di Angelo Iocco
Ormai da un po’ è caduto nel dimenticatoio, eppure fu un
grande poeta, nativo di Castel Frentano, nacque il 19 luglio 1918, e morì a
Lanciano il 20 settembre 1992. Crebbe sotto la fama dei due grandi cantori di
Castannove, il dott. Eduardo Di Loreto, di cui imparò le poesie, e di Pierino
Liberati, fine musicista. Per ragioni di lavoro, Di Benedetto dovette
trasferirsi più volte, fino a trovare un posto alla Società Elettrica Frentana
presso l’ENEL come tecnico, a Lanciano, dove si trasferì, all’ultimo piano di
un palazzo a via salita Madrigale vicino piazza Garibaldi, comunicando con
l’appartamento del prof. Federico Mola di Orsogna, altra grande mente
lancianese. Di carattere riservato, umile, ma con una precisa visione della
vita e dell’esistenza, compose bellissime poesie, che raccolse in volumetti,
nonché compose canzoni, che furono musicate da Mario Lanci, Lino Crognale,
Vincenzo Polidoro. Famosa e ancora eseguita la canzone “Come lu grane” con
musica di Lanci. Partecipò a Montesilvano al Festival Canti della Montagna.
Festival Canti della Montagna, 1990
Coro “T. Coccione” Poggiofiorito
Funtanelle di muntagne di Di Benedetto e Vincenzo Polidoro
4° edizione
Incante d’Abruzze di Di Benedetto e Polidoro
5° edizione
Majella me’ di Di Benedetto e Polidoro
Due principali raccolte poetiche: La mentucce e l’ardiche,
Itinerari, Lanciano 1979, e La pruteste, Itinerari, Lanciano, 1964.
La prima raccolta fu l’ultima da lui pubblicata, dove
raccoglie il meglio della produzione della sua vita, articolata in vari gruppi.
Molto evocative sono delle liriche: “Lu frene de lu monne”, il Poeta affronta
il problema reale del tempo che fugge nella vita, il cui freno, l’unica gioia,
è solo un evento lieto, in questo caso la nascita del nipotino. Bellissime le
liriche “Suonne e nustalggie” (quest’ultima musicata da Mario Lanci), e
“Destine ‘ngrate”, dove inizia a trasparire la poetica del Di Benedetto, la sua
visione del mondo, il suo concetto della vita, affrontato sulla base delle
esperienze sociali nel piccolo paese di Castelfrentano; nella prima Di
Benedetto si abbandona alla nostalgia, un sogno di ombre e fantasmi, dei suoi
cari ora non ci sono più, e rievoca con commozione il Natale, momento in cui ci
si riuniva accanto al focolare per aspettare l’ora della Messa, unico momento
di assoluta felicità, innocenza, e concordia della famiglia. Nella seconda Di
Benedetto maledice il tempo, che non porta giovamenti, ma solo sventure, fa invecchiare,
fa perdere la forza, e gli amici di un tempo, tema che riprenderà anche nella
poesia metaforica “Ere nu galle”, un gallo piumato, vigoroso e fiero, e ora da
vecchio, ridicolo, che non riesce manco a cantare per dimostrare la sua forza,
tutto spennato.
Le poesie che rievocano il focolare di famiglia sono diverse, “Lu tecchie – Presepie ‘Mparadise”, dove si abbandona al ricordo, quello tanto caro della madre morta il giorno di Natale, che adesso vigilerà sulla famiglia, e seguirà la tradizione familiare di fare il Presepe in un luogo migliore. La morte della madre segnerà profondamente il poeta, che la rievoca spesso nelle sue liriche, che quasi sempre hanno un senso di fatalità, di tristezza mimnermiana circa la vita, che non è altro che una “grande carnevalata”, come il poeta avrà da dire nella lirica finale, la summa del suo pensiero “La Morte di Carnevale”. Naturalmente Di Benedetto parte sempre dalla visione del suo paesetto, per elaborare la sua concezione-visione di paese-mondo: l’uomo tanto si adopera per apparire, per diventare chissà chi, per essere ricordato e per avere potere e influenza nella sua vita. E alla fine, che resta? C’è molto di Modesto Della Porta in Di Benedetto, grande poeta abruzzese, molto amato dal Di Benedetto e preso a modello. Commovente e la sua lirica “A Mudeste”, dove rievoca la sua vita, con versi allusivi a titoli di alcune sue liriche del Tapù, in un carosello giocoso e malinconico della sua vita sfortunata, fino alla fine della giostra (lu carusille), che si ferma. C’è del vero nella poesia, non è un diletto, un modo per scherzare con gli amici, Di Benedetto si evolverà, affronterà tutte le peripezie della sua vita, in “Lu greve dell’emigrante” ad esempio si rammarica della sua triste condizione, come quella di molti altri, che per mancanza di lavoro nella sua patria, è stato costretto a viaggiare, e a perdersi tanti momenti felici, compresi quei pochi momenti con l’amata madre, che morirà a Natale.
Diversi sono i richiami alla sua amata patria
Castelfrentano, nella lirica “Castannove – Nustaggia Lancianese – Majella me’”
(quest’ultima musicatagli da Vincenzo Polidoro e presentata ai Canti della
Montagna di Montesilvano negli anni ’90). Sono dichiarazioni genuine d’amore,
senza fronzoli letterari, con parole abbastanza comuni e scontate, ma piene di
sentimento e passione, di Castelfrentano sono tratteggiati come in un
acquarello, le dolci colline, il campanile della chiesa, la villa, il paesaggio
onnipresente della Majella, di Lanciano la spensieratezza della gente, la
vitalità del Corso, la musicalità delle Feste di Settembre, e via dicendo.
Altre liriche riportano il lettore alla cruda realtà, come quella in cui Di
Benedetto si cala nei panni di un personaggio dai contorni autobiografici, che
a Natale, fermandosi davanti a una vetrina di giocattoli, non resiste alla
tentazione, e ruba una bambolina. Il giorno dopo è raggiunto da una guardia,
che gli intima, umiliandolo, di restituire la refurtiva. Di Benedetto ragiona
sul trauma subito, e sulla crudeltà del mondo, che soffoca ogni desiderio
infantile, come quello innocente, seppur sbagliato, di avere a tutti i costi un
giocattolo, quando Di Benedetto per ristrettezze economiche non poteva; e di
fatti nella lirica fa una acida allusione ai figli dei ricchi, che nel negozio
acquistavano di tutto e di più per il Natale, per soddisfare i loro vizi. Di
Benedetto cantò varie situazioni di Lanciano, le feste, la banda, il teatro,
ricordò anche i Martiri Ottobrini del 1943, in un’appassionata liriica che
ancora oggi è letta, nelle marce della memoria della sera del 5 ottobre:
“Fronne d’ulive”.
Altre liriche riflessive sono anche “Destine ‘ngrate – La
sorte dell’innucente – Gente di paese”; in quest’ultima Di Benedetto amaramente
constata che anche le persone genuine, ma sempliciotte del suo paese, sono la
rovina di sé stesse, perché troppo litigiose e presuntuose, che vanno prestano
orecchio e lodi solo per i forestieri, spesso persone avide e imbroglione,
mentre i loro compaesani rimangono inascoltati.
Venendo alla poesia sul Carnevale, qui giungiamo alla
conclusione del pensiero dibenedettiano, come accennato. E quasi volendo rifare
ancora una volta, il verso al grande cantore di Castelfrentano, il dotto. Di
Loreto, il Di Benedetto rievoca la festa tipica castellina della Mascherata di
Carnevale. Come nella sceneggiata scritta da Di Loreto, si mette a processo Re
Carnevale per tutti gli eccessi e le mangiate a sbafo che ha fatto a scapito
della misera popolazione; ora è messo alla forca e accusato, processato,
condannato. Di Benedetto capovolge la situazione, guarda attraverso
l’introspezione dei suoi accusatori, il popolino: chi si è arricchito con
frodi, chi si crede immacolato ma ha tanti peccati, che ha fatto qualche anno
da militare e si crede sergente, e già il lettore si chiede: chi è senza
peccato, scagli la prima pietra? E Carnevale parla, come nella farsa di don
Eduardo: “Ne chinosce di magnune / nche le forche pe’ fircine / e che nghe
n’anne s’à magnate / quasi Fiumicine”. Quindi Carnevale confessa le abbuffate,
ma cerca di aprire gli occhi alla folla cieca e inferocita, che i veri mali
sono altri, e che è inutile trovare ogni anno, per distrarsi allegramente, un
capro espiatorio da mandare al patibolo. E prosegue l’accusa verso i potenti, i
politici, i prelati, i signori delle banche, e invita la gente a godersi la
vita e a viverla come meglio può, perché la vita “è n’affacciate di finestre”,
come ebbe a scrivere Di Benedetto in ricordo dell’amico poeta e maestro Cesare
Fagiani di Lanciano, e conclude lapidario: “Jeme tutte sottatterre / diventeme
tutte ‘guale / quanda steme lloche sotte, /sème tutte Carnevale!”. Di Benedetto
capovolge in sostanza la sorte di Carnevale, a differenza dell’opera comica di
don Eduardo, volta a ridere, a far della farsa, Di Benedetto è il Terenzio
della situazione, è colui che fa riflettere, col riso amaro, Carnevale va alla
morte, ma ci andrà fiero, cosciente di quel che dice, non più un fenomeno da
baraccone che si scava la fossa da solo con le sue farneticanti
giustificazioni, ma è un personaggio che ha una sua coscienza, che pensa, che
parla, che dice la sua. Rimarrà inascoltato, morirà, ma ha avuto la
soddisfazione di potersi esprime, di dimostrare parlando che non è più un
pagliaccio-fantoccio di una tradizione antica, quella di essere caricato per la
strada, accusato, bruciato, ma parla alla massa, alla massa del suo amato
paese, da cui si è allontanato. E ora può morire in pace.
Pubblichiamo, per terminare, due poesie appassionate, scritte dal Di Benedetto per la bocconotteria “La Casa del Bocconotto”, fondata a Marcianese di Lanciano nel 1967 da Giulia Biondi Bomba, incorniciate e appese presso la pasticceria, con firma del poeta; e ringraziamo le eredi per la gentile cortesia per l’autorizzazione alla pubblicazione.
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