Abruzzo Ulteriore I, Ulteriore II e Citra |
La chiesa, lo stato, la vita sociale e religiosa in Abruzzo durante la Restaurazione.
1. L’iniziale Restaurazione
Nel 1815 dopo la definitiva sconfitta di Napoleone Bonaparte a Waterloo, il Congresso di Vienna, la battaglia di Tolentino che portò alla sconfitta di Gioacchino Murat e il trattato di Casalanza, Ferdinando IV di Borbone rientrò a Napoli nel mese di giugno, riunì in un unico stato i regni di Napoli e Sicilia e assunse il nome di Ferdinando I.
Egli avviò il suo progetto di restaurazione inteso ad annullare le innovazioni introdotte tra il 1806 e il 1815. Tuttavia questo progetto reazionario non fu materialmente possibile e di conseguenza non portò al ritorno puro e semplice alla situazione precedente al Decennio Napoleonico. Un ostacolo in tal senso lo posero le forze vincitrici che memori della tremenda repressione seguita all'abbattimento della Repubblica Partenopea del 1799, imposero a Ferdinando IV di non reprimere coloro che avevano collaborato con i francesi e di non annullare alcune loro leggi, come quella eversiva della feudalità. Inoltre un'eventuale repressione non poteva cancellare tutte le aspirazioni, gli ideali e gli interessi, ecc. che prima l'ondata rivoluzionaria di dine XVIII secolo e poi Napoleone avevano contribuito a risvegliare. Di conseguenza Ferdinando IV, nonostante la sua tempra reazionaria, non annullò molte riforme napoleoniche, non mise in atto le dure repressioni che nel 1799 seguirono la fine della Repubblica Partenopea e cercò di portare avanti un progetto politico conservatore teso ad evitare che nel suo Regno emergessero forze d'opposizione capaci di compromettere la sua presenza al trono. Un particolare esempio in tal senso è costituito dal Codice napoleonico del Regno delle due Sicilie che rimase in vigore sino al 1819. In seguito fu approvato e sostituito da un Nuovo codice legislativo molto simile che s’ispirava ad esso ed escludeva gli articoli sul divorzio che fu abolito.
2. La Chiesa e i suoi rapporti con lo Stato.
Agli inizi del periodo della Restaurazione, nella corte borbonica aleggiava la convinzione che la religione cristiana e le istituzioni ecclesiastiche erano dei mezzi molto efficaci per la conservazione del potere, far assimilare ai regnicoli il senso del dovere e la sottomissione alla Chiesa, allo Stato e ai loro rappresentanti. Da parte sua la Chiesa fu profondamente scossa dalla Rivoluzione francese e dalla successiva ondata napoleonica e aspirava anch’essa a una restaurazione delle condizioni preesistenti poiché era portatrice di principi antirivoluzionari e conservatori tra cui la volontà di riaffermare il potere teocratico. Alla base dell’atteggiamento reazionario della Chiesa c’era anche la volontà di combattere l'anticlericalismo affermatosi con la Rivoluzione francese di cui il liberalismo era considerato una tipica espressione.
Gli interessi
convergenti della monarchia borbonica e della Chiesa e la reciproca volontà di
riaffermare in un clima di collaborazione e conciliazione gli ambiti dei propri
poteri evitando ogni possibile forma di contrasto, trovarono il punto
d'incontro nel Concordato di Terracina che fu sottoscritto dalle due parti il 16 febbraio 1818, era composto da 35 articoli e fu predisposto
dal cardinale segretario di Stato Ercole Consalvi e da Luigi dè Medici, segretario
di Stato e ministro
delle finanze del Regno delle due Sicilie. Con tale accordo si
realizzò l'alleanza tra la Chiesa e il potere statale borbonico sintetizzata
nella formula "Alleanza tra il trono e l'altare". La Chiesa tornò ad
occupare un ruolo di primo piano nella vita civile, riaffermò la sua autonomia
dal potere politico e la subordinazione del clero al papa. Dall'analisi di
alcuni articoli che in questa sede saranno trattati emergono gli obiettivi che
le due parti volevano perseguire.
L'articolo 2
prescriveva che nelle scuole pubbliche e private, Università e collegi,
l'insegnamento si conformasse alla religione cattolica. In base a questa
disposizione agli ecclesiastici era concesso d’interferire nell'attività
didattica statale.
L'articolo 3
imponeva di procedere a una riforma distributiva delle diocesi dei “domini
al di qua del faro”, la parte continentale del Regno delle due Sicilie. In
seguito all'applicazione di tale norma, il numero delle circoscrizioni
diocesane fu ridotto da 130 a 84[2]. Lo scopo era di rafforzare le mense vescovili e
promuovere attraverso gli ordinari diocesani una maggiore presenza della
gerarchia cattolica nella vita religiosa, economica e politica del Mezzogiorno.
Con l'articolo 7
si disponeva che tutti i parroci che non avessero un’adeguata congrua avrebbero
avuto in dotazione un suo supplemento secondo le seguenti modalità: i parroci a
capo di parrocchie con meno di 2000 fedeli avrebbero percepito una congrua non
inferiore a 100 ducati annui, quelli con meno di 5000 fedeli 150 ducati annui e
quelli con oltre 5000 fedeli non meno di 200 ducati annui.
L'articolo 8
affidava ai Comuni il compito di provvedere al mantenimento dei parroci, del
viceparroco e dei chierici parrocchiali qualora non c'erano altre rendite
destinate a tal fine.
L'articolo 11 affidava agli ordinari diocesani il diritto di nomina dei parroci delle sedi vacanti scegliendoli tra i soggetti che ritenevano più degni.
L'articolo 12
ordinava che tutti i beni degli enti ecclesiastici soppressi, ancora
amministrati dal demanio fossero restituiti alla Chiesa.
L'articolo 14
imponeva il ripristino di tutte le case religiose, ordini e monasteri soppressi
durante il Decennio francese. Tuttavia ciò non avvenne completamente. Infatti:
1) alcuni ordini religiosi preesistenti non furono rifondati e scomparvero in
modo definitivo[3]; 2) nel 1820, la popolazione del clero regolare
costituita da 5732 frati e 11340 monache era la metà di quella esistente prima
dell’adozione delle misure repressive adottate dai Napoleonidi[4].
L'articolo 15
concedeva a tutte le istituzioni ecclesiastiche la facoltà di acquistare nuovi
beni.
L'articolo 20
riconosceva agli ordinari diocesani la libertà d'esercizio del proprio
ministero pastorale nel rispetto delle leggi canoniche. Inoltre, nel rispetto
del canone 12 del Concilio di Trento restituiva ai tribunali ecclesiastici la
giurisdizione in materia matrimoniale, abolendo il matrimonio civile e
divorzio.
L'articolo 21
riconosceva il diritto dei vescovi di ordinare sacerdoti senza restrizioni
numeriche ma con le sole limitazioni previste dal decreto del papa Gregorio XV
del I luglio 1623 e dal capitolo IV del Concordato del 1741 che riguardavano i
requisiti dei promovendi agli ordini sacri.
L'articolo 23
riconosceva la libertà di comunicazione in materia spirituale senza alcuna
limitazione tra i vescovi, la Santa Sede, il clero e i fedeli.
L'articolo 24
attribuiva agli ordinari diocesani il diritto di censura su tutti i libri
introdotti o stampati nel Regno. Da parte loro le autorità civili nel rispetto
di tale diritto si impegnavano a non permettere la divulgazione delle
pubblicazioni che i vescovi ritenevano contenessero elementi contrari alla
dottrina cattolica.
Con l'articolo
28, il Papa accordò ai sovrani
napoletani l'indulto per la nomina degli ordinari diocesani che prima di
prendere possesso della loro dovevano essere presentati alla Santa Sede al fine
di ottenere l'istituzione canonica.
L'articolo 29 ordinava che i vescovi nell'atto della loro nomina dovevano giurare fedeltà al re utilizzando la seguente formula: "Io giuro e prometto sopra i Santi Evangeli, obbedienza e fedeltà alla reale Maestà. Parimenti, prometto che io non avrò alcuna comunicazione, nè interverrò ad alcuna adunanza, nè conserverò dentro e fuori del Regno alcuna sospetta unione, che noccia alla pubblica tranquillità. E se, tanto nella mia diocesi che altrove, saprò che alcuna cosa si tratta in danno dello Stato lo riferirò a Sua Maestà" [5].Come si può osservare dalla formula di giuramento è prescritto che i vescovi dovevano assolvere anche a compiti di polizia poiché avevano giurato di riferire al re tutte le notizie riguardanti riunioni sospette ed attività antistatali di cui venivano a conoscenza. Anche i parroci dopo la Restaurazione furono obbligati a prestare giuramento di fedeltà al re, al momento della loro nomina.
Dall'esame di
tutti gli articoli del Concordato emerge che non c'è nessun accenno alla
formazione degli aspiranti sacerdoti, mentre molti di essi riguardano i diritti
e doveri degli ecclesiastici, i beni della Chiesa, il numero delle sedi
vescovili e la dotazione economica dei parroci. Da quanto trattato emerge una
Chiesa conservatrice, interessata ai beni materiali e apparentemente poco
preoccupata della pastorale alla cui realizzazione efficace poteva contribuire solo
un clero con una forte preparazione culturale. A tal scopo va tenuto conto che
il ritorno dei Borboni fu caratterizzato anche dall’annullamento di tutte le
disposizioni emanate durante il Decennio che riguardavano i requisiti culturali
degli aspiranti parroci.
Durante la Restaurazione, ad avviso di Cestaro, le parrocchie ebbero un ridimensionamento di beni e rendite, estesero le loro strutture inglobando altre chiese e persero diverse istituzioni collaterali che avevano in assegnazione in precedenza: Monti Frumentari, la beneficenza, etc.[6]. In questo periodo i doveri e funzioni dei parroci si estero e cambiarono. Essi non potevano acquistare ricevere beni e tantomeno venderli in quanto la loro sussistenza doveva essere assicurata esclusivamente dalle rendite del patrimonio sacro e dai benefici ecclesiastici. Oltre ad occuparsi della "cura animarum" erano obbligati a: 1) tenere in perfetto ordine i registri parrocchiali; 2) rilasciare gli attestati di povertà, a uso leva e d’idoneità fisica alle donne che volevano far da balia pur non avendo perso la propria prole; 3) partecipare come membri attivi all'amministrazione dei Monti Frumentari ed alle commissioni di beneficenza comunali che distribuivano generi ai poveri onde prevenire eventuali abusi; 4) dimostrare di essere fedeli alla monarchia borbonica accettando obblighi di carattere poliziesco, in particolare il controllo della morale pubblica. Quest'ultimo compito lo ebbero in assegnazione con una circolare del Ministero di Polizia del 4 settembre 1822 che chiedeva a tutti i prelati del Regno la collaborazione al fine di avere ogni 15 giorni un rapporto particolareggiato sulla religiosità della popolazione e il suo attaccamento al sovrano. La vita dei parroci non fu facile poiché erano oppressi da mille impegni; spesso erano malvisti in quanto considerati funzionari di polizia che potevano rivelare eventuali segreti appresi in confessione; erano condizionati dalle autorità civili per la manutenzione delle chiese, l'organizzazione delle feste, la riscossione della congrua e la nomina del predicatore quaresimale. A ciò talvolta si accompagnava un'attività pastorale da realizzare in parrocchie che comprendevano fedeli dispersi in casolari raggiungibili solo attraverso piccole mulattiere. In armonia con le finalità di repressione reazionaria le ordinazioni sacerdotali potevano avvenire solo se gli aspiranti sacerdoti godevano di una buona reputazione politica e l’attestato era rilasciato dai parroci. Spesso i parroci e gli altri sacerdoti furono utilizzati anche come maestri nelle scuole elementari a causa della poca disponibilità di maestri laici. Quelli che dal 1815 al 1860 furono deputati all'insegnamento controllavano che l'istruzione impartita non fosse contraria ai principi cristiani e periodicamente informavano il vescovo sui risultati della loro attività.
Oltre ai
problemi dei parroci, durante la Restaurazione altri di natura più prettamente
politica investirono la vita religiosa: le misure repressive, l'assoluta
chiusura a tutte le novità e l'uso strumentale della religione per la
conservazione del potere.
Il 5 maggio 1824
il papa Leone XII fece pubblicare l’enciclica “Ubi primum” in cui
espresse una decisa condanna delle tendenze liberali della società e la sua più
completa disapprovazione del "tollerantismo
e l'indifferentismo" che a suo dire, in nome della libertà e della
pietà insegnavano che Dio con la creazione aveva dato all'uomo completa
libertà, sicché ognuno senza preoccuparsi della salvezza eterna poteva
abbracciare qualsiasi ideologia.
Nel 1846 fu
eletto papa il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti con il nome di Pio IX.
Gli ambienti liberali dell’epoca travisarono il suo pensiero politico e
accolsero con favore la sua elezione. In seguito il pontefice mostrò il suo
vero volto, affermò il suo spirito reazionario e condannò in modo deciso le
nuove tendenze e ideologie che andavano diffondendosi. In particolare, nel 1849
con l’enciclica “Nostis et Nobiscum”, Pio IX espresse una dura condanna
il comunismo, il diritto al lavoro e l'uguaglianza indefinita che considerava
bestemmie contro la dottrina cattolica della misericordia fraterna. Inoltre ad
avviso del Sommo Pontefice: 1) il socialismo e il comunismo avevano tentato di
confondere i fedeli con nuove dottrine; molti complotti e cospirazioni rivoluzionarie
erano da condannare poiché avevano il fine esclusivo di rovesciare il potere
temporale della Chiesa cattolica; 3) poiché solo il cristianesimo persegue la
vera libertà e l'uguaglianza, tutte le altre rivoluzioni sono inutili. Di
conseguenza invitò tutti i cattolici all'obbedienza alle legittime autorità
politiche. L'enciclica
"Nostis et Nobiscum" alimentò nel Regno di Napoli le tendenze
conservatrici ma ebbe pochissimi riflessi sull'attività pastorale. Su
quest’ultima in particolare fu molto più incisivo e per certi aspetti
preoccupante l'atteggiamento reazionario che assunse la gerarchia cattolica
fedele alla corona. Essa infatti con l'assolvimento dei compiti di polizia a
cui fu delegata provocò forti riflessi negativi sulla religiosità popolare e
sull'opinione comune riguardante gli ecclesiastici. Innanzitutto le idee
conservatrici e reazionarie degli ecclesiastici contribuirono ad alimentare le
diffidenze sul sacramento della confessione che da pura e semplice
manifestazione di fede e di devozione poteva diventare un mezzo con cui venire
a conoscenza di eventuali attività sovversive antistatali e segnalarle alle
autorità di polizia. Per fortuna non tutti i chierici furono perfetti e fedeli
collaboratori della monarchia borbonica. Alcuni sacerdoti cercarono di limitare
la loro attività solo alle competenze pastorali evitando di assumere compiti
più strettamente politici e polizieschi; altri accettarono le idee liberali e
lottarono contro la reazione e l'assolutismo monarchico. La consapevolezza
dell’esistenza di una parte del mondo ecclesiastico poco devota alla monarchia
borbonica alimentò un’atmosfera di sospetto che nel 1834 portò i rappresentanti
del Regno delle due Sicilie e dello Stato Pontificio a stipulare un accordo
riguardante le immunità personali dei soggetti che indossavano la veste talare.
In questo caso le due parti pattuirono che innanzitutto andava sempre tutelata
la dignità delle funzioni sacre a cui erano delegati gli ecclesiastici. Di
conseguenza se erano responsabili di qualche delitto e quindi passibili
dell'arresto dovevano essere adottate nei loro confronti opportune misure di
polizia. In particolare i chierici dovevano essere condotti in carcere solo di
notte, coperti di mantello per nascondere il loro abito, non potevano essere
arrestati durante l'esercizio del servizio divino e non potevano essere
condotti in carceri comuni.
Nel 1847 le
forze liberali pubblicarono clandestinamente un opuscolo in cui manifestarono
la loro opinione sulla vita socio-religiosa nel Regno di Napoli e sugli
ecclesiastici che appoggiavano la politica reazionaria dei Borboni. In esso si
affermava: "Per colpa di re Ferdinando gli italiani delle due Sicilie
han perduta la pupilla degli occhi, la cara religione cattolica e son diventati
atei, o superstiziosi. Pochissimi preti sono buoni e santi e degni che altri
mettan la faccia dove essi metton le piante: gli altri moltissimi svergognatori
del sacerdozio, ignoranti e più ipocriti e malvagi li nomina parroci ed affida
loro la cura delle anime, l'istruzione, la polizia della diocesi e la vigilanza
sulla coscienza di tutti. Onde i vescovi sono potenti spie agli intendenti, a'
sottointendenti, e tutti i magistrati civili e militari ed ai ministri stessi"[7]. Parole durissime
rivolte contro il clero. La conclusione dell'opuscolo non è molto diversa da
quanto scritto. Infatti vi si faceva presente che "I frati sono quali
furono sempre, alcuni buoni, alcuni tristi, pochissimi dotti. Ma tra i frati
sono gli infernali gesuiti, peste di tutta la cristianità e specialmente nel
nostro Regno. Così i preti ed i frati facendosi aiutatori delle infamie del
governo, predicatori di false massime, insegnatori d'ignoranza e d'errore hanno
guastato la religione, hanno turbato tutte le coscienze e son smisuratamente
odiati e disprezzati" [8]. Le frasi dell'opuscolo che sono state riportate
evidenziano un forte atteggiamento anticlericale ma non ateismo nè
irriguardosità della religione cattolica. Il suo fine era di denunciare gli
effetti negativi causati dalla collaborazione tra clero e monarchia.
3. I moti rivoluzionari antiborbonici, la carboneria e la reazione
Durante la restaurazione gli ideali liberali e i principi di
rinnovamento affermatisi con l’illuminismo, la rivoluzione francese e il
decennio napoleonico furono considerati dai Borboni e altri governi dell’epoca
una minaccia all’ordine costituito. Di conseguenza essi misero in atto una
profonda attività repressiva e una censura che impedisse la circolazione delle
idee, le libertà di pensiero e di stampa. Nonostante questo non fu possibile
reprimere tutti gli ideali, le aspirazioni e gli interessi dei ceti progressisti
in forte ascesa economica e sociale. Nel caso in esame l’insoddisfazione per il
regime borbonico e il desiderio di rinnovamento che da essa scaturiva
fomentarono il nascere di una forma opposizione al potere dominante che
all’epoca si espresse con la diffusione di società segrete finalizzate a
scatenare rivolte per spingere la casa reale a riconoscere le libertà
individuali e concedere una carta costituzionale.
La principale e più importante setta segreta che operò nel
napoletano fu la carboneria che raccolse adepti nell’esercito, la borghesia,
l’aristocrazia illuminata, gli studenti, gli intellettuali e il clero che a sua volta s’iscrisse a sette carbonare,
protesse i rivoluzionari compagni di ventura dalle autorità di polizia e
partecipò ad alcune sommosse. Le autorità borboniche dell’epoca vennero a
conoscenza dell'esistenza dei preti carbonari, com’è dimostrato dalle inchieste
di polizia che nel periodo 1821-1859 furono avviate nei confronti degli
ecclesiastici sospettati di non essere devoti alla monarchia. Per combatterla
si ricorse a ogni mezzo, tra cui anche la fondazione di sette opposte
reazionarie e filogovernative. Una di esse fu quella dei Calderai fondata dal
Principe di Canosa.
Nel napoletano gli iscritti alla carboneria perseguivano:
diritti e ideali romantici di libertà, rinnovamento e uguaglianza; la volontà
di ottenere la concessione di una carta costituzionale che assicurasse tali
diritti a tutti i cittadini e il passaggio da un regime di assolutismo regio a quello
democratico rappresentativo.
In
pochi anni i carbonari passarono dall’associazionismo segreto alla lotta armata
e la prima importante occasione in tal
senso si ebbe a Nola durante la notte tra il 1° ed il 2 luglio 1820 quando due
ufficiali di cavalleria (i sottotenenti Michele
Morelli e Giuseppe
Silvati) capeggiarono una rivolta di circa 150 militari che era
finalizzata esclusivamente a ottenere una carta costituzionale ma non a
rovesciare la monarchia borbonica. Inizialmente la rivolta di Morelli e Silvati
trovò l’appoggio di don Luigi Minichini, un sacerdote con principi considerati
anarcoidi che
cercava di coinvolgere nella sollevazione i contadini anziché l'esercito e la
borghesia. In
seguito la cospirazione si estese anche in altre province del Regno; ai
rivoltosi iniziali si aggiunsero altri militari rivoluzionari e cospiratori
civili; il gruppo raggiunse circa 20000 unità e il suo comando fu assunto dal
generale Guglielmo
Pepe. Il 7 luglio
1820, il Re Ferdinando I quando prese atto che non era possibile soffocare la
rivolta concesse una Costituzione simile a quella spagnola del 1812 e il 13
luglio giurò sul Vangelo di volerla difendere. Nel mese di marzo del 1821, dopo le ingerenze austriache e la sconfitta del generale
Pepe la costituzione fu sospesa. In seguito iniziò una feroce attività
repressiva che portò a 13 ergastoli, 30 condanne a morte e altre minori. Alle
iniziative governative il 13 settembre 1821 si aggiunse la bolla papale Ecclesiam
a Jesu con cui condannava tutte le società segrete, in particolare la Carboneria e
la Massoneria.
In particolare nell’enciclica il Pontefice scrisse che la Carboneria fomentava
ribellioni e spogliava i re e i prìncipi del loro potere. Pertanto comminava
la scomunica a
tutti gli iscritti alle sette carbonare. Il 13 marzo 1825 il Papa Leone XII con la bolla Quo graviora ribadì
la condanna a tali associazioni.
Le misure
repressive attuate dal governo borbonico per il mantenimento dello status quo
contro i liberali e i carbonari, furono ritenute inadeguate e carenti da parte
di alcuni elementi reazionari. Tra questi il sacerdote gesuita Gioacchino
Ventura e Antonio Capece Minutolo,
principe di Canosa, un laico conservatore ed antiliberale che dopo i moti del
1820-21 nel Regno di Napoli, fondarono la rivista "L'Enciclopedia
ecclesiastica e morale" al fine di combattere le aspirazioni liberali
anche sul piano ideologico e religioso.
I moti carbonari
del 1821 furono seguiti nelle varie province del Regno da altre rivolte antiborboniche e liberali che in
diversi anni si succedettero sino alla conquista garibaldina del 1860 (1833,
1837, 1841, 1848-49). Tra esse le più importanti scoppiarono nel 1848. In quell’anno la prima scintilla rivoluzionaria si
accese il 12 gennaio a Palermo, quando i siciliani insorsero chiedendo riforme
politiche, una costituzione, più giustizia sociale e l'indipendenza della
Sicilia. Ad essa il 27 gennaio seguì un’insurrezione e a Napoli. Ferdinando II
di Borbone, che a quel tempo reggeva il Regno promise una costituzione che
entrò in vigore il 10 febbraio. Il 15 maggio, con un voltafaccia Ferdinando prese pretesto da una sommossa popolare per
revocarla, mettere in atto la reazione, sciogliere il Parlamento e la guardia
nazionale, nominare un nuovo governo e proclamare lo stato d'assedio. La feroce
repressione che ne seguì causò circa 500 morti.
Dopo gli eventi
rivoluzionari del 1848 Ferdinando II di Borbone accentuò le forme repressive,
le misure poliziesche e ricorse in modo più deciso all’appoggio della chiesa al
fine di assicurarsi un maggior supporto al suo regime reazionario e
conservatore in evidente crisi. A tal fine nominò 51 nuovi ordinari diocesani,
estese l’affidamento degli istituti scolastici agli ordini religiosi, nel 1850
espulse dal Regno i gesuiti che avevano fondato la rivista “Civiltà Cattolica”
non particolarmente accondiscendente con il regime borbonico[9]. Inoltre il 6 luglio 1849 assegnò ai vescovi
funzioni ispettive nelle scuole non solo per gli aspetti morali e religiosi ma
anche per quelli disciplinari e scientifici. Di conseguenza agli ordinari
diocesani fu consentito d'interferire nei programmi d'insegnamento scolastici e
di considerare blasfemi, contrari alla religione e allo Stato tutte le attività
didattiche da loro presunte tali.
4. La religiosità durante la Restaurazione.
A inizio di questo capitolo va fatto presente che nel periodo in esame si assiste anche a un tentativo di reintrodurre o meglio riproporre vecchie consuetudini e forme di religiosità post-tridentine che erano cadute in disuso o rese nulle dalle leggi napoleoniche.
Ferdinando I con la legge n. 655 “Per la costruzione de’ campisanti in ogni comune di
qua del Faro” dell’11 marzo 1817 ordinò la costruzione dei cimiteri fuori
dai centri abitati, mettendo fine all’abitudine secolare di seppellirei morti
all’interno e nelle vicinanze delle chiese. Questa normativa portò a diversi cambiamenti negli
atteggiamenti e credenze religiose[10]. Innanzitutto Ad avviso di Sacciarelli, il nuovo
cimitero, concepito su basi razionalistiche che confinava il defunto in un
ambito anonimo e uniforme spezzava l’antico legame “tra morte pacificata,
celebrazione dell’orgoglio famigliare e rapporto coi vivi, un compito che i
cimiteri parrocchiali assolvevano alla meglio” [11]. Molte confraternite che si occupavano della
sepoltura dei defunti furono costrette ad adeguare le loro attività alla nuova
situazione. I cimiteri extraurbani divennero luoghi di memoria che
innescarono nuove tradizioni, consuetudini e forme di religiosità. Essi
si contrapposero e portarono all’abbandono delle antiche credenze popolari
abbastanza diffuse che di solito consideravano gli ambiti posti fuori dal
centro abitato luoghi di paura frequentati da esseri sovrannaturali, malvagi e
antitetici alla vita.
Durante la
Quaresima in ogni Comune s’invitavano i predicatori quaresimali per preparare
alla Pasqua i fedeli delle varie parrocchie. Molto spesso insieme a loro
svolgevano un'attività di propaganda religiosa i missionari con il fine di
raccogliere fondi per sovvenzionare le missioni nei paesi considerati infedeli.
Talvolta i predicatori e missionari eccedevano durante le loro prediche, spaventavano
i fedeli e diffondevano ideologie reazionarie filogovernative.
La prima metà
del XIX secolo vide l’esplosione nel Regno di Napoli di varie calamità naturali
e morbi epidemici che da certi settori furono considerati un castigo divino
contro i liberali e i moti rivoluzionari. In questi casi si accentuarono le
preghiere d’invocazione d’interventi soprannaturali per l’allontanamento del
male. Pertanto, le inspiegabili guarigioni e il fatto che le collettività non
erano toccate dai morbi erano considerati eventi miracolosi attribuiti
all’intervento soprannaturale dei santi protettori. In diverse località del
Regno sono sorte numerose leggende e fatti dimostrativi di quanto scritto.
All’epoca le
festose ricorrenze civili, le nascite, i compleanni e gli onomastici dei
familiari della casa reale erano celebrati in ogni parrocchia con solenne
funzioni religiose e Te Deum di ringraziamento. Questi riti legittimavano e il potere politico e l’ordine
esistente; rafforzavano lo stretto legame esistente tra il potere civile e la
religione; diffondevano l’immagine di un re paterno e magnanimo che amava i
suoi sudditi e organizzava feste per farli divertire, un insieme di fatti che
accresceva la devozione alla monarchia.
Le
feste laiche erano accompagnate da sfilate militari al suono dei tamburi,
illuminazioni notturne, giochi pirotecnici, alberi della cuccagna e
altro. La stessa ritualità seguivano anche le più importanti feste
religiose e patronali che si celebravano nei vari Comuni del Regno. In tali
occasioni le autorità
civili contribuivano con propri fondi a realizzarle e durante le processioni
solenni occupavano posizioni di rilievo dietro la statua dei santi, una
consuetudine che in molti casi è ancora attuale. Spesso le feste patronali
erano accompagnate anche da fiere e mercati che incentivavano
il commercio e le attività produttive locali e quindi nel loro complesso
fornivano l’occasione a certi personaggi e categorie sociali di mettersi in
mostra, acquisire prestigio comunitario e anche di accrescere il proprio
reddito.
Per quanto
riguarda altri aspetti della religiosità e spiritualità in questo periodo si
pone l'accento sui temi dominanti nella predicazione e cioè: l'orrore del
peccato; la necessità della salvezza eterna; il collegamento tra collera divina
eventi catastrofici e l'invocazione alla misericordia di Dio come mezzo per
alleviarli; la necessità di accostarsi con più frequenza ai sacramenti;
un'accentuazione della devozione alla Madonna ed al Cuore di Gesù.
Nel 1820, con
nuova normativa riguardante l’amministrazione degli stabilimenti di beneficenza
e dei luoghi pii laicali del Regno tra cui le confraternite e le cappelle
laicali, si osserva una diversa parziale destinazione delle loro rendite.
Infatti buona parte dei cespiti che in passato erano destinati alla
celebrazione di messe si dovevano utilizzare per il mantenimento dei poveri e
le istituzioni benefiche fondate nel Regno di Napoli. Questi cambiamenti più
che evidenziare una diversa religiosità degli amministratori dei luoghi pii,
sono il risultato della politica governativa che con opportuni provvedimenti
legislativi iniziò ad occuparsi del sociale e impose che nei bilanci delle
istituzioni suddette fossero comprese uscite per le attività assistenziali. I
contributi ai poveri non potevano essere arbitrari; infatti l'articolo 42 del
"Regolamento degli stabilimenti di beneficenza e dei luoghi pii
laicali, loro tutela ed amministrazione" del 1820 prescriveva che i
contributi ai poveri potevano essere effettuati solo a favore di quelli del
proprio Comune ed in possesso di un attestato di povertà rilasciato dal
parroco.
A conclusione di
questo capitolo per evidenziare altre forme in cui si manifestò la religiosità
nel periodo storico in esame si riportano le particolari forme di devozione e
di testimonianza di fede cristiana che sono emerse dalla consultazione di vari
testamenti.
Vari rogiti del
1816-1817 riportano la seguente invocazione religiosa: "Raccomando
l'anima al Sommo Dio affinché per i meriti di Gesù Cristo abbia a perdonarmi
tutte le colpe commesse". Altri riportano formule di invocazione
religiosa diverse che cambiano da notaio a notaio ed esse, nonostante la
diversa formulazione rappresentano in ogni caso la volontà del testatore di
chiedere l'intervento di Dio e dei santi per le sorti della propria anima.
In alcuni rogiti il testatore lasciava
agli eredi una grossa cifra con cui celebrare messe a suffragio dell'anima del
defunto per un periodo variabile da uno a quattro anni. In altri si dispose che
gli eredi dei vari beni organizzassero un decente funerale ed inoltre donassero
qualcosa al Real Albergo di Napoli, una istituzione laica di beneficenza.
Nei rogiti notarili successivi al
1816-1817 che sono stati consultati non si autorizzarono donazioni a favore del
Real Albergo di Napoli. Inoltre si ridussero le donazioni a favore degli enti
ecclesiastici, un fatto dimostrativo che l'atteggiamento religioso era cambiato
rispetto al passato.
5. L’Abruzzo durante la Restaurazione.
5.1 La carboneria regionale, l’atteggiamento antiborbonico e le rivolte.
Le
prime sette carbonare in Abruzzo iniziarono a essere fondate durante il
decennio napoleonico e proseguirono nella Restaurazione. Ad avviso di Pansa,
“durante
l’occupazione francese di Giuseppe Napoleone, allo scopo di educare i popolo e
di distruggere l’influenza del regime borbonico, si radicò in Abruzzo la setta
della Carboneria, ritenuta generalmente una riforma del massonismo”[12].
Ad
avviso di Di Giovanni tra il 1819 e il 1820 in quasi tutti i paesi dell’Abruzzo
esistevano vendite carbonare[13]. Nonostante che la Carboneria
raccolse un discreto numero di adepti, nel complesso non riuscì a organizzare
grandi moti rivoluzionari e la Regione fu interessata solo da rivolte più o
meno sporadiche.
Gli
avvenimenti e i moti rivoluzionari di altre località del Regno, quando furono
conosciuti dai carbonari regionali e dagli altri soggetti contrari alla
monarchia borbonica, furono accolti con entusiasmo, simpatia e in qualche caso
accompagnati da alcuni tentativi d’imitazione insurrezionale. Costantini
scrisse che in Abruzzo: “Non si faceva altro che imitare ciò che si operava
in altri centri; attendevamo gli ordini che ci potevano venire da altrove.
Nessuna iniziativa, insomma, nessun movimento senza l'altrui impulso”[14].
A L’Aquila, nel 1813
il marchese Giacinto Dragonetti fondò la prima vendita carbonara[15]. Nel 1821, quando in città giunsero le notizie
sulle vicende rivoluzionarie organizzate nel Regno di Napoli si registrò un
aumento degli iscritti alla Carboneria e furono organizzate manifestazioni di
giubilo con Te Deum di ringraziamento, un gran ballo e altro [16]. Anche a Chieti e Provincia tra il 1820 e il 1821
aumentarono le iscrizioni alla Carboneria che nel complesso annoverò parecchie
migliaia d’iscritti. È tuttavia da presumere che tutte queste iscrizioni più
che essere dettate da vera fede politica, in realtà fossero ispirate dalla
volontà di cavalcare il carro dei vincitori.
La Carboneria
abruzzese operò anche a Teramo ove si diffuse anche tra gli ecclesiastici, come
dimostrano i seguenti passi di una lettera del vescovo di Penne inviata al
ministero degli affari ecclesiastici di Napoli: “Su dodici canonici solo uno
non era con certezza carbonaro: degli altri undici, due sospetti e nove
sicuramente affiliati”[17]. In questa città nel 1820 furono affissi manifesti
con cui si annunciava che il re Ferdinando I aveva concesso la Costituzione. In
seguito le iscrizioni alla Carboneria aumentarono[18].
Oltre
che la carboneria anche Giovine Italia raccolse dei proseliti in Regione e
favorì alcune insorgenze.
Dopo i moti
carbonari del 1820-21. nel Regno delle due Sicilie fu eletto un nuovo
parlamento in cui fecero parte varie personalità abruzzesi tra cui Michelangelo
Castagna, Michele Coletta e Melchiorre Delfico.
In Abruzzo le
manifestazioni di apprezzamento per i moti carbonari del 1821, qualche anno
dopo furono seguite anche da alcune sommosse popolari. Una di esse si ebbe a
L’Aquila su iniziativa di Luigi Falconi ma fu immediatamente soffocata. Nella stessa città nel 1833 fu
organizzata una repressione anti-liberale che portò a numerosi arresti.
Un altro moto insurrezionale antiborbonico scoppiò a Penne il 23
luglio 1837 e coinvolse anche gli abitanti di alcuni Comuni vicini:
Cappelle, Farindola, Moscufo e Spoltore[19]. Ad avviso di Costantini i rivoltosi
furono guidati da membri iscritti alla Giovine Italia[20]. Dopo alcuni giorni la rivolta fu
domata, furono eseguiti numerosi arresti, 12 insurrezionalisti furono
condannati a varie pene detentive e per otto di essi ci fu la condanna a morte
e la fucilazione che avvenne a Teramo il 21 settembre.
Attorno
al 1840 al fine di prevenire e soffocare ogni tentativo di sommossa in Abruzzo,
il governo borbonico rinforzò gli organici militari e della Gendarmeria reale
che era composta da oltre 10000 uomini[21].
Un’altra
rivolta antiborbonica scoppiò a L’Aquila l’8 settembre 1841 e fu capeggiata dal
barone Vittorio Ciampella che all’epoca
ricopriva la carica di sindaco. Nello stesso
anno in città circolava il giornale "Riforma della Giovine Italia"
che s’ispirava ai principi mazziniani.
Si arriva così
al 1848, l’anno delle numerose e grandi rivoluzioni europee. In Abruzzo in
quell’anno scoppiarono varie sommosse di tenore avverso (anche reazionarie) in
varie località regionali: Caramanico, Lettomanoppello, Pratola Peligna e
Teramo. Le rivolte del 1848, ad avviso di Del Villano & Di Tillio videro la
partecipazione attiva di varie personalità democratiche e liberali e a Penne
fecero ritorno alcuni rivoluzionari[22]. Ad avviso di Brancaccio, in Abruzzo la diffusione
della notizia che Ferdinando II aveva concesso la costituzione “diede
origine a opposte manifestazioni. Mentre a Tocco Casauria si leggevano i
giornali provenienti da Napoli e si commentavano favorevolmente le informazioni
sul mutato clima politico che dominava la capitale, si scrivevano poesie
impregnate di patriottismo, le si declamavano in pubblico e si applaudivano le
guardie nazionali, a L’Aquila, invece, ci fu un tentativo controrivoluzionario,
che fu subito stroncato dai protagonisti del moto del 1841, che sostennero la
causa della monarchia costituzionale[23]. A Teramo nel 1848 ci furono scene d’entusiasmo
accompagnate da un fatto di sangue. A Chieti non si registrarono atti di
violenza e le vicende rivoluzionarie furono seguite con entusiasmo, interesse e
partecipazione da alcuni membri della Giovine Italia, altri simpatizzanti
liberali e i frequentatori di vari circoli intellettuali.
A seguito dei
moti del 1848 e della concessione della Costituzione, il Re Ferdinando II inviò
un proprio esercito che partecipò alla I° Guerra d’Indipendenza. Esso
comprendeva il 10° Reggimento di Fanteria di Linea Abruzzo che era composto da
soldati originari delle tre provincie regionali e andò a rinforzare una
divisione di volontari proveniente dalla Toscana[24].
La reazione
anche in Abruzzo portò ad arresti e condanne. Infatti, tra il 1848 e il 1855
circa un migliaio di persone fu processata per reati politici vari tra cui
"attentato e cospirazione a oggetto di distruggere e cambiare la forma
di governo e a eccitare i sudditi del Regno contro l'autorità reale".
Ai processi seguirono numerose condanne.
6. La Chiesa abruzzese durante la Restaurazione.
In
seguito all’applicazione delle norme concordatarie tra la Santa Sede e il Regno
di Napoli e della bolla “De utiliori” (27 giugno 1818) del Papa Pio
VII fu attuata una riforma delle circoscrizioni ecclesiastiche e i Comuni che
ora appartengono all’Abruzzo furono ripartiti in otto diocesi. Le diocesi di Cittaducale, Campli e Ortona scomparvero e furono
accorpate a L’Aquila, Teramo e Lanciano. Negli anni successivi sino all’Unità,
furono messi in atto altri provvedimenti di riorganizzazione
ecclesiastico-amministrativa riguardanti le diocesi regionali che saranno
trattati in seguito.
Fatte
queste premesse di carattere generale veniamo ora ad analizzare i principali
fatti riguardanti le otto diocesi abruzzesi e la cronotassi dei loro vescovi
nel periodo in esame.
Arcidiocesi
di Chieti-Vasto.
A seguito della riforma delle circoscrizioni
ecclesiastiche del 1818
l’arcidiocesi di Chieti restò senza suffraganee
mentre alcune Chiese nullius dioecesis furono soppresse
e riunite alla sede arcivescovile. Nel 1853 il papa Pio IX con la bolla In apostolica
omnium ecclesiarum eresse la diocesi di Vasto che fu affidata in
amministrazione all'arcivescovo di Chieti. Tra il 1815 e il 1860 la diocesi fu
amministrata ai seguenti presuli: Francesco
Saverio Bassi (18 dicembre 1797 - 26 marzo 1821); Carlo
Maria Cernelli (19 aprile 1822 - 18 maggio 1837), Giosuè
Maria Saggese (17 settembre 1838 - 24 aprile 1852), Michele Manzo (27
settembre 1852 -7
marzo 1856), Luigi
Maria de Marinis (18 settembre 1856 - 27 agosto 1877).
Arcidiocesi di Lanciano e amministratori apostolici di Ortona.
L'arcidiocesi
di Lanciano-Ortona attualmente è una suffraganea dell'arcidiocesi
di Chieti-Vasto[25]. Dopo il concordato del1818
e la bolla De utiliori la
diocesi di Ortona e Campli fu soppressa e il distretto di Ortona fu annesso a
Lanciano. il 19 febbraio 1834, il papa Gregorio XVI
con la bolla Ecclesiarum
omnium ripristinò la diocesi di Ortona e l’assegnò in amministrazione
perpetua al vescovo di Lanciano. I presuli che nel periodo in considerazione
diressero l’arcidiocesi furono: Francesco
Maria De Luca (6 aprile 1818 -13 gennaio 1839), Ludovico Rizzuti (23 dicembre 1839 - 4 agosto 1848), Giacomo De
Vincentiis (22 dicembre 1848 - 5 maggio 1866).
Arcidiocesi
de L’aquila.
L’Arcidiocesi de
L’Aquila è una sede metropolitana che ora ha come suffraganee le diocesi di Avezzano
e Sulmona-Valva.
Nel
1818 fu soppressa la diocesi
di Cittaducale e il suo territorio fu annesso
alla sede aquilana. Nel 1836 il papa Gregorio XVI ordinò l’annessione alla diocesi di alcuni
centri abitati su cui in precedenza gli abati di Farfa esercitavano
la giurisdizione ecclesiastica. I presuli che
la diressero furono i seguenti: Francesco Saverio Gualtieri (26 marzo 1792 - 6 aprile 1818), Girolamo Manieri (6 aprile 1818 -12 novembre 1844), Michele Navazio (20 gennaio 1845 - 26 aprile 1852); Luigi Filippi (7 marzo 1853 - 28 gennaio 1881).
Diocesi di Avezzano.
Nel
periodo in esame il territorio diocesano non subì alcuna modifica. I presuli
che l’amministrarono furono i seguenti: Camillo Giovanni Rossi (26 giugno 1805 - 26 giugno 1818), Saverio Durini (21 dicembre 1818 - 17 novembre 1823);Giuseppe Segna (3 maggio 1824 - 8 marzo 1840), Michelangelo Sorrentino (19 giugno 1843 - 17 aprile 1863).
Diocesi di
Sulmona-Valva.
Nel 1818 la
diocesi di Sulmona-Valva estese la sua circoscrizione con l'annessione dei territori di Pratola e San Benedetto in Perillis
che in precedenza appartenevano all’abbazia celestiniana di Santo Spirito al
Morrone. Per quanto riguarda la cronotassi vescovile c’è da
dire che dal1799 al 1818 la diocesi rimase vacante e rischiò la soppressione.
In seguito ciò fu evitato e i presuli che la diressero furono i seguenti:
Felice Tiberi (6 aprile 1818 - 22 aprile 1829),
Giuseppe Maria Deletto (27 luglio 1829 - 10
novembre 1839);
Mario
Giuseppe Mirone (27
aprile 1840 -
27 giugno 1853);
Giovanni Sabatini (27 giugno 1853 - 10
marzo 1861).
Diocesi di Teramo
La diocesi di Teramo esisteva da lunga
data. Nel 1818 si ampliò con l’acquisizione del territorio della diocesi di
Campli che fu soppressa. I vescovi che nel periodo in esame la diressero furono
i seguenti: Francesco Antonio Nanni (26 giugno 1805 - 8 marzo 1822), Giuseppe Maria Pezzella (24 novembre 1823 - 18 giugno 1828), Alessandro Berrettini (5 luglio 1830 - 29 ottobre 1849), Pasquale Taccone (30 settembre1850 - 20 ottobre 1856), Michele Milella, (20 giugno 1859 - 2 aprile 1888).
Diocesi di Penne e
Atri.
La diocesi di Penne ed
Atri fu fondata nel 1252 e scomparve nel 1949 quando il suo territorio fu ripartito
tra varie circoscrizioni diocesane. Dal 1815 al 1818 fu sede vacante mentre in
seguito fu occupata da due presuli con un lungo di episcopato: Domenico
Ricciardone (1818-1845) e Vincenzo
D'Alfonso (1847-1880).
Diocesi di Trivento
La diocesi di Trivento è una suffraganea dell'arcidiocesi di Campobasso-Boiano che comprende Comuni molisani e quelli abruzzesi di Borrello, Castelguidone, Castiglione Messer Marino, Celenza sul Trigno, Roio del Sangro, Rosello, San Giovanni Lipioni, Schiavi di Abruzzo e Torrebruna. Nel periodo storico in esame fu retta dai seguenti vescovi: Luca Nicola De Luca (26 marzo 1792 - 7 giugno 1819), Bernardino Avolio, (21 febbraio 1820 - 18 luglio 1821), Giovanni De Simone (19 aprile 1822 - 3 luglio 1826), Michele Arcangelo Del Forno (9 aprile 1827 - 18 marzo 1830), Antonio Perchiacca (2 luglio 1832 - 26 novembre 1836), Benedetto Terenzio (19 maggio 1837 -27 gennaio 1854) e Luigi Agazio (23 giugno 1854 - 1º febbraio 1887).
Anche il clero
abruzzese non assunse un atteggiamento univoco nei confronti della carboneria.
Una sua componente più conservatrice si oppose ai suoi programmi e ideali. A
questa categoria appartengono: i preti e frati reazionari e filogovernativi che
fornivano agli organi di polizia notizie sulle persone sospettate di essere
liberali e arrivarono ad accusare anche loro confratelli; i sacerdoti
incaricati delle missioni che anziché predicare il Vangelo diffondevano
ideologie controrivoluzionarie. Tra essi i preti dell'Ordine del preziosissimo
sangue di N.S. Gesù Cristo che nel 1822
furono chiamati a predicare nel teramano
per convertire gli uomini della “provincia più carbonara del Regno di Napoli”.
Un’altra componente assunse una posizione
d’indifferenza o si schierò apertamente dalla parte dei rivoluzionari,
appoggiandoli direttamente, iscrivendosi alle vendite e partecipando alle
sommosse. A tal proposito Costantini riporta un elenco di carbonari di vari
Comuni della Provincia di Chieti che comprende 28 preti [26]. A essi si aggiungono 12 frati che furono
sospettati di essere liberali [27]. Inoltre altri frati e preti ebbero un ruolo di
sostegno e appoggio più o meno rilevante nel corso di varie sommosse.
Nel 1837 il vescovo Domenico Ricciardone riuscì a sedare un
tumulto che scoppiò a Penne quando si diffuse la voce che il Governo avesse
avvelenato i pozzi per diffondere il colera: il presule placò la sommossa interponendosi tra gli insorti
e i gendarmi.
Nel 1848 a Chieti
il convento dei cappuccini fu trasformato in una sorta di “asilo” per i
simpatizzanti del movimento liberale[28].
Per quanto
riguarda i vescovi, va ricordato che essi erano di nomina regia e giuravano
fedeltà al re; quindi erano legati alla corona e alla sua volontà discrezionale
anche se l’atteggiamento di sudditanza cambiava da persona a persona. Un
presule che nel 1848 appoggiò la reazione fu l’arcivescovo di Chieti Giosuè
Maria Saggese. Ad avviso di Costantini l’arcivescovo “Era un suddito rigidamente
fedele al suo re ed amico; combatteva i liberali perché, secondo lui
minavano il trono e sconvolgevano la pubblica tranquillità”[29].
Inoltre un
Costantini scrisse che Mons. Saggese: “s' avvalse di tutti i mezzi per
soffocare ogni idea di libertà, coadiuvò efficacemente i magistrati e la
gendarmeria nella scoperta dei reati politici”[30].
Brancaccio a sua
volta fa presente che mons. Saggese in una pastorale del 17 febbraio 1848
affermò che le concessioni costituzionali erano «conformi all’attuale
incivilimento» e di conseguenza invitò i diocesani al rispetto delle nuove
autorità governative. Nello stesso tempo, nei vari Comuni della diocesi
promosse le missioni dei Gesuiti che per garantirsi il controllo dell’opinione
pubblica ricorrevano a ogni mezzo[31].
In considerazione di questi
fatti, una commissione di liberali impose a Mons. Saggese di ritirare i padri
missionari che in occasione della Quaresima con le loro prediche spaventarono
la popolazione con metodi poco religiosi.
La reazione che
seguì i fermenti rivoluzionari del 1848 portò a misure restrittive anche nei
confronti del clero. Numerosi sacerdoti regionali furono sottoposti ad
inchieste di polizia poiché sospettati di aver aderito ai movimenti
rivoluzionari o per avere adeguate garanzie sui loro requisiti morali e
politici nel caso dovessero ricoprire incarichi molto delicati e particolari.
Alcuni di essi furono condannati e dopo la condanna delle autorità civili
arrivava anche quella della delle autorità religiose che li obbligava a
ritirarsi per un certo periodo di tempo in monasteri isolati per dedicarsi a
esercizi spirituali, preghiera e contemplazione.
6.3 La religiosità.
In conseguenza
dei vari fermenti politico-rivoluzionari del periodo, le nuove normative e
ideologie che iniziarono a circolare, il modo di manifestarsi del sentimento
religioso iniziò a modificarsi per cui anche in Abruzzo accanto ad antichi
modelli arcaici che continuavano a sopravvivere, si assiste alla diffusione di
altri riguardanti atteggiamenti religiosi quotidiani, credenze, feste da
celebrare, etc.
Per la comprensione della religiosità del periodo in esame si inizierà l’analisi con un commento al sinodo diocesano teatino che l'Arcivescovo Mons. Bassi tenne dal 10 al 12 ottobre 1815. Esso fu convocato circa 150 anni dopo l'ultimo sinodo teatino e in un momento di chiara necessità al fine di riconfermare i vecchi dogmi e metodi della Chiesa, riproporre valori cristiani universali e vecchi modelli religiosi in alternativa a forme ritenute dissacranti e soprattutto ordine in una realtà socio-religiosa sconvolta dalle vicissitudini politiche del decennio napoleonico.
Nel I capitolo
delle costituzioni sinodali si prescrissero norme riguardanti la condotta del
clero. In particolare si vietò ai sacerdoti di assistere a giochi e spettacoli
proibiti, di tenere in casa donne consanguinee e domestiche non inferiori
all'età di 45 anni, indossare abiti e portare acconciature non prescritte per
l'ufficio ecclesiastico. Le autorità diocesane erano convinte che il Decennio
francese fu caratterizzato da un certo libertinaggio e pertanto tali norme
riguardanti la condotta dei preti dovevano servire a ridare loro la giusta
dignità.
Il II capitolo
prescrisse che ogni sacerdote potesse disporre di vari testi da utilizzare
nell'esercizio del ministero pastorale tra cui: la sacra scrittura, il
catechismo romano e qualche autore di teologia morale.
Il III capitolo
si dispose che la domenica, durante la Quaresima e in tutti gli altri giorni
festivi, ogni parroco con l'aiuto di altri sacerdoti era tenuto ad insegnare il
catechismo ai fanciulli. Per gli adulti si esortavano i sacerdoti a tenere la
catechesi durante la celebrazione delle messe.
Il IV capitolo
prescrisse cogni parroco durante la celebrazione delle messe domenicali e delle
feste solenni doveva spiegare ai fedeli le principali virtù da praticare ed i
vizi da evitare per condurre una corretta vita cristiana. Inoltre raccomandò
loro che all'avvicinarsi della Quaresima dovevano tenere un corso di
predicazione quaresimale con almeno otto giorni di esercizi spirituali.
Il I capitolo
della seconda sessione prescrisse che ogni parroco era tenuto a battezzare
quanto prima i neonati e a persuadere i genitori a imporre ai propri
discendenti, nomi di santi e non pagani o osceni.
Nel III capitolo
si fece presente che con la confessione non si potevano assolvere gli usurai
che non promettevano di riparare ai loro mali e coloro che ignoravano la
dottrina cristiana.
Il VI capitolo
prescrisse che la messa doveva avere una durata non inferiore a 20 minuti, non
superiore a mezz'ora e si doveva celebrare seguendo le norme dettate dal papa
Benedetto XIV.
Nel VII capitolo
si fece presente che durante i giorni festivi tutti dovevano astenersi da
qualsiasi attività lavorativa, dovevano ascoltare la messa e la predica, non
ubriacarsi, non partecipare a giochi proibiti e infine fare opere buone di
qualsiasi genere.
Nel XV capitolo
si fece presente che solo il vescovo poteva sollevare dalla sanzione di
scomunica: 1) chi si serviva dell'Eucarestia, del Crisma, dell'Olio santo e da
qualsiasi altra cosa consacrata per stregonerie e sortilegi; 2) gli aspiranti
sacerdoti che documentavano un falso patrimonio sacro; 3) i sacerdoti che sul
libro delle messe annotavano funzioni religiose mai celebrate; 4) coloro che
durante i processi civili e penali testimoniavano il falso; 5) coloro che
scrivevano lettere anonime contro qualsiasi ecclesiastico; 6) le coppie che
prima di contrarre il matrimonio in chiesa avevano rapporti sessuali; 7) coloro
che commettevano incesto.
Molto decreti
sinodali del 1815 sono molto simili e ripropongono altri analoghi promulgati
durante i sinodi organizzati nel XVI
secolo. Essi condizionarono il comportamento religioso nella diocesi fissando a
tal proposito precise norme.
All’epoca anche
in Abruzzo era diffusa la convinzione che l’intercessione miracolosa di santi e
beati poteva contribuire a liberare la popolazione da gravi malattie e morbi
epidemici. Gli esempi in tal senso sono numerosi e di essi se ne riportano
alcuni. Tra il 1817 e il 1818 i vastesi attribuirono la
salvezza da un’epidemia di peste all’intervento miracoloso dell'Arcangelo Michele
la cui statua si conservava nella chiesa di San Giuseppe. Nel 1837 Vasto fu colpita da una nuova epidemia di colera. In
quest’occasione la statua dell'Arcangelo Michele fu portata in processione sino all'altura dove sorge la
cappella attuale. In seguito il colera non si diffuse all’interno delle mura
della città; il fatto fu attribuito all’intercessione miracolosa dell’Arcangelo
e in segno di ringraziamento i vastesi fecero costruire un nuovo elmo per la
sua corazza da guerra e ricostruirono il santuario. Nel 1854 Lama dei Peligni fu colpita dal colera che
provocò nel paese solo 6 vittime. Poiché rispetto ad altri comuni il morbo
causò danni più limitati, la popolazione locale ritenne che ciò fu dovuto alla
protezione sovrannaturale accordata dal Santo Bambino che nel luogo è molto
venerato. Questi esempi dimostrano che la religiosità popolare ha un carattere
strumentale ed i santi in genere sono ritenuti dei numi tutelari. In
particolare attraverso la devozione ai santi protettori, gli individui
dell’universo agro-pastorale abruzzese manifestavano la volontà di superare il
negativo, di sperare nel l’aiuto di tali entità soprannaturali per assicurarsi
un'esistenza migliore che fosse meno condizionata da eventi infausti e da
condizioni sociali subalterne.
Un altro aspetto
della religiosità dell’epoca è costituito dalle predicazioni quaresimali che si
affidavano a compagnie di padri missionari al fine di preparare i fedeli alla
Pasqua. Non sempre l’attività di predicazione perseguiva finalità
esclusivamente religiose. Infatti l’attività missionaria organizzata nel 1827
nella diocesi di Teramo ebbe lo scopo di convertire gli uomini di quella che fu
dichiarata la provincia più carbonara del Regno di Napoli. A Questo
delicato compito furono delegati i sacerdoti dell'Ordine del preziosissimo
sangue di N.S. Gesù Cristo, guidati
da Gaspare del
Bufalo, proclamato poi santo dalla Chiesa cattolica.
Il 12 novembre
1831 l'Intendenza di Chieti fece diffondere in tutti i Comuni della Provincia
il seguente regolamento da osservarsi per le spese occorrenti per la Santa
Missione che in quell’anno fu eseguita dai padri della Congregazione del
Santissimo Redentore o Liquorini: "Art. 1: l'importo delle spese di
vetture e cibari da Aquila a Chieti, ed indi per simili spese nel ritorno sarà
ratizzato sopra tutt'i Comuni che riceveranno a S. Missione; Art. 2: Le spese
di transito da un Comune all'altro saranno a carico sempre del Comune cui si
reca la Compagnia de' Missionari. All'oggetto i Sindaci saranno preventivamente
avvisati della mossa dal P. Superiore; Art. 3: In ciascun Comune de'
suaccennati appena giungerà il presente si riuniranno in Commissione il parroco
e 'l Sindaco con uno de' principali del Paese e di loro scelta, ma che si
distingua per religione e pietà e provvederanno che sia pronta l'occorrente
tanto riguardo ai mezzi di trasporto, quanto al decente alloggio e trattamento
della suscritta Compagnia; Art. 4: Nell'insufficienza de' fondi comunali
destinati all'uopo, e derivanti dai residuali onorarii dei Predicatori
quaresimali del 1828 e 1830 sarà a cura della mentovata Commessione provveduto
al manchevole coi mezzi che la pietà de' fedeli e divoti benestanti fornirà ad
un'opera tanto utile pel miglioramento spirituale delle popolazioni. Chieti, 12
novembre 1831" [32]. Talvolta i predicatori quaresimali si facevano
portatori di idee e valori non del tutto in linea con il messaggio cristiano,
rimproveravano e terrorizzavano i fedeli minacciando castighi divini. A tal
proposito Colapietra (1990) scrisse che a Chieti e Provincia nel 1848 i
Gesuiti durante le prediche, incutevano lo spavento delle popolazioni con
metodi meno che religiosi "allo scopo di guadagnarsi preliminarmente,
negli sconquassi dell’epoca, il controllo di un’opinione pubblica inquieta e
distratta”.[33]
Nel periodo in
esame molte famiglie di possidenti abruzzesi e non, in considerazione della
maggior disponibilità di beni e della propria fede chiesero e ottennero
l'autorizzazione a costruire un oratorio privato nella loro abitazione
principale al fine di soddisfare esigenze di pratica religiosa strettamente
private. Tali richieste accentuavano le differenze di classe e riaffermavano il
prestigio sociale dei ceti dominanti. Questo gruppo, oltre che con gli oratori
privati esprimeva il proprio prestigio anche utilizzando le seguenti forme che
la religione metteva a loro disposizione: la fondazione di cappelle laicali, la
costituzione dei patrimoni sacri con cui avviavano i loro membri al sacerdozio,
le opere di beneficenza, le targhe ricordo, i sepolcri famigliari e i posti
riservati in chiesa, l’iscrizione e la direzione di confraternite, i lasciti
per celebrazione di messe e suffragio dei defunti. In base a questi fatti
sembrerebbe che anche il paradiso è classista e non è aperto ai ceti meno
abbienti che non avevano i mezzi per far celebrare 50 e più messe all'anno per
l'anima dei propri defunti, chiedere l'indulto per l'oratorio privato o
assegnare una rendita per l'erezione di una cappella laicale ed altro. Sembra
che le famose parole del Vangelo "Beati i poveri di spirito"
anziché essere espresse dal figlio di Dio erano uscite dalla bocca di un
eretico. Tuttavia i ceti meno abbienti dell’Abruzzo, rivelano la loro profonda
adesione ai principi del cristianesimo nei suoi aspetti più genuini e semplici
e non per questo secondari alle forme di devozione delle classi dominanti
attraverso v tratti della loro cultura religiosa: la pia devozione di tanti
loro uomini e donne, l’attaccamento ai valori famigliari e cristiani, la
partecipazione alle funzioni religiose e via dicendo.
Durante la
Restaurazione anche nei Comuni dell’Abruzzo ebbe inizio la costruzione dei
cimiteri comunali all’esterno dei centri abitati.
Nel 1848 la
celebrazione dell’onomastico del Re (30 maggio) in varie località regionali
incontrò seri ostacoli e non fu celebrato. Inoltre all’epoca la partecipazione
alle funzioni religiose era quasi un obbligo, come dimostra Costantini con i
seguenti passi: “Guai a colui che voleva pensarla a suo modo; e peggio
ancora se mancava due volte di seguito alla messa, se dimenticava di
comunicarsi ogni mese, di assistere ad una processione senza cero, o d'
illuminare la propria casa in tutte le feste di Cort! Era segnato nella
terribile lista degli attcndibili”[34].
Una circolare
del 26 dicembre 1854 ordinava che il giorno in cui la regina avesse partorito
ci sarebbe stato l’annuncio in ogni Comune del Regno, si dovevano organizzare
tre giorni di festa, celebrare il Te Deum di ringraziamento, sparare le
consuete salve di cannone, la sera illuminare tutti i locali pubblici e
distribuire beni di prima necessità ai poveri. Il 22 gennaio 1855 l'Intendente
di Chieti inviò ai sindaci della provincia una circolare con cui comunicava che
la regina aveva generato una bambina e pertanto invitò tutte le autorità locali
civili e religiose a organizzare i festeggiamenti previsti. Altrettanto avvenne
nelle altre provincie della Regione.
Nello stesso
anno in occasione della proclamazione e definizione del dogma della Immacolata
Concezione, in ogni Comune della Regione fu organizzata una festa.
6.4 I santi e i beati abruzzesi vissuti durante la Restaurazione.
Nel
periodo in esame in Abruzzo vissero anche due personaggi che condussero una
vita cristiana esemplare e dopo la loro morte furono elevati al trono degli
altari.
Il
primo di essi è Nunzio Sulprizio che nacque il 13 aprile 1817 a Pescosansonesco
e morì diciannovenne a Napoli il 5 maggio 1836. Nel
1859 fu dichiarato venerabile da Pio IX e il 1° dicembre 1963 il papa Paolo VI lo beatificò durante una sessione del
Concilio.
Il secondo è Gabriele
dell’Addolorata (al secolo Francesco Possenti), un abruzzese di adozione che
nacque ad Assisi il primo marzo 1838 e concluse la sua vita all’età di 24 anni
a Isola del Gran Sasso il 27 febbraio 1862. Nel 1856, all'età di 16 anni entrò nei Passionisti e
cambiò il suo nome di battesimo in quello di Gabriele. Nel 1920 fu dichiarato santo da Benedetto XV e nel 1959 patrono
dell’Abruzzo da Giovanni XXIII. Il culto di San Gabriele in Abruzzo si
diffuse per iniziativa dei padri passionisti che sino ad alcuni decenni fa, con
molta frequenza erano nominati predicatori quaresimali per preparare i fedeli
alla Pasqua.
7. Bibliografia consultata
8. Note
[1] Codice per lo Regno delle due Sicilie. Parte seconda. Leggi penali,
pag. 24.
[2] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
Moderno, pag. 454.
[3] Tra gli ordini religiosi non
rifondati che scomparvero ci fu quello dei Celestini.
[4] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
Moderno, pag. 455.
[5] Mercati A., Raccolta di Concordati su materie
ecclesiastiche tra la Santa Sede e le autorità civili (1098-1954), vol. I,
pag.635.
[6] Cestaro A., Per una definizione tipologica e funzionale
della parrocchia nel Mezzogiorno nell’età moderna e contemporanea, pag.179.
[7] Scaduto G., Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, vol. I, pp.
60-63.
[8] Scaduto G., Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, vol. op. cit.,
pag. 64.
[9] Traniello F., Chiesa, Mezzogiorno e Risorgimento,
pag.92.
[10] Altre leggi e decreti d’epoca
successiva consentivano in alcuni casi la sepoltura dei defunti dentro le
chiese. Infatti, gli articoli 14 e 15 del Real Decreto del 12 dicembre 1828
autorizzavano coloro che già possedevano tombe all’interno delle chiese di
poter continuare a seppellirvi i propri cari e nel 1857 Ferdinando II emanò
decreto che consentiva la sepoltura in chiesa a tutti gli ecclesiastici.
[11] SACCIARELLI A.M., …in
pulverem reverteris Personaggi e luoghi del riposo eterno a Cerchio (AQ),
pag.91.
[12] Pansa G., I sigilli segreti della Carboneria
abruzzese, pag. 406.
[13] DI
GIOVANNI L. 200 anni di Carboneria in Abruzzo, pag. 7.
[14] Costantini B., Azione e reazione: notizie storico-politiche
degli Abruzzi…, pag. 11.
[15] DI
GIOVANNI L. 200 anni di Carboneria in Abruzzo, pag. 8.
[16] CANOSA
R., Storia dell’Abruzzo nell’età della
Restaurazione e del Risorgimento.
[17] DI
GIOVANNI L. 200 anni di Carboneria in Abruzzo, pag. 13.
[18] Serpentini E. S.
& Di Giovanni L. Storia della Massoneria e della
Carboneria in Abruzzo.
[19] Del Villano W. & DI Tillio Z., Abruzzo nel
tempo, pag.150.
[20] Costantini B., Azione e reazione: notizie storico-politiche
degli Abruzzi…, pag. 12.
[21] PROCACCI A., Storia militare
dell’Abruzzo borbonico, pag. 302.
[22] Del Villano W. & DI Tillio Z., Abruzzo nel
tempo, pag.152.
[23] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
Moderno, pag. 449.
[24] PROCACCI A., Storia militare
dell’Abruzzo borbonico, pag. 304-305.
[25] Una diocesi
suffraganea, nell'organizzazione territoriale della Chiesa cattolica, è una diocesi o un'arcidiocesi retta da
un vescovo suffraganeo e legata a una sede metropolitana, guidata da un arcivescovo. dopo il Concilio Vaticano II, il rapporto tra diocesi suffraganee e metropolitane è
principalmente formale, testimone, di un legame storico che ha legato tra loro
le varie sedi vescovili.
[26] Costantini B., I
moti d’Abruzzo dal 1798 al 1860 e il clero, pp.170-199.
[27] Costantini B., I
moti d’Abruzzo dal 1798 al 1860 e il clero, pp.111-112.
[28] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno Moderno,
pag. 450.
[29] Costantini B., I
moti d’Abruzzo dal 1798 al 1860 e il clero, pag.78.
[30] Costantini B., Azione e reazione: notizie storico-politiche
degli Abruzzi…, pag. 21.
[31] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
Moderno, pag. 470.
[32]Archivio di Stato di Chieti, Affari ecclesiastici, busta n.
2, fasc. 30.
[33] Colapietra R., Società, istituzioni e politica dagli
angioini all’unità d’Italia, pag, 395.
[34] Costantini B., Azione e reazione: notizie storico-politiche degli Abruzzi…, pag. 63.
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