La chiesa, lo stato, la vita sociale e religiosa in Abruzzo dall'Unità d'Italia al 1918
1. Introduzione.
Il fine del presente saggio è la descrizione riassuntiva
delle principali vicende riguardanti la vita sociale e religiosa in Abruzzo nel
periodo storico considerato. Al fine di una piena comprensione di tali aspetti si
ritiene opportuno iniziare la trattazione con l’esposizione di fatti di
carattere generale.
2. La politica
ecclesiastica del nuovo stato unitario.
Nel
1860 i garibaldini conquistarono il Regno delle Due Sicilie che in seguito fu
unito ad altri ex Stati della penisola nel Regno d'Italia. Il nuovo stato
sovrano fu proclamato ufficialmente il 17 marzo 1861 senza comprendere il
Lazio, il Veneto, il Trentino Alto Adige e la Venezia Giulia.
Nella
politica ecclesiastica i primi governi unitari s’ispirarono al principio cavouriano
"Libera Chiesa in libero Stato" che significava libertà
d'azione della Chiesa nell'ambito dei limiti posti dalle leggi statali. Questa
concezione vedeva prevalere gli interessi dello Stato su quelli della Chiesa e
rivelava un’inversione di tendenza rispetto alla politica ecclesiastica perseguita
dalla monarchia borbonica. Inoltre il liberalismo dello Stato Unitario ammetteva
che l’autorità derivi dal popolo, un principio contrario alla diretta
derivazione del potere da Dio. Questi principi e la volontà delle autorità italiane
di annettere Roma con tutto lo Stato Pontificio erano una grave minaccia al
potere temporale del pontefice che scomunicò i Savoia dopo l'occupazione piemontese
dell'Umbria e delle Marche. Pertanto il nuovo Stato nacque all’insegna dei
forti contrasti con la Chiesa che oltre alla scomunica ebbero per oggetto la
richiesta della Curia Romana a tutto il clero di non collaborare con le
autorità italiane. In seguito varie leggi
anticlericali incrementarono ulteriormente l’irrigidimento
dei rapporti con le autorità pontificie.
Nell’Italia
meridionale le prime avvisaglie del nuovo rapporto tra Stato e Chiesa si ebbero
durante la Dittatura e Luogotenenza con l’emanazione di vari decreti, mentre uno
dei primi provvedimenti dello Stato Unitario su tale aspetto è stata una
circolare del Segretario Generale del Ministero di Grazia e Giustizia e degli
Affari Ecclesiastici emanata il 16 maggio 1861 che impose l’obbligo del regio
exequatur per tutte le decisioni delle autorità ecclesiastiche di natura
politica.
Il
decreto luogotenenziale n. 248 del 17/12/1861 abolì il Concordato del 1818 tra
la Santa Sede e i Borboni. Questa norma dimostra che la proclamazione
dell’Unità d'Italia non comportò l'immediata abolizione degli ordinamenti
preunitari, per cui prima che in tutte le regioni si affermasse una
legislazione unica trascorsero vari anni e per un certo tempo nell'ex Regno
delle Due Sicilie restarono in vigore varie leggi borboniche anche in materia
ecclesiastica.
Il
decreto n. 251 del 17/2/1861 di Eugenio Savoia-Carignano e le leggi del
2/10/1862 e n. 3848 del 15/10/1867 soppressero i benefici ecclesiastici, le
cappellanie, i monasteri e gli ordini religiosi, tranne le congregazioni
ritenute di pubblica utilità. Le soppressioni furono ispirate da varie
finalità: equiparare tutte le confessioni religiose, affidare a organismi
statali attività che un tempo erano riservate alla Chiesa e aumentare la
circolazione dei beni ecclesiastici. Ai religiosi degli istituti soppressi fu
lasciata la libertà di associarsi e continuare a professare la loro fede, come
privati cittadini o in libere associazioni sottoposte alle leggi dello Stato.
Le soppressioni non interessarono le parrocchie. Infatti, la legge n. 3848 del
15/10/1861 dispose che ne erano esenti i proventi e i benefici parrocchiali che
al momento della loro fondazione avevano annesso la cura d'anime o l'obbligo di
coadiuvare il parroco nell'esercizio del suo ministero.
Con
la legge del 20/3/1865 il governo unitario dimostrò rispetto per il sentimento
religioso popolare poiché prescrisse che, in mancanza di altri mezzi, le spese per
il culto e la manutenzione delle chiese dovevano essere a carico dei Comuni.
Il
Codice Civile entrato in vigore il 1° gennaio 1866 trasferì la tenuta dei
registri dello stato civile dalle parrocchie ai Comuni; tolse ogni valore
legale al matrimonio esclusivamente religioso; prescrisse il matrimonio civile
obbligatorio per tutti i cittadini e che il funzionamento degli enti
ecclesiastici fosse regolato da leggi statali.
Il
7 luglio 1866, al fine di risanare il bilancio pubblico fu promulgata una legge
che aboliva gli istituti religiosi e prevedeva che i loro beni fossero incamerati
dallo Stato.
Dopo
il primo decennio unitario, sotto la spinta dei parlamentari più credenti,
l'acceso anticlericalismo si allentò e fu adottato un atteggiamento più
conciliante con la Chiesa.
Nel
1871 il governo italiano, dopo aver cercato una soluzione concordata con le
autorità pontificie, decise di regolare unilateralmente i rapporti tra Stato e
Chiesa e tentare una riappacificazione con la Curia Romana. Tale esigenza era
dettata dal credo religioso delle autorità politiche nazionali, la volontà di
rendere esecutivo il principio della libera Chiesa in libero Stato e la
consapevolezza che l'appoggio ecclesiastico avrebbe contribuito al mantenimento
dell'ordine pubblico. Di conseguenza il governo promulgò la "Legge delle
Guarentigie” che riconosceva al papa la libertà d’esercizio della funzione di
capo della Chiesa, il suo magistero spirituale e la sovranità sui palazzi del
Vaticano, il Laterano e la villa di Castel Gandolfo. Inoltre nel bilancio dello
Stato fu iscritta una cospicua dotazione annua per il mantenimento della corte
papale. Nello stesso anno il governo rinunciò alla "Legazia
apostolica" per la Sicilia che risaliva ai Normanni[1]
e abolì: 1) l'exequatur e il regio placet per la pubblicazione ed esecuzione
degli atti delle autorità ecclesiastiche; 2) il ricorso "ad principem", la facoltà concessa
alle persone fisiche di ricorrere all'autorità statale contro gli atti delle
autorità ecclesiastiche.
Nel
1876 con la legge n. 3184 del 30 giugno fu regolamentato e laicizzato l’istituto
del giuramento pubblico che nella nuova concezione non impegnava la coscienza
individuale davanti a Dio.
Un
altro tema affrontato dai governi post-unitari fu la questione della pubblica
beneficenza che fu considerata un'attività da regolare con enti e leggi statali
poiché un fine dello Stato era di contribuire al miglioramento delle condizioni
morali e materiali dei propri sudditi. A tal proposito le leggi n. 75 del 3
agosto 1862 e n. 6972 del 17 luglio 1890 autorizzarono la fondazione delle
Congregazioni di Carità in ogni Comune del Regno. Questi nuovi enti ebbero in
assegnazione: i beni degli enti ecclesiastici soppressi, l'amministrazione
delle rendite delle cappelle laicali, l'acquisto e il pagamento per i poveri
del proprio Comune di medicinali, oggetti di vestiario e altro.
La
legge n. 4727 del 14 luglio 1887 consentì l'affrancamento dei contadini dalle
decime dominicali e dalle altre prestazioni fondiarie perpetue dovute alla
Chiesa e ai laici. In questo modo fu abolito il principio medioevale che
considerava inalienabili i beni ecclesiastici a vantaggio di una loro maggiore
circolazione. La promulgazione della legge tuttavia non produsse un immediato
affrancamento delle rendite fondiarie per cui in moltissime località, solo
molto lentamente i contadini iniziarono ad avvalersi di questo diritto.
Con
la legge n. 6144 del 3 giugno 1889 si sottoposero a precisi limiti i modi di
esecuzione delle processioni, le cerimonie sacre e le questue fatte all’esterno
degli edifici di culto.
3.
La politica
della Santa Sede e della gerarchia cattolica verso lo Stato Unitario.
Nel
1859, il papa Pio IX scrisse l'enciclica "Qui Nuper "a difesa delle
sue ambizioni di potere temporale, trovando il consenso tra molti presuli.
Probabilmente il pontefice voleva preavvisare le autorità piemontesi che si
sarebbe opposto a ogni tentativo di rimuoverlo dal trono temporale.
Il 25 marzo 1860 Pio IX pubblicò il breve “Cum catholica ecclesia” con cui
scomunicò le autorità responsabili dell’annessione degli ex territori pontifici
al Regno di Sardegna.
La
Penitenzieria Apostolica il 16 novembre e il 10 dicembre 1860 vietò a tutto il
clero di compiere atti che comportassero il riconoscimento delle nuove autorità
statali, rendere omaggio al re e prendere parte attiva alle funzioni religiose
che celebrassero le ricorrenze civili[2].
Dopo
l'Unità d’Italia a causa dei difficili rapporti tra Stato e Chiesa, numerose
diocesi restarono vacanti. Diversi vescovi avvertirono l’esigenza d’impegnarsi
per la tutela dei principi cristiani, la difesa del popolo dalla diffusione
delle cosiddette false dottrine e di definire con le lettere pastorali i tratti
caratterizzanti del buon cattolico tra cui annoverarono l'ubbidienza alla
gerarchia, il rigore morale e l'autonomia dal potere politico.
Nel 1864 il sommo pontefice pubblicò il "Sillabo",
un documento che richiamava precedenti decisioni pontificie e condannava il
liberalismo e il laicismo. Esso fu accolto con favore dai vescovi ma suscitò
anche una forte ondata anticlericale a cui partecipò il governo italiano che
prese la decisione di proibirne la pubblica
lettura[3].
Il 30 gennaio 1868 la Congregazione per
gli affari ecclesiastici utilizzò per la
prima volta l'espressione “non expedit” per dire che era
inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alle elezioni e alla vita politica nazionale, mentre la partecipazione era concessa per
quelle amministrative[4].
Nel 1870, dopo la presa di Roma, il papa Pio IX
rinnovò la scomunica contro i Savoia e gli esponenti del governo italiano,
mentre la Penitenzieria Apostolica ribadì
il non expedit per le elezioni politiche del 5 dicembre[5]. Inoltre il
pontefice con l’enciclica “Ubi Nos” non riconobbe la legge delle
Guarentigie, si dichiarò prigioniero dello Stato italiano; nel 1874 ribadì il
non expedit chiedendo ai cattolici di non partecipare alle elezioni politiche e
amministrative del Regno d’Italia. In quegli anni, l'astensionismo elettorale
fu ritenuto uno dei tratti qualificanti del cattolicesimo militante[6].
Nel 1886, durante il pontificato di Leone XIII una circolare del Sant’Uffizio
riconfermò l'obbligo del "non expedit".
La
Curia Romana seppur chiusa nei palazzi vaticani, nonostante continuasse a
sentirsi prigioniera dello Stato italiano e i ripetuti appelli al non expedit,
seguiva le vicende politiche italiane e manifestava sensibilità per i problemi
che ponevano la questione sociale, lo sviluppo industriale e l'emigrazione di
fine secolo. Al fine di affrontarli e proporre una via cristiano-cattolica per
la loro soluzione elaborò e diffuse i principi della dottrina sociale della
Chiesa. Ciò significava che al fine supremo di assicurare la salvezza eterna,
la Chiesa aggiungeva un nuovo modo di perseguire il rispetto della vita
terrena, come tra l’altro è espresso nel comandamento "non uccidere".
Questa scelta implicava la definizione di nuovi mezzi adeguati a difendere la
dignità umana e la vita stessa nel rispetto dei principi cristiano-cattolici.
Il
principale fautore della dottrina sociale della chiesa fu il papa Leone XIII
che occupò il trono pontificio dal 1878 al 1903. Il nuovo pontefice abbandonò
la linea politica d’isolamento praticata da Pio IX e scelse di reinserire la
Chiesa nella società italiana fornendo adeguate risposte ai problemi sociali
della sua contemporaneità che tra l’altro si contrapponessero e arginassero la
diffusione delle ideologie laiche tra cui il socialismo.
Leone
XIII per diffondere le sue teorie scrisse diverse encicliche. Nella prima dal
titolo "Immortali Dei", pubblicata il I novembre 1885, il pontefice
riaffermò l'accettazione della Chiesa di qualsiasi forma di governo purché
orientato a perseguire il bene comune ed esortò i cattolici a partecipare alla
vita pubblica al fine di favorire l'opera di evangelizzazione e scongiurare che
la società civile potesse essere messa in pericolo da idee e movimenti politici
sovversivi.
Nell’enciclica
"Libertas" pubblicata il 20 giugno 1888, il pontefice espose il suo
pensiero sulla libertà, la legge, gli stati e i loro poteri, la separazione tra
Chiesa e Stato e altro. In particolare Leone XIII fece presente che la base
della vita pubblica in un regime parlamentare democratico doveva essere
costituita dal diritto di libertà di parola, stampa e d’insegnamento. Esse però
non potevano essere illimitate ma compatibili con la dottrina cristiana, la
forma di governo democratico e la partecipazione di tutti i cittadini alla vita
pubblica.
La
più importante enciclica leoniana sulla dottrina sociale della chiesa è la
"Rerum Novarum" che fu promulgata nel 1891 e segnò l'avvio della
costituzione del movimento cattolico e di una nuova pastorale. Con
quest’enciclica Leone XIII diffuse i principi del cattolicesimo sociale che
attraverso l’attuazione di adeguate riforme doveva alleviare la miseria delle
classi lavoratrici della società capitalistica. Esso si distingue dalla carità
cristiana tradizionale che tendeva a sollevare i miserabili attraverso
l'impegno individuale poiché prende coscienza di un problema nuovo e per la sua
soluzione invoca l'adozione di opportune norme da parte degli organi di potere:
le riforme. La "Rerum Novarum" pur non modificando certe posizioni
tradizionali della dottrina cattolica sulla proprietà e la gerarchia, rompeva
con la tradizione accettata dai settori dell'intransigentismo cattolico che
predicava la rassegnazione alla volontà di Dio e la sottomissione al cosiddetto
ordine naturale delle cose. Il papa condannò lo sfruttamento dell'uomo
sull'uomo dovuto al capitalismo; invitò lo Stato a non limitarsi a una funzione
repressiva, occuparsi dei problemi dei lavoratori, tutelare il riposo festivo,
contenere l'orario di lavoro di donne e adolescenti; affermò che la proprietà
privata è un diritto naturale e ogni capitalista o padrone aveva il dovere di
rispettare la dignità della persona umana assicurando a ogni lavoratore la
giusta mercede; raccomandò ai cattolici di formare proprie associazioni operaie
e infine condannò lo sciopero.
Nella
enciclica "Graves de Communi"
del 18 gennaio 1901 il pontefice precisò che il termine democrazia non
significava regime politico che implicava il governo del popolo ma una politica
in favore dell'azione del popolo; non poteva
essere messa in discussione la proprietà,
raccomandò l'unità dei cattolici italiani facendo presente che il suo movimento
doveva essere guidato dall'Opera
dei Congressi e dai vescovi.
Il
successivo pontificato di Pio X (1903-1914) fu
caratterizzato dalla condanna del modernismo, un riavvicinamento con le
autorità nazionali italiane e una certa continuità con l’operato di Leone XIII.
In particolare con l’enciclica "II
fermo proposito" promulgata l’11 giugno 1904, il pontefice ribadì che
il movimento cattolico doveva essere guidato dalle autorità ecclesiastiche e
allentò le restrizioni al non expedit.
Durante il pontificato di Benedetto XV (1914-1922)
continuò il processo distensivo con le autorità italiane. Nella sua prima
enciclica “Ad Beatissimi Apostolorum principis”,
pubblicata il 1º novembre 1914,
il nuovo pontefice espresse una dura condanna per la guerra incorso e si
appellò a tutti i governi degli stati belligeranti nella speranza di far tacere
le armi.
Benedetto XV considerava la guerra un flagello
di Dio provocato dalla diffusione
dell'individualismo liberale e del processo di secolarizzazione che portò
all’abbandono della guida della Chiesa cattolica[7]. All’epoca la maggioranza
dei cattolici italiani seguiva le direttive papali ed era neutrale ma per
mantenere ’Italia estranea alle vicende belliche non riuscì ad accordarsi con i
socialisti e i liberali giolittiani, anch’essi contrari all’intervento.
In seguito il papa annullò il non expedit, appoggiò la
formazione del Partito Popolare d’ispirazione cristiana e riconobbe la
legittimità dei lavoratori cattolici di organizzarsi in sindacati di categoria.
4.
Le associazioni e organizzazioni cattoliche.
Nei
primi decenni post-unitari iniziò la diffusione di un apostolato laico consociato
che nelle sue articolate forme (Comitati parrocchiali, Società di Mutuo
Soccorso, Leghe Bianche, Casse di depositi e prestiti etc.), contribuì al
rinnovamento della vita religiosa e dell’attività pastorale.
Nel
1867 per arginare la tendenza a mettere in discussione l’egemonia cattolica e
difendere i diritti della Santa Sede fu fondata a Bologna la Società della Gioventù Cattolica,
il primo nucleo maschile di quella che poi diventerà l’Azione Cattolica
Italiana e propose una nuova forma d’impegno sociale che andava oltre le
pratiche religiose delle antiche confraternite. Tale associazione il 2 maggio
1868 ricevette l’approvazione di Pio IX.
Nel 1874 fu
fondata l’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici che coordinò l’apostolato
laico e fu sciolta nel 1904. La sua finalità era di riunire tutte le
associazioni cattoliche esistenti in Italia in un’azione conforme alle
direttive papali ed esse, guidate dall'episcopato e dal clero mirassero alla
difesa dei diritti della Santa Sede e degli interessi religiosi e sociali degli
italiani.
Nel
1874 l'Opera dei Congressi propose la costituzione di Società Cattoliche di
Mutuo Soccorso al fine di alleviare le sorti dei lavoratori e nello stesso
tempo allontanarli dalle associazioni laiche socialiste, anarchiche e liberali.
I loro statuti evidenziano nuovi modi di manifestare la fede e pietà cristiana.
Infatti, le loro finalità potevano consistere nel diffondere pratiche
devozionali, manifestare esplicite virtù cristiane, chiedere ai propri iscritti
la sottomissione alle leggi statali, avviare attività previdenziali -
assistenziali a favore dei lavoratori, far acquisire loro la consapevolezza dei
propri diritti, favorire l'istruzione per ridurre l'analfabetismo, solennizzare
ricorrenze con cerimonie religiose richiamandosi alla fratellanza cristiana e
alla solidarietà di classe, ecc.
Nell'Italia
meridionale non ebbero molta diffusione, nonostante l’invito a fondarle ovunque
che fu espresso dal IV Congresso Cattolico Italiano tenutosi a Napoli dal 10 al
14 ottobre 1883.
Altre
associazioni cattoliche laicali sorte dopo l'Unità furono i comitati
parrocchiali ai quali il Congresso Cattolico di Firenze del 1875 assegnò vari
compiti tra cui: sostenere la stampa cattolica, contribuire a diffondere
l'insegnamento della dottrina cristiana, favorire la raccolta dell'obolo di San
Pietro e lottare per l'estirpazione della bestemmia[8].
Anche i comitati parrocchiali ebbero una maggiore diffusione nell'Italia
settentrionale. Infatti, nel 1897, ossia nel momento di massima salute dell’Opera
dei Congressi, il 93% delle diocesi e l’89% delle parrocchie del Nord aveva un
proprio comitato parrocchiale; al Centro le percentuali scendevano al 42 e al
18,4%, mentre al Sud e nelle isole i valori percentuali erano ancora più bassi.
A
partire dal 1890 nonostante restasse in vigore il "non expedit",
sorsero i primi movimenti politici cattolici. Essi operarono senza
rappresentanti al parlamento e nella contrapposizione tra i fautori di un
acceso conservatorismo sociale (i cosiddetti cattolici intransigenti) e una
corrente progressista definita democratico-cristiana che fu impersonata dal
sacerdote Romolo Murri e i suoi seguaci.
Dopo
lo scioglimento dell'Opera dei Congressi (1904) e in ubbidienza alle direttive
papali esposte
nell'enciclica
"Il fermo proposito",
alcuni esponenti cattolici fondarono l'Unione Popolare che perseguiva le
seguenti finalità: 1) riunire tutti i cattolici attorno ad un unico centro di
dottrina, propaganda e azione; 2) risolvere i problemi sociali seguendo
l'insegnamento della Chiesa; 3) difendere la libertà d'insegnamento e quello
religioso nelle scuole; 4) lottare contro la precedenza obbligatoria del
matrimonio civile su quello religioso. L'Unione Popolare fu fondata in molte
parrocchie dell'Italia meridionale e, dopo la costituzione del Partito Popolare
Italiano, accentuò il suo orientamento di apostolato religioso. Essa fu sciolta
nel 1922.
Nel
1906 il papa Pio X appoggiò la fondazione dell’Unione elettorale cattolica
italiana per coordinare i cattolici durante le elezioni politiche nazionali. La
sua presidenza fu assunta da Vincenzo Ottorino Gentiloni che in occasione delle
elezioni politiche del 1913 promosse un accordo con Giovanni Giolitti per appoggiare
l'elezione al parlamento dei candidati liberali che avessero ostacolato le
proposte di legge anticlericali.
Oltre
a queste associazioni nel periodo in esame continuarono a essere attive le antiche
confraternite religiose fondate nei secoli precedenti. Nei loro confronti i
governi post- unitari promulgarono varie norme di legge che ridussero i
patrimoni e limitarono le attività all’esclusivo esercizio di pratiche di
culto. Tuttavia quelle che continuarono a sussistere non mancarono di dedicarsi
anche ad attività assistenziali.
5.
I vescovi e il
clero dell’Italia Meridionale dopo l’Unità d’Italia.
L’impresa
garibaldina di conquista del Regno delle Due Sicilie fu appoggiata da una parte
del basso clero mentre la maggioranza degli ordinari diocesani restò fedele ai
Borboni.
Dopo la proclamazione dell'Unità
d’Italia, le nuove autorità chiesero ai vescovi di autorizzare il canto del Te
Deum per celebrare l'avvenuta conquista, ringraziare Dio, legittimare e consacrare
davanti al popolo la nuova situazione politica. Altrettanto si chiese in
occasione di alcune importanti vittorie militari. Alcuni presuli meridionali
accettarono di collaborare con le autorità italiane e accolsero tali richieste.
Tuttavia la maggioranza degli ordinari diocesani nel rispetto delle direttive
papali, del giuramento prestato a favore della monarchia borbonica e del fatto
che la loro autorità fu messa in discussione, si rifiutò di farlo. Diversi
presuli erano convinti che il nuovo Stato fosse l'espressione della tendenza
che dalla Riforma luterana alla Rivoluzione francese mirasse a dissolvere
l'autorità della Chiesa. Altri manifestarono un forte attaccamento alla
monarchia borbonica e al papa di cui vedevano in pericolo il potere temporale.
Per questi motivi nel biennio 1860-1861 si generarono forti tensioni che
portarono all’arresto di vari vescovi e all’allontanamento spontaneo di altri
presuli meridionali da circa una sessantina di diocesi che restarono vacanti
per diversi anni. Ad avviso di De Palma “Spesso
il loro esilio fu dovuto alle pregresse tensioni con il clero e le popolazioni
locali, che si acuirono in concomitanza con i sommovimenti politici unitari,
approfittando del clima sfavorevole ai vescovi, considerati filoborbonici.
Molti presuli, leali con il sovrano e soprattutto fedeli al Papa, non
tolleravano lo spirito antipapale e anticlericale che animava l’impresa
garibaldina e il progetto dell’unificazione nazionale, e perciò furono bollati
come reazionari”[9].
Il
18 ottobre 1860 il prodittatore Pallavicino emanò un decreto con cui annullava
la normativa borbonica che accordava privilegi al clero. Le autorità
ecclesiastiche furono sottoposte a controlli di polizia e sospettate di
cospirare contro lo Stato. A mettere in atto e accentuare queste iniziative
contribuirono i notabili che assunsero cariche di potere e, nonostante si
considerassero ferventi cristiani, per mostrare la fedeltà ai Savoia assunsero
decisi atteggiamenti anticlericali.
Nei
decenni successivi l’atteggiamento generalizzato dei vescovi meridionali si
modificò. Essi iniziarono a non contestare la legittimità delle autorità
unitarie, assunsero posizioni più concilianti e accolsero l’idea di essere
elementi di una stessa nazione che dovevano contribuire a far crescere. Le loro
principali preoccupazioni e interessi erano tentare di limitare e rendere
inattuabili le leggi anticlericali che riguardavano vari temi tra cui il
matrimonio civile, l’insegnamento religioso e il divorzio.
6.
La parrocchia nel periodo post-unitario.
A causa delle mutate condizioni sociali
e politiche del periodo post-unitario si registrarono trasformazioni di ruolo e
funzioni della parrocchia. Il parroco fu privato di antiche funzioni tra cui
quella di ufficiale di stato civile e ne assunse altre completamente nuove.
Infatti, i problemi posti dall'emigrazione, l'anticlericalismo più o meno
diffuso, la questione sociale, le lotte operaie e l'aconfessionalità dello
Stato si ripercossero sulla vita parrocchiale e le attribuzioni dei parroci. In
varie parti d'Italia, la parrocchia si trasformò da centro di vita religiosa in
polo di attrazione attorno al quale si sviluppò un associazionismo laicale
d'ispirazione cristiana: i comitati parrocchiali, le cooperative, le leghe
contadine, le società di mutuo soccorso e via dicendo. Al parroco si chiese di
uscire dalla sacrestia e di essere presente alle nuove istanze poste
dall'emigrazione, la questione sociale, le rivendicazioni contadine e operaie.
Egli fu chiamato a svolgere una nuova opera di assistenza materiale e
spirituale e a saper interpretare in chiave di fede cristiana le domande di
giustizia sociale poste dagli scontri tra classi subalterne e dominanti. Talvolta
i parroci prestavano i soldi per il viaggio ai primi emigranti del periodo post-unitario,
scrivevano le lettere tra i parenti analfabeti, informavano chi richiedeva
notizie sugli emigranti che si volevano sposare, ricordavano a mogli, figlie e
sorelle di tenere un comportamento moralmente corretto in assenza dei loro
uomini e in certi casi mediavano nelle contese tra operai e padroni al fine di
ottenere miglioramenti salariali, riduzioni dell'orario di lavoro e
l’interruzione degli scioperi. Purtroppo non sempre e dappertutto i parroci
seppero interpretare le nuove aspettative di ruolo che la realtà sociale imponeva.
Infatti, alcuni di loro vedevano nelle rivendicazioni e negli scioperi anziché
richieste legittime volte a tutelare la dignità umana e professionale, dei
tentativi di sovversione dell'ordine costituito o meglio di un ordine di natura
divina considerato immutabile. Contro tali richieste di riscatto umano e di
emancipazione sociale una parte della Chiesa continuò a predicare la
rassegnazione e la richiesta ai padroni di maggiore misericordia cristiana.
Altri sacerdoti vedevano negli emigranti che tornavano nel luogo natio un
potenziale pericolo per la vita religiosa locale. Altri chierici anziché porsi
dalla parte dei ceti più deboli appoggiarono le forze conservatrici retrive e
reazionarie.
7.
La religiosità
nell’Italia meridionale durante il periodo post-unitario.
Dopo
l’Unità d’Italia fu
abbandonata la celebrazione di alcune feste religiose, mentre altre furono
introdotte o continuarono a sussistere. Tra le feste abbandonate ci furono le
solennità civili che celebravano le ricorrenze legate alla dinastia borbonica.
Al loro posto furono introdotte altre che celebravano quelle dello Stato
Unitario, gli onomastici e i compleanni di re e regine dei Savoia. Una di esse
fu la festa Nazionale dello Statuto e dell’Unità d’Italia che si celebrava la
prima domenica di giugno. Un’altra importante festa civile ricorreva il 20
settembre, fu introdotta dopo il 1870 e
celebrava la breccia di Porta Pia e la conquista di Roma.
All’epoca le
pubblicazioni cattoliche raggiungevano solo una piccolissima parte dei fedeli a
causa del diffuso tasso di analfabetismo. Ciononostante esse parteciparono al
tentativo di rinnovamento della vita religiosa nell’Italia Meridionale e a tal
proposito De Palma ha scritto:” La pubblicistica
cattolica fece conoscere nel Sud la Dottrina sociale della Chiesa, fece udire
la voce dei cattolici, contribuì a creare un’opinione alternativa al laicismo
dominante, rappresentò le posizioni di una parte della “nuova” società
italiana. Dalle pagine di questi periodici – a diffusione locale – si
incominciò a guardare con occhi nuovi alla presenza dei fedeli nel contesto
sociale del loro tempo. Venne proposto un nuovo modello di clero e di laicato
impegnato a svolgere il proprio ruolo per il progresso civile, politico e
religioso dell’Italia unita, nonché ad osservare con spirito critico la prassi
e gli atteggiamenti più comuni fra i credenti del Sud. La stampa cattolica
diventò un mezzo di comunicazione privilegiato per propagandare una vita di pietà
differente dalla pratica religiosa vissuta fino ad allora nel Mezzogiorno”[12].
Lo stereotipo popolare
dominante della divinità che si ha nel periodo post-unitario è di un ente
soprannaturale che da una parte con la sua onnipotenza regola le leggi della
natura e castiga chi non rispetta le sue direttive; dall’altra con i miracoli e
gli indirizzi sul destino difende gli uomini dalle prepotenze dei suoi simili e
dalle insidie quotidiane. Quindi una divinità paterna, capace di proteggere,
che non abbandona i propri figli, talvolta vendicatrice, da temere e
assecondare.
La gerarchia
cattolica era convinta che si fossero diffusi molti vizi, l'etica sessuale e la
famiglia fossero in crisi e l'immoralità coinvolgesse sempre strati sociali più
vasti.
La popolazione delle campagne, specie
nell’Italia Meridionale restava profondamente ancorata ai suoi modelli
religiosi arcaici e ai suoi riti d’origine pagana. Talvolta accettava i nuovi
culti e pratiche religiose; in altri casi li subiva passivamente poiché completamente
estranei ai loro interessi e valori. A questi personaggi reali ma
apparentemente estranei al divenire storico delle idee, del progresso e delle
trasformazioni sociali, spesso erano solo le parrocchie, il clero e altre
strutture capillari della Chiesa che facevano sentire la loro vicinanza.
Molti vescovi
meridionali vissuti tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo erano
convinti che la religiosità popolare consistesse soprattutto in un formalismo
esterno e pertanto in molte diocesi, furono organizzate celebrazioni liturgiche
che riaffermassero i principi della fede e una più corretta devozione
individuale.
L'arcivescovo
Nicola Monterisi che dal 1913 al 1944 fu alla guida di varie diocesi
dell'Italia meridionale tra cui Chieti e Salerno, ha lasciato significative
testimonianze sulla religiosità. A tal proposito nel 1894 scrisse: "Il movimento anticristiano del governo, lo
spirito, l'ambiente anticattolico del secolo hanno allontanato l'uomo dalle
pratiche veramente religiose conservandone per tradizione o per indole o per
altro le apparenze e direi quasi la scorza. Ne è avvenuto che quindi pochissimi
frequentano i sacramenti; degli uomini specialmente è una parte minima quella
che si fa il precetto; a messa si va per consuetudine; i digiuni, le astinenze
ed altre pratiche comandate si son quasi dimenticate; del prete in genere si ha
poca stima e poca confidenza. D'altra parte intanto feste religiose (almeno
dovrebbero essere), a bizzeffe, processioni fuochi artificiali, ecc. Le
conseguenze, si sa, sono deplorevolissime, specialmente una somma confusione
d’idee e di cose, ibridismo dannosissimo di profano e di sacro, di secolaresco
e di religioso, per cui si fa tanto quanto basta ad attutire un resto languido
di sentimento religioso ed il resto, tutto l’essenziale, va a sfascio. Non si
tratta che qui ci sono de partiti come altrove più o meno distinti. Quelli che
in realtà non ci credono sono pochissimi"[13].
Riguardo il
fatto che generalmente ogni chiesa conservava molte statue Mons. Monterisi, rifacendosi
alla tesi di un parroco di sua conoscenza fece presente: "Senza statue la mia chiesa sarebbe deserta;
col solo Santissimo Sacramento col nostro popolo non si conclude nulla …Una
certa devozione richiede la statua, la statua miracolosa o creduta tale non
perché converta il peccatore, ma soccorra al bisogno temporale immediato. Ciò è
religiosità naturale in quanto secondo la dottrina cattolica il cristiano è
l'uomo che incorporato a Gesù Cristo partecipa ai suoi misteri riproducendoli
in sè"[14].
Le tesi di
Monterisi sopraesposte, seppur maturate durante la sua esperienza pastorale in
Puglia, in linea di massima sono generalizzabili a molteplici realtà
socio-religiose dell'Italia meridionale.
Anche altri
importanti personaggi si occuparono della vita religiosa del Mezzogiorno nel
periodo compreso tra l'ultimo decennio del XIX secolo e la fine della Prima
guerra mondiale. Uno di essi fu Don Luigi Sturzo che nel 1906 che durante un
convegno tenutosi a Firenze affermò: "Ivi
le condizioni sono difficili principalmente perché il contatto delle autorità e
dell'ambiente laico con quello ecclesiastico è troppo continuo... Il clero è in
generale in una condizione di grande inferiorità morale e materiale: esso
dipende dai patroni laici che sono municipio o case principesche, nella
collazione di benefici; e ringraziarsi i quali ha più cura o almeno più
interesse che a sostenere i diritti della chiesa e del popolo; dipende dalle
commissioni laiche spesso sono in mano ai liberali e massoni nelle feste
religiose, dalle confraternite laiche nell'amministrazione interna di molte
chiese; dipende infine dalle famiglie ricche e prepotenti che sostengono molte
spese di culto e che tengono i preti per amministratori, maggiordomi, maestri
di casa. Questo stato di vera e reale dipendenza del clero è aggravato dal
fatto che il sacerdote vive la vita di famiglia, ne cura gli interessi
materiali e morali come il capo della casa, non si allontana dal proprio paese
dove non di rado per conto della famiglia esercita la mercatura o l'industria
agraria anche per vivere, perché la chiesa dà scarsi proventi, riservando a
pochi i pingui benefici"[15].
Anche Gaetano
Salvemini espresse le sue opinioni in materia religiosa e pertanto nel 1911 scrisse
sulla rivista "La Voce il seguente articolo sulle caratteristiche dei
sacerdoti meridionali "I preti agli
occhi del contadino sono individui che fanno scongiuri magici per santificare
certi momenti solenni della vita, garantire il raccolto dagli infortuni e per
assicurare il paradiso a suo tempo, ed anche a questo si comincia a non credere
più, poiché non hanno nessun prestigio e non esercitano alcuna supremazia
morale. Prima del 1860 e negli anni immediatamente successivi, la grande
ambizione delle famiglie che avessero un po' di terra al sole o che aspiravano
ad elevarsi socialmente era di avere un figlio prete. Nella famiglia che
otteneva questa grazia dal Signore, l'avito fondicello ritrovava ben presto un
fratellino. E se la seconda generazione riusciva a produrre un altro prete la
famiglia entrava addirittura tra le case notabili del paese. La terza
generazione arrivava finalmente al canonico, con cui cominciava quasi la
nobiltà. Dopo il 1860 la confisca dei beni ecclesiastici ha ridotto di molto il
benessere del clero. D'altra parte il diffondersi delle idee liberali ha reso
meno apprezzata la professione di aprire o chiudere le porte del paradiso"[16].
La rassegna
sugli studiosi della religiosità dell’Italia Meridionale è molto lunga. Per
concluderla, si riporta la seguente tesi espressa da De Palma nel 2011: “La naturale cristianità del popolo
meridionale relegava i doveri religiosi in determinati luoghi, la chiesa, e in
determinati momenti della vita: la nascita, il matrimonio, la morte. Rimanevano
fuori dalla sfera della propria fede tutti i doveri del cittadino”[17].
Una causa che
scosse profondamente il sentimento religioso nazionale fu il primo conflitto
mondiale che dal 1915 al 1918 vide impegnata anche l'Italia. Nel 1915, prima
dell'inizio delle ostilità da parte italiana, alcuni vescovi meridionali si
allinearono con il governo, presentarono il patriottismo come un dovere
cristiano e chiesero al loro clero e a tutti i diocesani di sostenerla. Diversi
sacerdoti furono inviati al fronte come cappellani militari, mettendo a dura
prova la loro coscienza poiché dovevano portare il messaggio cristiano in un
ambiente in cui il rispetto della vita, la pietà e tanti altri importanti
valori del Vangelo avevano una difficile collocazione. Con questa funzione essi generalmente assolsero ai seguenti
compiti: somministrare l’estrema unzione ai soldati morenti, assistere i
condannati a morte, aiutare gli analfabeti nella corrispondenza con i
famigliari, facilitare le comunicazioni tra le famiglie e l’esercito, etc.
Molti sacerdoti
sia durante la guerra sia dopo la sua conclusione modificarono alcune
convinzioni e atteggiamenti. Altri conservarono un riferimento ideale a certe
immagini di patria, di dovere, di ruolo della religione e di conservazione
dell'ordine che sfociò nell'appoggio dato al fascismo.
8.
Vita sociale e religiosa in
Abruzzo.
8.1. Le
sedi vescovili e i vescovi abruzzesi dal 1860 al 1918
Nel
periodo in esame i Comuni che ora appartengono all’Abruzzo erano ripartiti in
otto diocesi di cui in questa sede si riporta la
cronotassi dei loro vescovi.
Arcidiocesi di Chieti-Vasto
Nel
periodo in esame l’Arcidiocesi fu retta dai seguenti prelati: Luigi
Maria de Marinis (18 settembre 1856 -
27 agosto 1877), Fulco Luigi Ruffo-Scilla
(28 dicembre 1877 -
23 maggio 1887), Rocco Cocchia
(23 maggio 1887 -
19 dicembre 1900), Gennaro Costagliola, (15
aprile 1901 -
15 febbraio 1919) e Nicola Monterisi
(15 dicembre 1919 -
5 ottobre 1929).
Arcidiocesi di Lanciano e amministratori apostolici di Ortona.
Nell’epoca in considerazione la diocesi rimase vacante dal
1866 al 1872 mentre i presuli che la ressero furono i seguenti: Giacomo De
Vincentiis (22 dicembre 1848 -
5 maggio 1866), Francesco Maria Petrarca (23 febbraio 1872 -
26 dicembre 1895), Angelo Della Cioppa (22 giugno 1896 -
29 gennaio 1917) e Nicola Piccirilli (25 aprile 1918 -
4 marzo 1939).
Arcidiocesi de
L’Aquila.
Il 19 gennaio 1876 il papa Pio IX, con la lettera apostolica Suprema
dispositione elevò L’Aquila ad arcidiocesi. I presuli che la ressero nel periodo in esame furono: Luigi Filippi,
(7 marzo 1853 -
28 gennaio 1881), Francesco Paolo
Carrano (16 gennaio 1893 -
1º settembre 1906), Pellegrino Francesco
Stagni, (15 aprile 1907 -
1º gennaio 1916). Dal 1916 al 1918 l’arcidiocesi rimase vacante.
Diocesi di Avezzano o dei Marsi.
La sede della diocesi sino al 1915 fu Pescina. Dopo il terremoto del 1915 essa fu temporaneamente
spostata al palazzo ducale di Tagliacozzo e nel 1924 avvenne lo spostamento
definitivo ad Avezzano che nell’area aveva acquisito una maggiore
centralità. Nell’epoca in esame la diocesi
rimase vacante dal 1863 al 1871, mentre i vescovi che la ressero nel
restante periodo furono: Michelangelo Sorrentino
(19 giugno 1843 - 17 aprile 1863), Federico de Giacomo (22 dicembre 1871 - 6 agosto 1884), Enrico
de Dominicis (10 novembre 1884 - 21 maggio 1894), Angelo Maria Aloisio (18 marzo 1895 - 24 giugno 1895), Marino Russo (29 novembre 1895 - 15 agosto 1903), Francesco Giacci (3 luglio 1904 - 29 aprile 1909). Nicola Cola (15 aprile 1910 - 26 agosto 1910 ) e Pio Marcello Bagnoli (14 dicembre 1910 - 17 gennaio 1945).
Diocesi
di Sulmona-Valva
La
diocesi rimase vacante dal 1861 al 1871. I vescovi che la ressero nel periodo
in esame furono: Giovanni Sabatini (27 giugno 1853 - 10 marzo 1861), Tobia
Patroni (22 dicembre 1871 -
20 agosto 1906) e Nicola
Jezzoni (6 dicembre 1906 - 18
luglio 1936).
Diocesi di Teramo
La cronotassi vescovile nel caso in esame è la seguente:
Michele Milella (20 giugno 1859 -
2 aprile 1888), Francesco Trotta (1º giugno 1888 -
gennaio 1902) e Alessandro Beniamino Zanecchia-Ginnetti (13
luglio 1902 -
21 febbraio 1920.
Diocesi di Penne e Atri.
Vincenzo d'Alfonso (12 aprile 1847 -
23 dicembre 1880 ),
Luigi Martucci (23 dicembre 1880
- 16 dicembre 1889), Giuseppe Morticelli (23 giugno 1890 -
11 dicembre 1905). Raffaele Piras
(6 dicembre 1906 -
23 agosto 1911). Carlo Pensa † (27 agosto 1912 -
16 dicembre 1948).
Diocesi
di Trivento
Nell’epoca
in esame appartenevano alla diocesi i Comuni abruzzesi di Alfedena, Borrello,
Castel di Sangro, Castelguidone, Castiglione Messer Marino, Celenza
sul Trigno, Roio
del Sangro, Rosello, San
Giovanni Lipioni, Schiavi
di Abruzzo e Torrebruna. I vescovi che
ressero la diocesi furono:
Luigi Agazio (23 giugno 1854 -
1º febbraio 1887),
Domenico Tempesta, (14 marzo 1887 -
4 giugno 1891), Giulio Vaccaro †
(4 giugno 1891 -
30 novembre 1896), Carlo Pietropaoli
(19 aprile 1897 -
29 aprile 1913) e Antonio Lega (25 maggio 1914 -
13 giugno 1921).
8.2. L‘Abruzzo e il clero dalla conquista garibaldina al
1861
Nel
1860, quando in Abruzzo si diffusero le notizie dell’impresa dei mille e delle
sue conquiste, alcuni liberali fuggiti tornarono in regione; a Lanciano, Vasto,
nei tre capoluoghi di Provincia e in altri centri minori sorsero
amministrazioni locali e governi provvisori filo-garibaldini. A questi fatti si
aggiungono altri di segno opposto, ovvero i moti popolari reazionari
organizzati in molte località dai filoborbonici tra settembre del 1860 e la capitolazione
di Gaeta (13 febbraio 1861). Essi talvolta furono istigati per mettere in atto
vendette personali e videro la partecipazione di molti contadini che più che
sentirsi legati alla monarchia deposta, volevano manifestare la protesta nei
confronti dei galantuomini da cui si sentivano oppressi, sostennero l’Unità
d’Italia e occuparono le cariche pubbliche nel primo periodo post-unitario.
In
questi frangenti il clero si trovò a districarsi tra le richieste opposte delle
autorità pontificie e italiane e pertanto non assunse posizioni univoche. In
alcuni Comuni una sua parte conservatrice incoraggiò il malcontento popolare,
le iniziative, i pronunciamenti di massa filo borbonici e i moti reazionari
generalmente caratterizzati da scontri armati con la Guardia Nazionale, gli
arresti e le aggressioni ai galantuomini[18].
Ad avviso di Moltese il clero fu il più grande ispiratore e promotore delle
rivolte dei contadini meridionali contro lo Stato Unitario[19].
Le
iniziative degli ecclesiastici per innescare reazioni filo borboniche si
registrarono in tutte le province abruzzesi e alcune sue dimostrazioni le
forniscono i seguenti fatti: 1) il generalizzato atteggiamento assunto dal
clero marsicano che in gran parte si schierò apertamente a favore dei Borboni e
invitò molte persone ad armarsi per combattere gli invasori; 2) i moti
reazionari guidati da due sacerdoti che si ebbero a Opi e Pescasseroli nel mese
di settembre del 1860 [20];
il sacco di Campli che fu organizzato il 24 ottobre 1860 e a cui parteciparono diversi
sacerdoti[21]; quattro
sacerdoti di Cerchio che su denuncia del sindaco, nel 1861 furono processati
insieme ad altri reazionari con l’accusa di aver fatto “discorsi e fatti pubblici diretti a provocare gli abitanti del Regno
d’Italia a distruggere e cambiare il governo, e di due giorni di attentato e
cospirazione tendente a cambiare il governo”[22].
Un’altra
componente del clero abruzzese si schierò con le nuove autorità e celebrò
funzioni religiose a loro favore. Chi scelse questa strada seguì le richieste
di collaborazione e gli ammonimenti che furono rivolti ai chierici da coloro
che in Abruzzo assunsero posizioni di potere dopo l’impresa garibaldina. Uno di
essi fu Clemente De Caesaris che il 21 settembre 1860, che dopo la sua nomina a
governatore dell’Abruzzo Ultra Primo rivolse ai teramani un proclama con il
seguente ammonimento agli ecclesiastici: “Ricordo
ai preti e precisamente a quelli che non sono grandemente evangelici e mi par
che siano i più, persuadersi che se essi sono utili alla società lo sono solo
per istruire il popolo, opporsi all’arbitrio, agevolare i fiacchi, resistere ai
prepotenti. Siano cristiani davvero, ammaestrino il popolo perché così faranno
grande opera di pietà”[23].
Le
iniziative favorevoli o contrarie alle nuove autorità nazionali furono
abbastanza diversificate. Infatti, a Lanciano fu intonato il Te Deum mentre all’Aquila,
Teramo, Sulmona, in diversi Comuni dell’Abruzzo Citeriore, Ulteriore I e della
Marsica vari sacerdoti si fecero promotori di iniziative individuali di giubilo
e lode per le nuove autorità[24].
A L’Aquila, il 7 settembre 1860 l’arcivescovo Mons. Luigi Filippi si allontanò
dalla diocesi, il 9 settembre un arcidiacono intonò il Te Deum[25],
si costituì un comitato di pubblica sicurezza comprendente due religiosi e i
francescani del convento di San Bernardino scrissero una lettera plaudente a
Vittorio Emanuele II che fu pubblicata il 28 dicembre 1860 da un giornale
locale[26].
A Teramo il vescovo Milella in data 9 settembre 1860 recitò il Te Deum per
festeggiare l’ingresso a Napoli di Garibaldi e l’11 novembre 1860 per quello di
Vittorio Emanuele II. A Chieti il 10 settembre 1860 l’arcivescovo Luigi Maria
De Marinis coadiuvato da tutto il clero della città intonò nella cattedrale di
San Giustino un Te Deum di ringraziamento in onore del re[27].
Qualche settimana dopo (4 ottobre 1860), Il Governatore De Thomasis chiese
all'arcivescovo di nominare tre sacerdoti per la celebrazione di un triduo di
ringraziamento al Signore per le vittorie militari riportate dall'esercito
sabaudo. Mons. De Marinis rispose affermativamente ed inviò una lettera a tutti
i vicari foranei della diocesi invitandoli per esortare i fedeli durante la
messa domenicale ad essere rispettosi del nuovo ordine costituito, delle leggi
e delle nuove autorità, affinché "compia
ognuno con la sua maggior esattezza le obbligazioni che lo riguardano ed
aborrisca da ogni tumulto fratricida" [28]
Mons. De
Marinis rispose positivamente anche all’invito del governatore a sollecitare i
parroci di placare i contadini che lottavano per conservare gli usi civici[29].
Il presule era un vescovo tradizionalista filo-borbonico che in questi
frangenti si dimostrò aperto e collaborativo al fine di stabilire buoni
rapporti di convivenza con le nuove autorità e nello stesso tempo evitare che
scoppiassero moti violenti di guerra civile. Questa collaborazione ebbe vita breve
poiché
il 16 febbraio
1861 De Marinis lasciò la diocesi in segno di protesta verso le nuove autorità
e si rifugiò all’Aquila dove restò sino al 27 dicembre 1866[30].
Il clero diocesano dopo l’abbandono del presule non restò unito contro le
autorità italiane e si suddivise in una fazione liberale e un’altra
filo-borbonica.
Il
14 ottobre 1860 Chieti fu raggiunta da una colonna dell’esercito piemontese
guidata dal generale Cialdini e L’Aquila da un battaglione di bersaglieri. In
seguito Cialdini e il suo esercito partirono da Chieti, attraversarono la valle
dell’Aventino, a Castel di Sangro (Aq) si ricongiunsero con un’altra colonna di
piemontesi proveniente dalla Conca Peligna e insieme proseguirono per Napoli.
L’Abruzzo
fu attraversato anche da una colonna armata guidata da Vittorio Emanuele II che
il 15 ottobre 1860 fu omaggiato a Giulianova e poi proseguì il viaggio. Il 16
ottobre raggiunse Castellamare Adriatico, l’odierna Pescara ove soggiornò a
Villa Coppa e s’intrattenne in colloquio con il vescovo di Penne Mons. Vincenzo
D’Alfonso[31]. Il 18
ottobre Vittorio Emanuele II arrivò a Chieti ove fu accolto in piazza San
Giustino dall'arcivescovo De Marinis con tutto il Capitolo della Curia. Ad
avviso di Costantini, durante la presenza a Chieti, Vittorio Emanuele fu
ossequiato da 200 sacerdoti che quando tornarono nei loro Comuni non
risparmiarono critiche al nuovo arrivato e in alcuni casi animarono rivolte[32].
In seguito Vittorio Emanuele giunse a Sulmona ove fu accolto fuori città dal
vescovo Sabatini e accompagnato alla cattedrale di San Panfilo ove fu intonato
Il Te Deum in suo onore [33].
Quando Vittorio Emanuele giunse a Castel di Sangro fu accolto anche dal clero
locale che uscì da una chiesa con un crocifisso che fu baciato dal Re[34].
Quando il Re arrivò sul ponte Zittola posto al confine con il Molise, fu
accolto da una delegazione di notabili provenienti da diversi Comuni e da un
sacerdote che gli recitò un sonetto[35].
I
fatti riportati denunciano un iniziale appoggio delle popolazioni dei luoghi
attraversati e del clero al nuovo potere civile e militare sardo-piemontese e
da parte di quest'ultimo la volontà manifesta di coinvolgere le autorità
ecclesiastiche nei propri disegni politici. Questa collaborazione, come visto nel caso di Mons. De
Marinis durò poco.
Infatti anche in Abruzzo, a breve distanza di tempo le autorità italiane si
mostrarono più distaccate dalla Chiesa e iniziarono a colpirla con vari
provvedimenti anticlericali, mentre le autorità religiose si arroccarono su
posizioni intransigenti, con l’effetto di incrementare le difficoltà di buone
relazioni.
8.3
Il brigantaggio abruzzese e il clero.
In
Abruzzo tra il 1860 e il 1870 si costituirono bande di briganti che si resero
protagoniste di vari fatti criminosi (estorsioni, rapine, saccheggi, sequestri
di persone, omicidi, stupri, uccisioni di animali, vendette personali e altro)
contro la popolazione civile e scontri armati con le truppe piemontesi e le
forze di polizia. L’origine e diffusione del fenomeno ha diverse motivazioni.
Una di esse, di natura politica, è la contestazione delle nuove autorità
statali nella speranza di un ritorno al vecchio regime borbonico. Un’altra
motivazione è rappresentata dalla protesta contro le generalizzate condizioni
di malessere e miseria che si vennero a creare dopo l’Unità d’Italia. In
Abruzzo la sensazione di aver subito una conquista militare non assecondata
dalla maggioranza della popolazione, la trasformazione della proprietà
fondiaria, le leggi anticlericali, l’eccessivo carico fiscale imposto dal
governo unitario, l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, la leva
obbligatoria e le conseguenti difficoltà economiche generarono forti malumori
che innescarono moti di protesta che portarono anche alla formazione di gruppi
armati alcuni dei quali furono definiti briganti. In considerazione di questi
fatti e degli atti criminosi sulla popolazione civile, il brigantaggio iniziale
deve considerarsi un fenomeno delinquenziale derivato dalle difficili
condizioni esistenziali della popolazione e dalla protesta contro le nuove autorità.
Alle sue bande iniziali aderirono contadini, ex soldati dell’esercito borbonico
e in alcuni casi anche dei chierici che contestavano allo Stato Unitario la
riduzione dei privilegi che godevano durante l’amministrazione borbonica.
Alcuni sacerdoti che l’appoggiarono furono trattati come volgari delinquenti,
arrestati e severamente condannati a diversi anni di lavori forzati. Oltre a
tali chierici, in Regione visse un clero pavido, da qualcuno definito “alla Don
Abbondio” che di giorno intonava Te Deum filogovernativi e la notte accoglieva
i briganti[36]. Le
adesioni ecclesiastiche al brigantaggio caddero inesorabilmente alla fine del 1865, quando il Delegato Apostolico
Mons. Pericoli il 17 dicembre, con l’emanazione dell’editto di Frosinone lo condannò
ufficialmente poiché le autorità pontificie cambiando atteggiamento, non lo
consideravano più un fenomeno di protesta politica.
In
precedenza altri ecclesiastici si espressero contro il fenomeno. Tra essi
l’Arcivescovo di Chieti che il 22 agosto 1863 inviò una lettera a tutti i
vicari foranei invitandoli a informare i parroci di spiegare ai loro fedeli i
danni che causava il brigantaggio e di spingerli a prodigarsi per il recupero
dei briganti stessi. Diversi chierici che non li appoggiarono furono vittime
delle loro scorribande, subirono intimidazioni, furti e sequestri. Uno di essi
fu l’arciprete di Castiglione Messer Marino che fu costretto a interrompere la
celebrazione di una messa e a fuggire vestito con i paramenti sacri [37].
Un
altro fu un prete di Caramanico che fu assassinato[38].
Alcuni sacerdoti cercarono di limitare le efferatezze delle scorrerie
brigantesche. Per questi motivi organizzarono processioni religiose e con esse
andarono incontro ai fuorilegge per implorarli a non compiere massacri e atti
di vandalismo contro la popolazione civile. A Fara San Martino, invece
l’arciprete organizzò una processione per andare incontro a un drappello di
piemontesi incaricato di reprimere il brigantaggio locale e supplicarlo di non
mettere a ferro e fuoco il paese[39].
Al
brigantaggio non aderirono i membri della borghesia e i proprietari terrieri,
alcuni dei quali anche in Abruzzo s’iscrissero alla carboneria, dopo l’Unità
d’Italia formarono la classe dirigente regionale ed ebbero riconosciuti meriti,
titoli e proprietà.
Una
banda di briganti tristemente famosa è la cosiddetta "banda della Maiella” i cui membri
scolpirono su uno sperone roccioso detto “La Tavola dei Briganti”, la seguente incisione: “Leggete la mia memoria per i cari lettori.
Nel 1820 nacque Vittorio Emanuele Re d'Italia. Prima era il regno dei fiori,
ora è il regno della miseria”.
L’adesione
alle bande avveniva con un rito di giuramento che conteneva una dichiarazione
con i seguenti riferimenti religiosi: “ Noi
giuriamo dinanzi a Dio e al mondo intero di essere fedeli al nostro
angustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); Noi
giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che
è il regolatore dei sovrani, trionfi con il ritorno di Francesco II, re per la
grazia di Dio, difensore della religione e figlio affezionatissimo del nostro
Santo Padre Pio IX che lo custodisce nelle sue braccia; Noi promettiamo
coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di
abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele II e i suoi complici”[40].
Con
il passare del tempo, come ha fatto notare Colapietra, nei briganti la parvente
volontà politica di ripristinare l’antico regime si affievolì e rimasero le
attività criminose[41].
8.4
La Chiesa e lo Stato in Abruzzo dalla proclamazione dell’Unità d’Italia al
1918.
Nei primi
anni post-unitari, i rappresentanti delle istituzioni statali italiane
inviarono varie lettere alle autorità ecclesiastiche del Regno chiedendo il
loro supporto nell’attuazione dei programmi governativi. La collaborazione con
la Chiesa era importante poiché quest’ultima aveva una fitta organizzazione
capillare nel territorio, attraverso le parrocchie poteva condizionare
l’opinione pubblica e offrire un valido contributo alla diffusione popolare
degli ideali nazionali. Le richieste di collaborazione non furono accolte da
tutti i vescovi e chierici delle diocesi abruzzesi, come dimostrano i fatti che
seguono. Il
2 giugno 1861 in occasione della festa dello Statuto l’Arcivescovo dell’Aquila
si rifiutò di parteciparvi[42].
Anche il vescovo di Teramo Michele Milella si rifiutò di celebrare il Te Deum e
per questo motivo fu posto sotto stretta sorveglianza. In seguito il presule fu
arrestato poiché sospettato di aver favorito attività illecite filo-borboniche
ed esiliato a Genova ove restò fino ai primi di gennaio del 1867. Il vescovo di
Lanciano Mons. De Vincentiis invece fece intonare il Te Deum e per il suo
atteggiamento filo-governativo fu ricompensato dall’onorificenza della commenda
mauriziana[43].Nella
diocesi di Chieti il Te Deum fu intonato da alcuni sacerdoti, mentre dal suo
esilio aquilano si levò la dura protesta dell’arcivescovo De Marinis contro di
essi.
Il
5 giugno 1861 morì Camillo Cavour e poiché era stato scomunicato, non potevano
essere celebrate orazioni funebri in suo favore. Anche questa prescrizione non
fu seguita da tutto il clero regionale e alcuni sacerdoti mossi da pietà
cristiana vollero celebrarle. Uno di essi fu Padre Raffaele da Palombaro.
L’annessione
all’Italia unita comportò l’arrivo e lo stanziamento in Abruzzo di altri reparti
militari che per trovare alloggio occuparono chiese, conventi e seminari
suscitando le proteste delle autorità ecclesiastiche. In particolare,
nell’aprile del 1961 una colonna dell’esercito piemontese occupò i locali della
parrocchia di Crognaleto (Te) il 10 agosto 1861 un’altra colonna occupò il
seminario di Chieti e anche il seminario di Lanciano subì la stessa sorte[44].
Un altro esempio è costituito dall’ex monastero celestino di Lama dei Peligni
che nel 1866 fu soppresso per la seconda volta e per alcuni anni fu adibito a
caserma per un battaglione di fanteria.
Nel 1861, il
generale Pinelli dopo la sua nomina a comandante della regione abruzzese diffuse
un manifesto in cui accusava i preti di fomentare i moti reazionari[45].
In seguito molti chierici subirono
maltrattamenti
venendo in certi casi arrestati e fucilati. Uno di essi fu il parroco di
Sant’Omero (Te) che nel 1861 fu arrestato da un plotone di piemontesi poiché accusato
di aver fatto suonare le campane a lutto durante la festa del compleanno di
Vittorio Emanuele II[46].
Ad esso si aggiunge un sacerdote della diocesi teatina che subì cinque giorni
di arresto poiché accusato di aver turbato l’ordine pubblico, diffuso insinuazioni
contro le autorità, la truppa ed altro[47].
Oltre
ai problemi con le autorità statali, diversi sacerdoti furono oggetto di
sanzioni anche dalle autorità ecclesiastiche. Infatti, nello stesso anno un arcidiacono fu
condannato dal vescovo di Chieti a trenta giorni di ritiro spirituale poiché
colpevole di aver votato positivamente al plebiscito di annessione all’Italia.
Un
altro importante avvenimento dell’anno in corso è rappresentato dalla caduta in
maggio (circa due mesi dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia), dell’ultimo
baluardo borbonico ancora esistente: la fortezza di Civitella del Tronto.
I nuovi problemi
posti con l'Unità d'Italia impegnarono i vescovi regionali in un'azione
pastorale
che rivitalizzasse
la conoscenza dei principi evangelici. In linea con questi aspetti vari
ordinari diocesani incentivarono le quaresimali e le missioni dei predicatori
ma queste attività furono seguite dalle autorità civili che imposero alcune
restrizioni. Infatti nel 1861 i predicatori quaresimali furono strettamente
sorvegliati dalle autorità civili. Essi non dovevano fomentare disordini ed ebbero l'ordine
di fare elogi al re e al nuovo governo durante le orazioni religiose. Coloro che non seguivano le
prescrizioni governative, censuravano le leggi e le istituzioni statali erano
trattati alla stregua dei delinquenti comuni e rischiavano l’arresto.
Come appare
dalle cronotassi vescovili, varie diocesi regionali tra il 1861 e il 1870
rimasero vacanti poiché furono temporaneamente abbandonate dai loro titolari e
non si riusciva a nominare il nuovo vescovo a causa delle tensioni con la Curia
Romana.
Nel 1863 furono
confiscati vari beni ecclesiastici e si ridussero le parrocchie e i sacerdoti.
Nello stesso anno al minore osservante Bernardo da Gessopalena fu negato il
permesso di assumere cariche ecclesiastiche e fu costretto a lasciare il
convento di Lama dei Peligni poiché ritenuto "clericale sfegatato e non
esprimerlo che poi si avvalga del suo ministero sacerdotale o fratesco per
avversare il governo è cosa generalmente ritenuta"[48].
Nel 1862, una
richiesta del Comando Militare dell’Abruzzo che riguardava la leva militare fu
accolta positivamente dal Vicario Capitolare di Chieti che decise di
collaborare[49].
Il 22 agosto1873
fu organizzata a Civitella del Tronto una manifestazione commemorativa
dell’Unità d’Italia che comportò il coinvolgimento delle strutture e autorità
ecclesiastiche che risposero positivamente[50].
Nel 1875 la
Curia dei Marsi si scontrò con le autorità civili ponendo il veto alla nomina
di un sacerdote che aspirava a un canonicato di regio patronato della
cattedrale di Pescina[51].
Nel 1876 Mons.
Luigi Filippi, il primo arcivescovo dell’Aquila, fu obbligato ad abbandonare la
diocesi poiché
per le autorità civili era una minaccia per l’ordine pubblico.
Negli ultimi
decenni di fine secolo la questione sociale e l'emigrazione imposero nuovi
orientamenti pastorali a cui non sempre il clero abruzzese seppe rispondere con
adeguatezza. Infatti, la nostalgia del legittimismo borbonico,
l'intransigentismo cattolico e i richiami al passato erano gravi ostacoli che
non agevolavano la corretta apertura della Chiesa abruzzese alle istanze della
contemporaneità. Questo non significa che il clero regionale fu completamente dominato
dall’oscurantismo e dalla chiusura, come dimostra il fatto che i suoi organi
direttivi lentamente iniziarono una svolta tendente a rinnovare il modo di
praticare e vivere la fede cristiana.
L’Arcivescovo di
Chieti Ruffo Scilla che sul piano dottrinario era intransigente, cercò di
aprirsi ai problemi dell'epoca. Il presule espresse condanna per le ideologie
laiche, accentuò la devozione mariana, promosse l'indulgenza a chi partecipava
ad alcune pratiche devozionali, incentivò le iscrizioni alle associazioni
cattoliche e attraverso le lettere pastorali cercò un nuovo rapporto e dialogo
con i diocesani. Il 17 febbraio 1878, ad avviso di Trinchese, l’arcivescovo
nella sua prima lettera pastorale “sollecitò il clero e il popolo a una
docile sottomissione al Sillabo e ai dogmi del Concilio Vaticano I e infine a
respingere le malsane teorie conciliatoriste e cattolico-liberali contro cui si
era eretto il romano pontefice”[52].
In una lettera pastorale del 27 febbraio 1878 il presule dimostrò un’apertura
ai problemi della contemporaneità e sollecitò il clero diocesano ad aprirsi al
dibattito culturale e all’impegno sociale[53].
Tuttavia, ad avviso di Trinchese il suo impegno per i problemi sociali e il
mondo del lavoro non fu brillante[54].
Durante i giorni 5 e 6 maggio del 1879 si organizzò a Ortona il primo
raduno del Comitato regionale dei tre Abruzzi per l'Opera dei Congressi
Cattolici in Italia. Il fatto dimostra che in Regione si era formato un
embrione del movimento cattolico che dai dati disponibili sembra non fosse
molto diffuso. Il
10 luglio 1879, dopo la sua
conclusione, il Prefetto dell’Aquila scrisse una relazione al Ministero degli Interni in cui faceva presente che
nella sua Provincia esisteva un partito radicale che pur senza essere imponente
era importante e aveva partecipato al congresso cattolico regionale che si era
tenuto a Ortona nel mese di maggio[55].
L’arcivescovo
Rocco Cocchia, dall’anno della sua venuta a Chieti (1887) avviò la
riorganizzazione della vita ecclesiale che culminò nella celebrazione di un
sinodo e la riapertura del seminario avvenuta nel 1889. Nel 1898 il
presule prescrisse che si istituisse un comitato parrocchiale in ogni
parrocchia della diocesi[56].
Nel 1890 durante l'inaugurazione di un corso di agronomia al seminario di
Chieti, Mons. Cocchia esaltò il lavoro dei campi e il mondo contadino in quanto
simboli di ordine, di moralità e di manifestazioni cristiane. Nell'occasione
l'ordinario diocesano più che mostrare un vero e proprio interesse verso i
problemi degli agricoltori volle proporre o meglio riproporre atteggiamenti e
costumi sociali di uomini che sapevano conservare le proprie tradizioni religiose
nonostante la diffusione di idee socialiste e dello spirito laico dell'Italia
postrisorgimentale.
La diffusione
delle associazioni cattoliche in Abruzzo avvenne con una certa lentezza, come
prova il fatto che in regione, alla fine del XIX secolo l'Azione Cattolica non
aveva ancora una vera e propria organizzazione locale. Nel 1899 il sacerdote
don Giovanni Travaglini in una relazione letta al Congresso Cattolico Regionale
dell’Aquila mise in evidenza che l’Associazione Cattolica aveva delle difficoltà
a diffondersi e individuava le principali cause in alcuni atteggiamenti e
modelli culturali dell’epoca che saranno evidenziati nel prossimo paragrafo. A
suo dire il cattolicesimo abruzzese era caratterizzato dai seguenti difetti:
l’ignoranza, l’inerzia e il fanatismo[57].
Il vescovo di
Trivento Mons. Carlo Pietropaoli nel 1900 fece presente che nella sua diocesi
l'azione cattolica “si conosce appena di
nome e quelli che potrebbero aderirvi sono troppo timidi. La più parte dei
cattolici, di nome cattolici, sono infeudati nel partito politico dei moderati
e sospettano qualunque movimento per cui è necessario prima svecchiare il clero
e dare dei buoni zelanti parroci alle varie borgate”[58].
Nel 1903 ad Atessa quattro sacerdoti locali coadiuvati da alcuni
notabili, ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa, fondarono la Cassa
Rurale Cattolica di Depositi e Prestiti che in seguito mutò il suo nome in
Banca di Credito Cooperativo Sangro Teatina. L'idea di fondare un
istituto di credito venne per fornire prestiti agli agricoltori, stretti tra la
miseria quotidiana e l’usura.
Nel 1905 a Vasto
fu fondato il Circolo Culturale San Filippo Neri da Don Vincenzo Canci che in
Abruzzo fu un artefice dello sviluppo del movimento cattolico, animò
l’associazionismo e il dibattito culturale religioso con la fondazione di
circoli, giornali e la partecipazione a convegni. In seguito tra il 1911 e il 1918,
il sacerdote vastese si rese protagonista delle seguenti iniziative: la
fondazione a Chieti del Circolo Culturale Cattolico (1911); la nomina a presidente
dell’Azione Cattolica teatina e la fondazione del giornale l’Abruzzo Giovanile
nel 1913; l’organizzazione e partecipazione ai primi tre congressi giovanili
cattolici abruzzesi che si svolsero a Sulmona nel 1911, a Chieti nel 1913 e di
nuovo a Sulmona nel 1917.
Nel 1908 fu decisa l’istituzione a Chieti e all’Aquila di due seminari
interdiocesani.
Per quanto
riguarda le ricadute del Patto Gentiloni, ad avviso di Trinchese l’Abruzzo ne
fu estraneo[59]. In
realtà sembra che qualche timida iniziativa sia
avvenuta in Provincia di Teramo ove un liberale moderato fu appoggiato da un
esponente cattolico.
Il
15 giugno 1910, il vescovo di Atri e Penne Mons. Raffaele Piras scrisse una
lettera pastorale in cui invitava il clero diocesano e tutti i cattolici ad
iscriversi all’Unione Popolare. La lettera che ogni parroco doveva leggere ai
fedeli durante la messa, conteneva anche lo Statuto dell’associazione e
annunciava che nel rispetto delle direttive pontificie, ad Atri e Penne si
erano costituiti due comitati diocesani allo scopo di reggere, coordinare e
promuovere l’azione cattolica locale.
Nel
1911 in alcune diocesi abruzzesi c’era una carenza di sacerdoti e il rapporto tra
clero secolare e popolazione era inferiore ai valori medi che si registravano
nell’Italia settentrionale (1,79 ogni mille abitanti), centrale (2,62) e
meridionale (2,13). Infatti, nella diocesi dei Marsi il rapporto era di 0,97 e in
quella di Chieti - Vasto 0,56. Nella diocesi di Lanciano-Ortona esso invece era
di 3,3[60].
Nel
1911 risulta che a Gagliano Aterno (Aq) era stata fondata una Cassa Rurale
d’ispirazione cattolica e ad Antrodoco che all’epoca apparteneva alla Provincia
dell’Aquila si era organizzato un convegno per promuovere l’Azione Cattolica in
Abruzzo[61]. Una risposta a questo invito la dette il sacerdote Don
Nicola De Luca, un pioniere dell’Azione cattolica abruzzese, che nel 1915 istituì
nella diocesi di Penne un circolo per la gioventù cattolica denominato “Giovane
Abruzzo”[62].
Oltre
alla diffusione dei circoli cattolici, la vita religiosa dell’epoca in vari
Comuni regionali fu caratterizzata da diversi scontri tra la popolazione civile
e i parroci che non erano graditi. Ciò avvenne nel 1912 a Cupello, Schiavi
d’Abruzzo, San Giuliano Teatino, Roccamorice e Semivicoli, mentre a Musellaro
sorse una controversia tra il parroco e la Congregazione di Carità che
riguardava il diritto di possesso di una cappella laicale[63].
L’ultimo aspetto
da evidenziare riguarda le vicende della prima guerra mondiale. Al conflitto
parteciparono 203835 soldati abruzzesi in gran parte costituiti da contadini
analfabeti contrari alla guerra e che non avevano mai sentito parlare del
Carso, Trento e Trieste. Durante le sue fasi persero la vita oltre 22000
soldati regionali a cui si aggiungono coloro che morirono dopo la conclusione delle
vicende belliche a causa delle malattie e ferite contratte con la permanenza al
fronte.
Durante gli anni
di guerra in diversi Comuni abruzzesi furono allestiti campi di concentramento
(Avezzano, Bucchianico, Chieti, L’Aquila, Sulmona, etc.) ove furono accolti prigionieri
austro-ungarici. In questo caso uomini, donne e bambini della Regione che non
erano mai usciti dai confini dei loro paesi e circondari vennero a conoscenza
per la prima volta dell’esistenza di persone di altre nazionalità, lingue e
religioni. Per quanto riguarda il clero regionale: una sua parte si mantenne
neutrale; una seconda parte fu inviata al fronte come cappellano militare e
appoggiò l’ingresso dell’Italia in guerra; una terza parte espresse la sua
contrarietà al conflitto. Alcuni sacerdoti che tra il 1917 e il 1918 espressero
opinioni contrarie alla guerra furono considerati dei disfattisti e arrestati.
Tra questi l’arciprete di Cansano, il parroco di Cantalice, un frate di
Avezzano, un prete di Civitella del Tronto che poi fu prosciolto dalle accuse e
un altro[64].
8.5
La religiosità popolare in Abruzzo dal 1860 al 1918.
Nel periodo in
esame in Abruzzo la pratica e il sentimento religioso popolare andarono
incontro a varie modifiche. In particolare, ad avviso di Della Penna nella
diocesi teatina della seconda metà del XIX secolo “Da una parte c’è ancora
un popolo fedele alla Chiesa e alle vecchie tradizioni e dall’altra si
assiste a una sua progressiva scristianizzazione dietro la suggestione e
l’influenza dei tempi e delle nuove leggi”[65].
A sua volta l’arcivescovo
De Marinis
scrisse che:
la popolazione diocesana era assidua alle funzioni religiose e contribuiva alle
opere di propaganda fide; durante le processioni sopravvivevano alcuni abusi;
tra i giovani si erano diffuse una rilassatezza di costumi e una scarsa pratica
religiosa che portavano all’allontanamento dalla chiesa[66].
Altri studi e pubblicazioni evidenziano
che secondo le autorità ecclesiastiche la popolazione aveva la tendenza ad
assumere atteggiamenti corrotti e lo scarso rispetto di alcuni sacramenti[67].
Questi fatti probabilmente avevano la loro origine nella diffusione del
laicismo che caratterizzava l’ideologia liberale delle autorità governative, i
principi del socialismo e la scelta governativa d’introdurre il matrimonio
civile che fu ritenuto dalla Chiesa la legalizzazione del concubinato.
Un altro
contributo descrittivo sulla religiosità abruzzese in questo periodo storico lo
fornisce il sacerdote don Giovanni Travaglini che nel 1899 lesse una relazione
al Congresso Cattolico Regionale de L'Aquila in cui fece presente che nella
diocesi di Chieti: 1) era penetrato uno spirito conciliatorista che metteva in
dubbio la parola del papa, portava a discutere i suoi dettami e alla
disubbidienza; 2) i cattolici al momento delle elezioni non rispettavano il non
expedit; 3) la popolazione ignorava profondamente i principi cristiani, i
contadini erano molto superstiziosi e avevano un'ignoranza quasi assoluta in
fatto di religione nonostante affermassero di avere la fede; 4) l'emigrazione e
il servizio militare obbligatorio avevano contribuito ad alimentare i dubbi
sulla veridicità dei dogmi del cristianesimo[68].
Le opinioni
espresse da don Travaglini al congresso dell'Aquila erano abbastanza condivise
dal clero regionale di fine secolo. è interessante
notare che il sacerdote rilevò che l’emigrazione e il servizio militare erano
responsabili dei dubbi sui dogmi del cristianesimo. In effetti, l’uno e l’altro
mettevano in contatto gli abruzzesi con persone di altra mentalità e cultura
religiosa di cui era impossibile non accogliere alcuni tratti. Questo fenomeno
diventò ancora più appariscente nei primi due decenni del XX secolo quando il
ritorno dei lavoratori emigrati si fece più massiccio e, dopo la conclusione
del primo conflitto mondiale, quando fu accompagnato da quello degli ex
combattenti.
All’epoca si può
dire che circa il 97-99% della popolazione regionale professava l’adesione alla
religione cattolica ma il modo di viverla e manifestarla era molto vario e
dipendeva da molteplici fattori. Si può dire che esistesse una religiosità
praticata dalle classi sociali agiate che si poteva permettere di avere oratori
privati nelle abitazioni e preti precettori, far celebrare numerose messe annue
per i defunti, avviare membri al sacerdozio, avere posti riservati, targhe
ricordo e tombe famigliari in chiesa. Esisteva la religiosità interna e
l’atteggiamento laico esteriore delle autorità pubbliche abruzzesi che come
visto, nonostante si considerassero ferventi cristiani, assunsero decisi
atteggiamenti anticlericali e non misero in pratica alcuni principi del loro
credo religioso. Infine esisteva la religiosità popolare della maggioranza
della popolazione con propri connotati e caratteristiche espressive. A tal
proposito nei documenti folklorici degli ultimi decenni del XIX secolo e dei
primi di quello successivo, vari studiosi (De Nino, Finamore e Pansa) hanno dimostrato
che la religiosità popolare era caratterizzata da aspetti magico-religiosi in
cui la religione cristiana si mescolava con antiche credenze magiche d’origine
pagana sopravvissute nel tempo. Anche l’inglese Anne MacDonnell durante un suo
viaggio in regione giunse a queste conclusioni. Infatti nel 1907 scrisse che in
Abruzzo la Chiesa è una potenza senza rivali. Il popolo nonostante la formale
sottomissione ad essa conservava la fede nelle sue antiche conoscenze segrete,
la magia, la divinazione e la stregoneria. Poi aggiunse che la fede degli
abruzzesi si nutriva di selvaggi pagani e santi cristiani ascetici che convivevano
fianco a fianco[69].
Altri aspetti
della religiosità popolare si ricavano dalla seguente lettera pastorale
collettiva dell’episcopato abruzzese che fu scritta nel 1914: “Nessuno
ignora come il modernismo, vero flagello dell’età presente, abbia diminuito
assai, anche nel clero, il rispetto dovuto ai successori degli Apostoli.
Vediamo però quanto sia punito tal peccato. I fedeli tentano sottrarsi ai
sacerdoti, ai quali non vogliono più obbedire[70].
Alcune
caratteristiche generalizzate della religiosità popolare abruzzese del periodo
in esame sono le seguenti: 1) un universo di credenze superstiziose che
nascevano da un'interpretazione magica del mondo e non avevano nulla a che fare
con il cristianesimo; 2) la rassegnazione fatalistica a un divenire quotidiano che
poteva essere modificato solo dall’intervento soprannaturale; 3) la concezione
della divinità come un'entità suprema dotata di un potere immenso che penetrava
dappertutto regolando il funzionamento del mondo e il destino dell'uomo; 4) la
concezione dei santi come numi tutelari dotati di ampi poteri magici e la capacità
d’intercedere presso Dio per ottenere grazie utili a risolvere gravi problemi
esistenziali; 5) l’esistenza di leggende che ammettono visioni soprannaturali,
passaggi e visite dei santi protettori nei luoghi in cui erano venerati; 6) la
pratica dei rituali religiosi previsti dalla chiesa e dalle consuetudini locali
al fine di ottenere la protezione soprannaturale, il benessere materiale e una
buona immagine comunitaria.
All’epoca i
riferimenti fisici imposti dalle dimensioni del villaggio, dai suoi edifici
religiosi e dai cimiteri erano importanti segni che definivano lo spazio delle
identità collettive e da cui avevano origine particolari atteggiamenti,
comportamenti quotidiani e varie credenze. I confini materiali dei centri
abitati spesso erano contrassegnati da edicole, croci, chiese e altri riferimenti
religiosi con funzioni protettive dalle creature fantasiose e gli spiriti
maligni contrari alla vita che secondo l’immaginario popolare vivevano nei
luoghi di paura dei suoi ambiti esterni (grotte, pozzanghere, boschi, corsi
d’acqua, etc.).
Un’altra
particolare caratteristica della religiosità popolare abruzzese del periodo in
esame che in diversi Comuni è persistita sino alla prima metà del XX secolo
consiste nella licitazione delle statue. Con tale espressione si indicano le
aste che si organizzavano per scegliere le persone che dovevano portare le
statue dei santi in processione, una particolare usanza che il sinodo diocesano
teatino del 1926 ritenne una profanazione intollerabile. Di solito i
partecipanti alle aste erano sempre numerosi e le offerte in natura o in denaro
oltre che per devozione si facevano nella speranza di propiziare l’intervento
protettivo del santo da eventuali calamità e disgrazie. La licitazione della
statua consentiva di portarla in processione solo a chi faceva le maggiori
offerte. In questo modo si riaffermavano anche durante una manifestazione di
devozione collettiva le gerarchie economico-sociali comunitarie e la loro
capacità di controllo sulle norme e valori della popolazione.
Dopo l’Unità
d’Italia, in Abruzzo furono introdotte nuove feste religiose e altre furono abbandonate.
Una di esse fu celebrata per la prima volta a Magliano dei Marsi il 22 ottobre
1861 per commemorare il mancato saccheggio del paese da parte di un battaglione
dell’esercito borbonico composto da 600 soldati. L’avvenimento è caratterizzato
dall’intreccio di un fatto storico realmente accaduto con elementi leggendari e
fatti di fede. Infatti, il mancato saccheggio sarebbe stato la conseguenza di
una visione miracolosa e di apparizioni in sogno dei santi protettori del paese
che in entrambi i casi invitarono a desistere dall’attacco[71].
Nel 1860 nel
Comune di Montorio a Vomano, la celebrazione dell’importante festa della
Madonna del Ponte fu spostata da settembre a ottobre.
Nel periodo in
esame, le feste religiose oltre che momenti in cui manifestare la propria fede religiosa
e partecipare a comuni pratiche di culto: 1) riproponevano alcune antiche
condizioni di assoggettamento feudale delle classi sociali più deboli a quelle
in più forti poiché durante varie ricorrenze festive i contadini avevano l’obbligo
di fare donativi ai notabili del loro paese; 2) erano momenti aggregativi che
favorivano le relazioni sociali e parentali; 3) erano anche momenti di
trasgressione collettiva in cui si mangiava di più, si asteneva dal lavoro e si
partecipava a pubblici divertimenti; 4) le classi sociali subalterne
manifestavano il desiderio inconscio di aspirare al rovesciamento del mondo,
l’abbondanza alimentare e il piacere senza limiti, aspetti tipici del mitico
paese di cuccagna.
All’epoca la
religione cristiana aveva diverse valenze sociali e culturali: sacralizzava i
momenti più importanti della vita individuale e collettiva; accomunava creando
le basi della solidarietà e dell’identità comunitaria; forniva gli strumenti
concettuali per opporsi ai capricci della natura e allo scoraggiamento causato
dalle difficoltà esistenziali; dava risposte ai bisogni elementari, alle paure,
alle speranze e alle espressioni d’amore e dolore; poneva le basi per formare
una visione del mondo in cui trovavano giustificazione la subordinazione
sociale, la precarietà, il male e le sofferenze quotidiane: contribuiva a
costruire una personalità sociale più serena, cosciente della propria identità
e dei propri valori; ammetteva un ordine naturale e sociale immutabile che
giustificava la subordinazione sociale, la divisione in classi e la diversa
ripartizione della ricchezza e della proprietà.
La religiosità del secolo in Abruzzo fu animata anche da un’apparizione
miracolosa, la costruzione di nuove chiese e diverse personalità regionali che
furono elevate al trono dell’altare.
Il 22 marzo
1888, in una località di Castelpetroso (Cb) denominata "Cesa tra Santi”,
iniziarono le apparizioni della Madonna, prima a personaggi popolari e poi
anche al vescovo di Boiano. Il fatto portò alla costruzione di un santuario che
alimentò la devozione mariana e il pellegrinaggio in partenza da località
abruzzesi e molisane.
Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni di quello successivo, in
Abruzzo vissero diversi soggetti che furono dichiarati servi di Dio, beati e
santi. Tra essi figurano: San Gabriele
dell’Addolorata che morì nel 1862 a Isola del Gran Sasso, nel 1908 fu
proclamato beato dal Papa Pio X,
nel1920 fu
dichiarato santo da Benedetto XV e nel 1959 patrono d’Abruzzo da Giovanni XXIII; la serva di Dio Barbara
Micarelli originaria di Sulmona; il beato Salvatore Lilli di
Tagliacozzo; San Cesidio Giacomantonio da Fossa e la beata Maria della Pace
(Marianna Giuliani) nata a L’Aquila.
Un forte
sconvolgimento al sentimento religioso popolare lo provocò la grande guerra. Le
attività belliche sconvolsero profondamente le coscienze dei soldati poiché la
vita al fronte li costringeva alla convivenza forzata con la morte e per
salvare la propria pelle furono costretti a non osservare il comandamento di
non uccidere. Durante la permanenza
nelle trincee i soldati talvolta si abbandonavano a ricordi nostalgici dei luoghi
d’origine con i loro cari e i momenti lieti delle feste religiose, richieste
d’interventi soprannaturali protettivi e scongiuri mescolati abbastanza spesso con
atteggiamenti superstiziosi e bestemmie. Inoltre, quando possibile e
necessario, mossi da sentimenti religiosi di pietà, solidarietà e spirito di
corpo prestavano aiuto e soccorso ai propri commilitoni.
La guerra mise a
contatto i soldati abruzzesi con quelli di altre regioni contribuendo a
modificare alcune credenze religiose, devozioni, atteggiamenti e all’acquisizione
di altri modelli di riferimento e pensiero tra cui il più spiccato senso di
appartenenza a una stessa patria.
9.
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Trinchese S.,
Storia civile e società religiosa
dall’Unità ai nostri giorni. In AA.VV., Chieti e la sua Provincia,
Edigrafital, Teramo, 1990, pagg. 397-459.
[1] La Legazia Apostolica consentiva
al re di scegliere i vescovi e arcivescovi della
Sicilia.
[2] De Angelis-Curtis G., La «Festa nazionale» del 2 giugno 1861, la
«guerra dei Te Deum» e l’abate cassinese Simplicio Pappalettere, pag. 57.
[4] Ciampani A., “Orientamenti della curia romana e
dell’episcopato italiano sul voto politico dei cattolici (1881-1882)”,
Archivum Historiae Pontificiae, N. 34, 1996, pag. 271.
[5] La “Penitenzieria Apostolica” era il
supremo organismo giudiziario della Curia Romana.
[6] De Rosa G., Il movimento
cattolico in Italia, pag. 62.
[7] Alcuni importanti ecclesiastici erano convinti che
la guerra avrebbe messo in crisi lo stato laico-liberale derivato
dall’illuminismo, portato a riaffermare il valore universale della religione e
alla nascita di una società basata sul diritto. Per questo motivo appoggiarono
il conflitto.
[8] L’obolo di San Pietro è un'offerta in denaro fatta dai
fedeli e inviata al papa per
sostenere la missione della chiesa e le sue
opere di carità.
[9] De Palma L.M., La Chiesa meridionale e l’Unità d’Italia, Odegitria, n. 18, pag.
402.
[10] Il culto del Sacro Cuore di Gesù
associa al significato religioso anche un significato politico. Infatti, la sua
diffusione si collega all’immagine di Gesù vittima espiatrice e alla volontà
restauratrice della “Societas Christiana” perduta.
[11] Stella P., Religiosità vissuta in Italia nell'800, pag. 758.
[12] De Palma L.M., La Chiesa meridionale e l’Unità d’Italia, pag. 424.
[13] Monterisi N., Trent’anni di episcopato nel Mezzogiorno
(1913-1944), pag. 348.
[14] Monterisi N., Trent’anni di episcopato nel Mezzogiorno (1913-1944),
pag. 348.
[15] Sturzo L., La battaglia meridionalista, pag. 89.
[16] De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud, pagg. 200-203.
[17] De Palma L.M., La Chiesa meridionale e l’Unità d’Italia, pag. 422.
[18] La Guardia Nazionale era un
corpo di polizia che si poneva a difesa dei centri abitati ed era composta
essenzialmente di artigiani e piccoli e medi proprietari.
[19] Moltese F., Il
brigantaggio meridionale post-unitario: II. La rivolta contadina del 1861,
pag. 310.
[20] Tarquinio
G., Aspetti economici, sociali, religiosi e demografici di
Pescasseroli (secc. XII-XX), pag. 105.
[21] Soprintendenza Archivistica e
Bibliografica dell'Abruzzo e del Molise, Ora più che
ognuno riclama libertà.
Stato e Chiesa in Abruzzo durante la rivoluzione unitaria, pagg.
111-112.
[22] Amiconi F., La carboneria a Cerchio e nei distretti di Celano e Pescina, pag.
105.
[23] Del Villano W. & Di Tillio
Z., Abruzzo nel tempo, pag.164.
[24] Costantini B., I moti d'Abruzzo dal 1798 al 1860 ed il
clero, Pescara, 1960, pag. 131.
[25]
Colapietra R., L’Abruzzo
nel 1860, pagg. 97-100.
[26] Fondazione Carispaq (a cura), Tesori tipografici aquilani, pag. 49.
[27] N. Petrone, Chiesa
e Stato in Abruzzo: dall'Unificazione al trionfo della destra storica,
L'Aquila, 1981.
[28] Archivio di Stato di Chieti, Affari ecclesiastici, busta n. 4, fasc.
n. 38.
[29] Trinchese S., Storia civile e società religiosa dall’Unità
ai nostri giorni, pagg. 416-417.
[30] Costantini B., Azione e
reazione, pag. 127.
[31]
Piccioli M.T., Il
viaggio attraverso l’Abruzzo di Vittorio Emanuele II, pag. 259.
[32] Costantini B., I moti d'Abruzzo dal 1798 al 1860 ed il
clero, Pescara, pagg. 135-136.
[33]
Colapietra R., L’Abruzzo nel 1860,
pag.125.
[34] Piccioli M.T., Il viaggio
attraverso l’Abruzzo di Vittorio Emanuele II, pag. 260.
[35]
Canosa R., Storia
dell’Abruzzo nell’età della Restaurazione e del Risorgimento.
[36]
Petrone N., Stato e
Chiesa in Abruzzo dall’Unificazione al Tramonto della Destra Storica, pag.
75.
[37]
Costantini B., Azione e
reazione, pagg. 177-178.
[38]
Costantini B., Azione e
reazione, pagg. 185-186.
[39] Di Cecco G. Farantica, pag. 115.
[40] Del Villano W. & Di Tillio
Z., Abruzzo nel tempo, pag. 171.
[41] Colapietra R., Il
brigantaggio post-unitario in Abruzzo, Molise e Capitanata pag. 303.
[42] De Angelis-Curtis G., La «Festa nazionale» del 2 giugno 1861,
pag. 64.
[43] Costantini B., I moti d'Abruzzo dal 1798 al 1860 ed il
clero, pag. 151.
[44] Soprintendenza Archivistica e
Bibliografica dell'Abruzzo e del Molise, Ora più che
ognuno riclama libertà.
Stato e Chiesa in Abruzzo durante la rivoluzione unitaria, pagg.
157-161.
[45]
Costantini B., Azione e
reazione, pag. 138.
[46] Soprintendenza Archivistica e
Bibliografica dell'Abruzzo e del Molise, Ora più che
ognuno riclama libertà.,
pag.116.
[47] Soprintendenza Archivistica e
Bibliografica dell'Abruzzo e del Molise, Ora più che
ognuno riclama libertà.
pag.
120.
[48] Archivio di Stato di Chieti,
sottosezione di Lanciano, Affari ecclesiastici, busta n. 21.
[49] Soprintendenza Archivistica e
Bibliografica dell'Abruzzo e del Molise, Ora più che
ognuno riclama libertà.,
pagg.
167-168.
[50] Soprintendenza Archivistica e
Bibliografica dell'Abruzzo e del Molise, Ora più che
ognuno riclama libertà.,
pagg.
168-169.
[51] Melchiorre A., Il brigantaggio
nella Marsica. Clima di insofferenza.
[52] Trinchese S., Storia civile e società religiosa dall’Unità
ai nostri giorni, pag. 420.
[53] Trinchese S., Storia civile e società religiosa dall’Unità
ai nostri giorni, pag. 421
[54] Trinchese S., Storia civile e società religiosa dall’Unità
ai nostri giorni, pag. 422.
[55] Canosa R., Storia dell’Abruzzo dal 1870 al 1900, pag. 104.
[56] Trinchese S., Storia civile e società religiosa dall’Unità
ai nostri giorni, pag. 435.
[57] Trinchese S., Storia civile e società religiosa dall’Unità
ai nostri giorni, pag. 436.
[58] Picardi L., Il Partito popolare italiano nel Molise (1919-1924), Milano, 1990,
pag. 31.
[59] Travaglini G., difficoltà
e rimedi per l'azione cattolica negli Abruzzi. Relazione letta al congresso cattolico regionale di Aquila il 30
ottobre 1898.
[60]
D’Angelo A., Il clero in
Abruzzo (1958-1978), pag. 401.
[61]
Canosa R., Storia
dell’Abruzzo in età giolittiana, pagg. 83-85.
[62] Trinchese S., La fondazione
della diocesi di Penne-Pescara, pagg. 593-594.
[63]
Canosa R., Storia
dell’Abruzzo in età giolittiana, pagg. 87-89.
[64]
Canosa R., Storia
dell’Abruzzo in età giolittiana, pagg. 202-204.
[65]
Della Penna C., La
religiosità popolare nella diocesi teatina nel corso del XIX
secolo, pag. 25.
[66] Della Penna C., La religiosità popolare nella
diocesi teatina…, op.cit., pag. 25. Le relazioni ad limina sono i
rapporti descrittivi sullo stato delle diocesi che periodicamente i presuli inviano
alla Congregazione dei vescovi.
[67] Della Penna C., Clero e popolo nella diocesi
teatina dopo l'Unificazione nazionale, pag. 129
[68] Travaglini G., difficoltà
e rimedi per l'azione cattolica negli Abruzzi, op. cit.
[69] MacDonnell A., In the Abruzzi,
pagg.70-72.
[70]
D’Angelo A., L'Abruzzo
come regione ecclesiastica: un profilo storico tra continuità e trasformazioni, pag.
30.
[71] Socciarelli A. M., Cultura e
religiosità popolare in Abruzzo, pag.27.
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