, e molti altri.
Il volume dedicato
a Mattioli nel 1970, Un augurio a Raffaele Mattioli, e aperto da un suo
ritratto realizzato da Renato Guttuso, contiene tra l’altro testi di Riccardo
Bacchelli (che ricorderà Mattioli dopo la morte in una commemorazione
all’Istituto Italiano per gli Studi Storici), Elena e Alda Croce, Roberto
Longhi, Gianfranco Contini, oltre a Eugenio Montale e Carlo Emilio Gadda. Già
con questi brevi cenni prende forma quella colonna di libri, di riferimenti
culturali di cui Mattioli parlava con Palmiro Togliatti: i libri come
precondizione dell’azione politica, della cultura politica, di ogni progetto
per il futuro dell’Italia.
Mattioli aveva
l’ossessione di sviluppare la cultura italiana, di imprimere il suo segno al
suo allargamento, all’inclusione di nuove prospettive. Il primo mondo di
Mattioli è questa vitalità editoriale. Leggere libri, suggerire libri,
scoprirli, riscoprirli e salvarli (come per i Quaderni di Gramsci con l’amico Piero
Sraffa), discuterne, pubblicarli. I libri in grado di abbattere le barriere, il
linguaggio dei libri che ti fa dare del tu ai maestri, che alimenta l’amicizia
davanti a una bottega dell’usato. Nella vita di Mattioli, da aiuto
bibliotecario della Bocconi a braccio destro del banchiere Toeplitz, ci sono
sempre i libri di mezzo, i riferimenti ai libri, le conversazioni sui libri.
Fino al sogno, ma più che altro la necessità, di fare libri. Plasmare imprese
editoriali come Ricciardi, sostenere riviste e altri editori. Una vita di
libri, impressionante nella sua estensione e nella sua ambizione. Una vita
“libresca”? Di sicuro, mai noiosa. Perché l’ironia è un tratto costante di
Mattioli, anche nel parlare della sua stessa cultura. Sempre pronto alla battuta,
al richiamo della leggerezza prima dell’allargamento popolare di questa
categoria in Calvino.
Non so se la sua impronta si possa inserire nel progetto di Giulio Einaudi che Gian Arturo Ferrari prende con arguzia di mira già nel suo saggio Editoria di cultura e cultura dell’editoria[3]. Il progetto politico di Mattioli non è certo quello di Giulio Einaudi, anche se finanzia Einaudi. La cultura non è nemmeno occasione di militanza. Appunto, precondizione dell’agire politico, non suo orientamento in corrispondenza a un’ideologia. La voracità di Mattioli per i libri somiglia alla categoria crociana della “vitalità”, su cui Natalino Irti ha fornito alcune delle sue più acute recenti riflessioni[4].
Il mondo dei libri
è complemento necessario di un altro mondo della lettura e della scrittura che
Mattioli abita: i calcoli, i conti. I libri delle aziende, i bilanci. Non è un
mondo di cui parla a lungo, ma è un mondo essenziale. Si tratta di toccare con
mano il ritmo dell’Italia economica, attraverso la conoscenza delle imprese,
degli imprenditori, delle loro problematiche. Come disse Carlo Emilio Gadda in
una sua dedica, Mattioli era sia «editore dei numeri e dei pensieri splendidi»
che «despota dei numeri veri». Dispotismo necessario perché – questo è un altro
segno di Mattioli al quale prestare ancora ascolto – non può esservi per lo
sviluppo dell’Italia contemporanea una separazione tra industria e finanza.
Come scrive Mattioli a Togliatti, la «sana finanza» non è qualcosa di
«reazionario», va considerata piuttosto «un interesse nazionale – di tutta la
nazione». Perché senza un tessuto finanziario adeguato, non può esservi
benessere, e non può esservi protagonismo per l’Italia. La rete in cui è
inserito Mattioli cementa questa sua convinzione che è ancora vera oggi, in un
Paese tuttora bancocentrico, con un mercato dei capitali mai veramente
sviluppato, con investitori istituzionali non all’altezza degli altri Paesi
europei, e con una capacità ridotta di connettere risparmio e investimento.
Senza finanza – questo è il monito di Mattioli, che squarcia le ipocrisie
politiche e ideologiche – non c’è un vero e concreto progetto di sviluppo della
nazione.
Questo mondo di
Mattioli è allora uno sguardo sui nodi del capitalismo italiano, legato alle
conseguenze di lungo termine della sua celebre espressione sul rapporto tra
banche e imprese nel nostro Paese: «la fisiologica simbiosi si era così mutata
in una mostruosa fratellanza siamese». Non si può affrontare questo nodo senza
considerare il rapporto e il dissidio – non nell’amicizia, ma sui contenuti –
tra lui e l’altro banchiere, Enrico Cuccia[5].
Nel 1939, Cuccia prese in sposa la figlia del demiurgo dell’Iri, Alberto
Beneduce, che per i suoi ideali le aveva dato il nome di Idea Nuova Socialista.
Mattioli regalò all’amico trentenne un’imponente (superficie complessiva di
3,16 x 2,45 metri) mappa della Parigi settecentesca, realizzata su incarico di
Michel-Étienne Turgot, prévôt des marchands, ovvero capo della
municipalità di Parigi, nonché padre dell’economista Anne-Robert-Jacques
Turgot. La mappa, in seguito, trovò spazio nella sede di Mediobanca, la
creatura pensata da Mattioli e Cuccia a partire dal 1944 e nata nel 1946. La
storia di Mediobanca è anche la storia della lettura di Mattioli e Cuccia del
capitalismo italiano, del rapporto tra pubblico e privato, nell’evoluzione del
sistema in cui campeggiano all’inizio Beneduce e Menichella.
La questione
dirimente riguarda il rapporto con le imprese private in Italia e quindi il
ruolo più opportuno di Mediobanca. Mattioli una volta definì gli imprenditori
italiani «senescenti minorenni”, con una delle sue espressioni fulminanti, per
indicare il rischio di un sistema chiuso che non porta alla crescita. Per
Cuccia, Mediobanca assume una funzione quasi fisiologica di camera di
compensazione del capitalismo italiano attraverso partecipazioni azionarie, che
giocoforza favoriscono alcune famiglie e non stimolano l’apertura del sistema.
Così rispondendo al profondo scetticismo di Cuccia per le possibilità
dell’Italia: il mio maestro Guido Rossi, che lo conobbe molto bene,
sottolineava spesso la sua frase «dobbiamo giocare con le carte che abbiamo in
mano». Per Mattioli la funzione di Mediobanca era quello del credito
industriale per imprese che dovevano entrare nel mercato dei capitali. Vi è
quindi una divergenza di opinioni significativa, anche se Mattioli non vive da
protagonista i decenni dai Settanta ai Novanta in cui Cuccia accompagna
un’altra stagione dell’Italia rispetto a quella “eroica” del dopoguerra.
L’Italia
imprenditoriale e finanziaria di Mattioli, sia all’inizio della sua avventura
nella Comit che nella centralità che acquista nella ricostruzione italiana, non
è mai isolata da un contesto più ampio. Ed ecco un altro mondo di Mattioli, essenziale,
che si spalanca davanti a noi: il fortissimo aggancio internazionale. È un
mondo europeo, in primo luogo, perché questa è la classica identità bancaria
del Nord Italia, sospeso tra l’influenza della finanza francese e di quella di
lingua tedesca. Un aspetto che ritorna ancora ai giorni nostri, nell’attualità,
nella continua interrogazione sull’identità delle Generali ma anche sul
rapporto con le realtà economiche della Germania e della Francia a livello
imprenditoriale.
In Mattioli, ed è
un punto centrale, l’aggancio internazionale è anche angloamericano, e in
questi termini arricchisce la tradizione italiana. Nei termini del liberalismo
inglese, del segno che imprime sull’azionismo. Ma anche per quando riguarda la
frequentazione e la confidenza con la grande potenza del ventesimo secolo, gli
Stati Uniti d’America. È un’Italia che scopre le tecniche organizzative degli
Stati Uniti, che guarderà con attenzione oltreoceano per comprendere nuove
prospettive dell’agire economico. E in Mattioli, da questo punto di vista,
cultura e organizzazione viaggiano insieme, nella costruzione di “corpi”: di
gruppi di persone che, con la vitalità che abbiamo citato, lavorano insieme per
un obiettivo, attraverso riferimenti culturali comuni. È l’incrocio di personalità
che Mattioli cerca, coltiva, da capo della Banca Commerciale Italiana, la
mitica Comit, dagli anni Trenta e in poi, durante il regime fascista e nella
ricostruzione. E che organizza come un gruppo variegato e unito, una classe
dirigente in nuce,
con una forte impronta internazionale.
Ha avuto occasione
di ricordare questo punto Mario Draghi da Presidente del Consiglio, in un
discorso del 10 novembre 2021 dedicato a Ugo La Malfa, uno dei “ragazzi” di
Mattioli. Dello statista repubblicano, Draghi ricorda le «conoscenze e
convinzioni sviluppate con la lettura di John Maynard Keynes e degli economisti
americani. Una scoperta avvenuta in un grande luogo della cultura italiana:
l’Ufficio Studi della Banca Commerciale. Fu Raffaele Mattioli nel 1933 a volere
lì La Malfa, nonostante fosse stato da poco liberato dopo un arresto politico e
sorvegliato dalla polizia. Mattioli aprì la sua casa ai giovani dell’Ufficio
Studi, dove poterono incontrare intellettuali, scrittori e poeti, da Bacchelli
a Montale. E in quegli uffici della Banca Commerciale, come ricorda lo stesso
La Malfa, si svolse la battaglia clandestina contro il fascismo»[6].
Questo mondo
internazionale riguarda non solo una rete politico-diplomatica (come è evidente
nell’azione di Cuccia e Mattei negli anni Trenta e Quaranta e nei diversi ruoli
svolti in quegli anni tumultuosi) ma anche un’opportunità di affari e di
relazioni, attraverso uffici, sedi, antenne che indicano l’ambizione
dell’Italia, lo spazio dell’Italia. Nella storia di Comit, come in quella di
Mediobanca ben analizzata dal lavoro di Giovanni Farese[7],
esiste un filone diplomatico di grande rilievo che tocca luoghi fondamentali
per gli interessi italiani: quello che oggi chiamiamo Mediterraneo allargato
(Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, e altre nazioni africane con presenza
imprenditoriale italiana), e il Sud America. Come ricorda il bel podcast di
Chora e Intesa Sanpaolo L’ebreo onorario, questa rete internazionale per
Mattioli assume un significato speciale dopo l’approvazione delle leggi
razziali, perché diviene letteralmente l’occasione per salvare i suoi
dipendenti e collaboratori ebrei dalle persecuzioni, in un’azione alla quale il
banchiere si dedica con grande attenzione.
Mattioli ha
senz’altro un testardo progetto di classe dirigente per rispondere «una visione
più ampia e fiduciosa dello sviluppo del nostro Paese»[8],
che realizza attraverso le sue reti (l’infrastruttura Comit, anche nelle
diramazioni internazionali, e l’indefessa attività culturale). Uno degli ultimi
progetti della sua vita, incompiuto, è l’Associazione per lo studio della
formazione della classe dirigente dell’Italia unita. Lo Statuto
dell’Associazione del 1972 reca una definizione molto ampia di questo termine
spesso sfuggente nella storia d’Italia, classe dirigente: «Tutti coloro che, al
governo o all’opposizione, nel parlamento o fuori di esso, muovendosi in una
sfera ufficiale ovvero entro spazi propri ed autonomi o addirittura alternativi,
abbiano svolto, svolgano o si preparino a svolgere compiti che vanno al di là
del puro esercizio d’un mestiere, d’una professione, d’una funzione, per
contribuire invece, nelle forme e nei settori propri ad ognuno (politico,
economico, amministrativo, militare, religioso, culturale, sindacale…) a quella
che è, di periodo e ai diversi livelli, la “gestione degli affari del Paese”»[9].
Mattioli ragiona
sulla classe dirigente dopo averla letteralmente costruita, attraverso le sue
azioni nel sistema economico italiano, attraverso i suoi dialoghi
internazionali, i suoi progetti culturali. Punto decisivo: Mattioli sa di
essere parte della classe dirigente. Gli è estraneo quel riflesso italiano per
cui classe dirigente sono sempre gli altri, che poi nei nostri tempi è divenuto
l’uso dell’espressione “la politica” per identificare un lontano mondo a cui
attribuire poteri e colpe che non ci riguarda, che non ha a che fare con noi.
Opposto, e inattuale, è il messaggio di Mattioli: la «gestione degli affari del
Paese» è un insieme ampio, che riguarda una pluralità di persone e competenze,
una responsabilità comune da cui è vano fuggire.
Appunto, la classe
dirigente è una corresponsabilità. Ma non è solo una struttura gerarchica, di
ordini e regole fisse. È una casa chiassosa, come quella di Mattioli in via
Bigli, dove si discute animatamente. Nel mondo di Mattioli, la classe dirigente
ha una forte impronta umanistica e segue l’esempio e l’impianto di Benedetto
Croce: ovviamente non disciplinata secondo logiche accademiche ma ben
impiantata in un’idea di umanesimo storico.
Questo punto di
forza, che dà la direzione di “scuola” che Mattioli costruirà con lo stesso
Croce e con Federico Chabod nell’Istituto Italiano per gli Studi Storici di
Napoli, presso la stessa abitazione del filosofo a Napoli a Palazzo Filomarino,
si rivela anche un limite. Difatti in Mattioli convivono, come abbiamo visto,
il rigore dell’osservazione economica e il metodo degli studi storici, oltre
alla passione letteraria. Nel suo cenacolo e nel suo progetto, tuttavia,
l’attenzione per la scienza e la tecnologia non è significativa. Da questo
punto di vista, Mattioli ci ricorda un evidente limite della tradizione
italiana, che sfortunatamente affrontiamo ancora oggi, e di cui c’è eco nella
polemica di Federigo Enriques con Croce e Gentile. È l’annosa difficoltà di
orientare l’Italia in senso scientifico e tecnologico. Basta leggere il bel
racconto autobiografico di Giorgio Parisi con Pierluigi Paterlini[10],
dove si alternano le equazioni e le passioni letterarie, compreso il rapporto
con Luce d’Eramo, per capire che questa contrapposizione non ha senso. Eppure,
perché non vi sia una contrapposizione occorre che vi sia una cultura
scientifica diffusa e che si possa comprendere, almeno in termini basilari, il
linguaggio della scienza. Questo nell’Italia di oggi, e nell’Italia di
Mattioli, purtroppo manca, e bisogna ammetterlo con franchezza. Credo da tempo
che vadano riconosciuti i profondi limiti della tradizione filosofica e
storiografica italiana dominante nel dare un’adeguata considerazione alla
cultura scientifica. Rispetto alla storia di altri Paesi, l’Italia mette in un
cantuccio la sua pur vitale tradizione politecnica e tecnologica. Il Paese di
Marconi e Fermi nel dopoguerra sottovaluta questi punti di forza, anche se
Amaldi è forse il principale protagonista della diplomazia scientifica europea,
con la costruzione del CERN e dell’Agenzia Spaziale Europea. Ma manca per i
temi scientifici e tecnologici una vera dignità culturale e politica, rispetto
ai dibattiti dell’epoca. In questo modo, la stessa cultura italiana si
tradisce, anche attraverso semplificazioni. Per esempio, nella stessa nidiata
di allievi di Croce c’era un filone scientifico, incarnato da Felice Ippolito e
dalle sue opere. Oggi questo tema è ancora davanti a noi, come un grande limite
della cultura italiana. È Civiltà delle Macchine, con l’incontro decisivo
tra Giuseppe Luraghi e Leonardo Sinisgalli, la pubblicazione che negli anni
Cinquanta, sotto l’ombrello di Finmeccanica-Iri, capisce questo punto
essenziale delle due culture da far dialogare, a partire da una pari dignità.
Che porta i poeti nelle fabbriche, che racconta il design ma anche la
meccanica, la chimica, dando vera considerazione alla tecnologia. Il punto di
contatto tra Mattioli e questo filone italiano è senz’altro la figura eccezionale
di Carlo Emilio Gadda.
Veniamo all’ultima
tappa di questo catalogo dei mondi di Mattioli. Sono convinto che si potrebbe
scrivere il romanzo della ricostruzione italiana a partire dagli incontri tra
Mattioli e Mattei, come ci sono stati restituiti. E un giorno lo scriverò.
Entrambi gli uomini vengono dalla provincia italiana, ne sentono fortemente
l’identità. Mattioli è senz’altro divenuto milanese, ha assorbito e plasmato lo
spirito di quella città, ha alimentato col denaro e con la cultura un’idea di Milano
che gli sopravvive. È allo stesso tempo mitteleuropeo e anglosassone. È
napoletano, naturalmente, per seguire il percorso di Croce, per seguire la
strada delle “scuole” e dei “maestri” nella tradizione napoletana. Anche per
Mattei, Milano è una tappa decisiva di maturazione imprenditoriale e
intellettuale, seppur in modo diverso. Per entrambi, Roma è qualcosa di
estraneo: in Mattioli, luogo di incontri e intermediazioni con la politica, ma
non vera capitale culturale; in Mattei, città mai veramente sua e vissuta
attraverso la stanza d’albergo, sempre proteso a una nuova partenza, a una
nuova conquista, fino all’ultimo viaggio.
Mattei è il
condottiero, per i suoi detrattori il corsaro, della ricostruzione italiana.
Mattioli la crescita impetuosa degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta,
che in Mattei ha un’immagine simbolica e antropologica, attraverso le sue
relazioni per i vari esercizi della Banca Commerciale. Nella Relazione per
l’esercizio 1961 ricorda il tema dei divari. Non si può parlare di “sviluppo”
generalizzato in Italia, perché «abbiamo zone “sviluppate” e zone “non
sviluppate”, zone suscettibili di ulteriore sviluppo e zone restie, sia tra le
“sviluppate” sia tra le “non sviluppate”, a passi avanti più o meno rapidi».
Per Mattioli il successo degli anni Cinquanta non era qualcosa di cui
compiacersi. Aborriva il termine “miracolo” e la sua eccessiva diffusione: per
lui non c’era nulla di miracoloso ma la risposta adeguata ad alcune condizioni,
in cui restavano alcuni nodi irrisolti che bisognava affrontare, senza perdere
tempo[11].
Eppure, in quel
passaggio della ricostruzione italiana, nella diversità e negli incroci delle
sue storie c’è qualcosa di indimenticabile. Come la frase «preferisco essere
povero in un Paese ricco anziché ricco in un Paese povero» con cui Mattei
davanti a Mattioli pose a garanzia l’azienda di sua proprietà per i prestiti
all’Agip che si rifiutò di liquidare. O come quando anni dopo Mattioli pose la
sua credibilità internazionale a garanzia verso Nelson Rockefeller pregandolo
di intercedere col governo degli Stati Uniti per «giungere a un modus vivendi con
l’Eni»[12].
I mondi di
Mattioli scorrono nella storia d’Italia tra l’esempio e la nostalgia. Davanti
ad essi, a cinquant’anni di distanza, viene spontaneo commentare con la frase
dell’Enrico V con
cui il banchiere di Vasto illustrava il dilemma della sua Italia: «Miracles are
ceased».
[1] L’episodio è raccontato dallo stesso Marcello De Cecco in La figura e l’opera di Raffaele Mattioli, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli 1999.
[2] Ferruccio De Bortoli, Il respiro europeo di Mattioli, «Corriere della Sera», 21 luglio 2023. Si veda anche il testo di De Bortoli su Mattioli nel suo Poteri forti (o quasi), La Nave di Teseo, Milano 2017, che riprende una sua lezione del 2016.
[3] Gian Arturo Ferrari, Editoria di cultura e cultura dell’editoria, «il Mulino», n.1, 2010.
[4] Natalino Irti, Meditazione del giurista su pagine dell’ultimo Croce, «La Cultura», n.1, 2023.
[5] Il tema è ampiamente affrontato da Sandro Gerbi, Mattioli e Cuccia. Due banchieri del Novecento, Einaudi, Torino 2011. Si veda anche, per un’altra interpretazione di Mediobanca da tenere presente con attenzione, Giorgio La Malfa, Cuccia e il segreto di Mediobanca, Feltrinelli, Milano 2014.
[6] Intervento di Mario Draghi alla presentazione del Portale Ugo La Malfa, Roma, 10 novembre 2021.
[7] Giovanni Farese, Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia. Atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa, 1944-1971, Archivio Storico Mediobanca, Milano 2021.
[8] Lettera di Mattioli a Cuccia del 19 aprile 1956, citata in Giorgio La Malfa, Il progetto di Cuccia e Mattioli per una nuova visione dell’Italia, «Il Sole 24 Ore», 21 gennaio 2021.
[9] Statuto dell’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente dell’Italia unita, Milano, 5 marzo 1972, disponibile in La figura e l’opera di Raffaele Mattioli, op. cit., p. 306.
[10] Giorgio Parisi e Pierluigi Paterlini, Gradini che non finiscono mai. Vita quotidiana di un Premio Nobel, La Nave di Teseo, Milano 2022.
[11] Un punto colto molto bene nella commemorazione di Mattioli di Guido Carli al Piccolo Teatro il 17 settembre 1975, in Ricordo di Raffaele Mattioli, Casa della Cultura, Milano 1975, pp. 38-39.
[12] La copia della lettera di Mattioli del 3 giugno 1957 è in Francesca Gaido e Francesca Pino, Raffaele Mattioli. Documenti e fotografie della maturità, Hoepli, Milano 2015, pp. 82-83.
Nessun commento:
Posta un commento