Pagine

8 maggio 2023

Amelio Pezzetta, Le riforme sociali, il clero e la chiesa in Abruzzo durante il decennio napoleonico (1806-1815).

Abruzzo, 1808

di Amelio Pezzetta

1.                  L’OCCUPAZIONE NAPOLEONICA DEL REGNO DI NAPOLI

Nei primi giorni di febbraio del 1806 iniziò l’invasione militare franco-napoleonica del Regno di Napoli con un esercito guidato dal maresciallo Andrea Massena. ll 15 febbraio, l’armata transalpina composta da oltre 43000 uomini e guidata da Giuseppe Bonaparte, il fratello di Napoleone entrò a Napoli che il 23 gennaio, il Re Ferdinando IV e la sua corte avevano abbandonato per rifugiarsi a Palermo.

Il 30 marzo dello stesso anno, Giuseppe Bonaparte, ne acquisì il trono e fu proclamato re delle Due Sicilie. A seguito dell’investitura ufficiale il nuovo re formò un governo misto costituito da quattro francesi (Pierre-Louis Roederer, André-François Miot de Mélito, Louis Stanislas de Girardin e Mathieu Dumas) e tre napoletani (Antonio Cristoforo Saliceti, Michelangelo Cianciulli e Marzio Mastrilli). Il 5 luglio 1808, dopo una breve parentesi durata solo due anni e sei mesi, Giuseppe Bonaparte abdicò nel Regno di Napoli per acquisire il trono di Spagna. Il 6 luglio 1808, suo fratello lo nominò re di Spagna con il nome di Giuseppe Napoleone I. In seguito all’abdicazione, l’amministrazione franco-napoleonica dell’Italia meridionale si protrasse con Gioacchino Murat che il primo agosto dello stesso anno fu incoronato re delle Due Sicilie dall’imperatore Napoleone Bonaparte. Il 12 agosto 1808 Murat fece il suo ingresso a Napoli e governò sino al mese di luglio del 1815, quando la breve esperienza del decennio francese nell’Italia Meridionale si concluse.

2.                  Le riforme napoleoniche.

Dopo la conquista del Regno di Napoli i napoleonici avviarono una politica di riforme radicali che miravano a creare uno Stato moderno, superando le gravi condizioni economico-finanziarie di arretratezza in cui il Regno stesso versava.

Le riforme attuate furono influenzate dai principi e le idee maturate dall’illuminismo napoletano settecentesco e la Rivoluzione francese, provocarono una profonda frattura con l’ancien regime e lasciarono tracce indelebili sul tessuto amministrativo, economico-finanziario e socio-politico del paese. A tal proposito Bianchini scrisse che il breve periodo franco-napoleonico rappresenta “ una delle più memorabili epoche della nostra storia, sembrando opera di un secolo mentre appena lo fu di anni dieci”.

I principali problemi che i napoleonici si assunsero di affrontare e risolvere con la riorganizzazione statale erano i seguenti: l’abolizione del feudalesimo; la laicizzazione dello Stato secondo i principi impostisi con la Rivoluzione francese; la circoscrizione dell'influenza della Chiesa nella società civile; la riduzione del grave debito pubblico e quindi la necessità di riportare il bilancio dello Stato in pareggio; la necessità di porre fine all'anarchia tributaria che consentiva a chi aveva più beni di pagare meno tasse; il possesso della maggiore quantità superficiale di terreni coltivabili da parte della Chiesa e dei baroni; la riorganizzazione amministrativa territoriale con la necessità di liberare le Università (i Comuni) del Regno dall’’oppressione feudale; la riduzione degli abusi da parte delle classi sociali più elevate nei confronti dei ceti meno abbienti che all’epoca anziché l'eccezione costituivano la regola; la necessità di provvedere alle esigenze di spesa militare.

2a. La Riforma amministrativa.

Preso atto della necessità di riorganizzare lo Stato, i napoleonici iniziarono a promulgare varie leggi e decreti che riformarono la divisione amministrativa del Regno di Napoli adeguandola al modello francese. Con l’importantissima legge n. 132 varata l’8 agosto 1806 e altre normative, sostanzialmente avvenne: 1) l’istituzione delle Intendenze Provinciali, particolari organi periferici del Ministero dell'Interno (anch’esso istituito dai napoleonici) corrispondenti alle attuali prefetture; 2) la riforma delle amministrazioni locali; 3) la ripartizione del territorio del Regno in quattro dipartimenti (Terra di Lavoro, Capitanata, Abruzzo e Calabria) suddivisi in tredici province molto simili alle precedenti circoscrizioni borboniche. Ogni provincia fu suddivisa in vari distretti, circondari e Comuni e, infine ogni Comune fu ripartito in centri più piccoli che all’epoca furono chiamate ville.

Al vertice di ogni Provincia fu posto l’Intendente, una carica pubblica corrispondente all’attuale prefetto a cui furono assegnati ampi poteri di controllo e vigilanza in materia amministrativa, finanziaria, d’ordine pubblico e polizia. Nell’esercizio delle sue funzioni esso era coadiuvato da un Consiglio d'Intendenza costituito da tre a cinque membri. L’articolo otto della legge n. 132 prescriveva che l’Intendente era tenuto a visitare ogni due anni tutti i centri abitati del territorio di propria competenza, rafforzando in questo modo il potere di controllo statale sulle amministrazioni locali.

diocesi abruzzesi

La legge n.132 inoltre prescrisse: 1) che nell’Italia Meridionale l’antica denominazione di Civium Universitas dei centri abitati del Regno fosse sostituita da quella di La Comune, inizialmente al femminile;  2) che esse fossero sottoposte all’autorità esclusiva delle istituzioni centrali e periferiche dello Stato; 3) la modifica delle loro strutture amministrative. Infatti, con l’entrata in vigore della legge: il camerlengo e gli ufficiali regimentari delle antiche amministrazioni a capo delle Civium Universitas furono sostituiti da sindaco assistito da due eletti; s’istituirono i decurionati, corrispondenti ai Consigli comunali attuali, i cui membri inizialmente erano scelti dalle assemblee locali generalmente costituite dai capifamiglia riuniti in pubblico parlamento. La legge successiva del 20 maggio 1808 prescrisse che l’Intendente Provinciale scegliesse i membri del decurionato dei Comuni più piccoli e il Ministero degli Interni, quelli dei Comuni più grandi. I decurioni dei piccoli Comuni potevano appartenere alla classe degli artigiani, commercianti e della borghesia. Nei Comuni più grandi potevano far parte dei decurionati solo i membri della borghesia fondiaria con rendita non inferiore a 24 ducati annui. In questo modo gli amministratori locali non erano l’espressione di tutta la comunità ma solo della borghesia, una classe sociale che nel periodo in esame era in forte ascesa economica e politica.

Le altre importanti riforme amministrative dell’epoca furono: 1) l’introduzione nel Regno di Napoli del Codice napoleonico, la cui adozione ufficiale avvenne con un decreto promulgato il 22 giugno 1808; 2) la leva obbligatoria, introdotta con un decreto del 29 mar. 1807; 3) lo statuto costituzionale del Regno composto da 11 articoli che delineavano le linee fondamentali d’ordinamento dello Stato e della Corona e stabilivano che il cattolicesimo era la religione di Stato; vari provvedimenti riguardanti l’amministrazione della giustizia.

2b. L’eversione della feudalità

Nel Regno di Napoli, il feudalesimo quale forma di governo era stato portato dai Normanni e per secoli rimase sostanzialmente immutato. Con l’ordinamento feudale, tranne i beni burgensatici e allodiali di libera proprietà, il resto che rappresentava la maggioranza era costituito da demani feudali, ecclesiastici e universali soggetti a usi civici, ossia ai diritti di pascolo, cavar pietre, legnatico, raccolta di frutti selvatici, etc., dietro la generale corresponsione di un canone. A loro volta i feudatari che potevano essere sia laici che ecclesiastici godevano di vari diritti, arbitri e privilegi sulla proprietà, le persone e le cose. Nel Regno questo stato di cose insieme alle leggi che ne assicuravano l’esistenza, fu inizialmente messo in discussione nel XVIII secolo e ufficialmente abolito durante il decennio napoleonico. Infatti, l’applicazione della legge del 2 agosto 1806 e del Decreto del 3 dicembre 1808 portò all’abolizione del feudalesimo con tutte le sue servitù, prerogative e soprusi e alla trasformazione dello Stato da feudale ad amministrativo, un fatto che tra l’altro permise ai Comuni di aggiungere ai diritti che possedevano anche le giurisdizioni sottratte ai baroni e di affrancarsi totalmente dagli abusi e soprusi arbitrari perpetrati dai baroni stessi. In particolare la legge del 2 agosto 1806 prescrisse quanto segue: l’abolizione di tutti i feudi, delle prestazioni personali, i pedaggi e tributi sull’uso dei boschi, i frantoi, le acque dei fiumi e i mulini; la ripartizione proporzionale dei demani feudali tra gli ex feudatari e i Comuni. La quota spettante a questi ultimi, con l'aggiunta dei demani comunali doveva essere ripartita tra le famiglie del Comune stesso, iniziando dalle più indigenti.

Al fine di dirimere i numerosi contenziosi giudiziari che nacquero tra i Comuni e gli ex feudatari a seguito dell’applicazione delle leggi eversive sulla feudalità, Giuseppe Bonaparte con un regio decreto del 11 novembre 1807 istituì un tribunale speciale chiamato Commissione Feudale. I suoi membri furono scelti tra le personalità dell’epoca con notevole competenza in materia feudale. L’aquilano Giacinto Dragonetti fu nominato Presidente della Commissione; Domenico Coco, Giuseppe Franchini, Giuseppe Raffaelli, Nicola Vivenzio, membri attivi e Davide Winspeare che inizialmente ricoprì la carica di procuratore. La Commissione feudale fu subissata dai notevoli ricorsi degli ex feudatari e dei rappresentanti delle Università tant’è vero che in pochi mesi emise oltre 3000 sentenze.

2c. La riforma dell’istruzione primaria.

Un’altra importante riforma promossa durante il decennio napoleonico fu quella dell’istruzione scolastica che fu resa obbligatoria e pubblica, sottraendo alla Chiesa un suo esclusivo privilegio secolare. Un primo passo in tal senso lo compì Giuseppe Bonaparte nel mese di marzo del 1806 quando istituendo il Ministero dell’Interno, vi aprì una sezione dedicata alla Pubblica Istruzione. In seguito il 15 agosto 1806 emanò un decreto che fissava l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione scolastica per tutti i ragazzi del Regno senza distinzione di sesso e classe sociale. Al fine di favorire la diffusione del sistema scolastico e l’istruzione obbligatoria, il decreto ordinava che le autorità amministrative di ogni centro abitato del Regno erano tenute a stipendiare un maestro che insegnasse “la numerica”, a leggere, scrivere e la dottrina cristiana ai ragazzi e una maestra che alle bambine insegnasse anche le arti donnesche”, ossia cucire, ricamare e tessere.

Il decreto ha un’enorme importanza storica poiché pone per la prima volta nel Regno di Napoli, l’attenzione generale all’istruzione primaria femminile e all’alfabetizzazione di massa che passò alle istituzioni locali. Tuttavia la sua applicazione non fu semplice per vari motivi. In vari Comuni del Regno le scuole furono aperte con un certo ritardo a causa delle difficoltà che sorsero per reperire il corpo docente. In questo senso le maggiori difficoltà si ebbero nella ricerca e assunzione delle maestre e di conseguenza le scuole femminili non furono aperte nei Comuni che non riuscirono a trovarle. In alcune scuole maschili si registrarono dei ritardi nelle aperture e quando non si riusciva a trovare il personale laico, l’insegnamento fu affidato agli ecclesiastici. Il secondo problema fu costituito dalla mancanza di edifici scolastici, per cui spesso l’attività didattica si svolgeva nell’abitazione del docente prescelto. A questi problemi si aggiunse il numero degli alunni frequentanti le lezioni che era sempre molto ristretto poiché contravvenendo alle norme, le famiglie non mandavano i figli a scuola. Infatti: quelle benestanti generalmente preferivano affidare l’istruzione dei loro figli a precettori privati, mentre i contadini utilizzavano i figli maschi nei lavori agricoli e le femmine per le faccende domestiche.

Nel 1811 un nuovo decreto precisò i vari gradi dell’istruzione pubblica che fu suddivisa in primaria, secondaria, superiore e universitaria. Alle scuole primarie fu imposto lo studio del Galateo e due anni dopo “Gli Ammaestramenti degli antichi”, a dimostrazione dell’interesse del potere centrale statale nella diffusione anche delle regole del buon costume[1].

2.d. Le riforme e la politica ecclesiastica.

Per capire la politica ecclesiastica e la vita religiosa del Decennio napoleonico bisogna tener conto di vari fattori, tra cui, il più importante è la considerazione che Napoleone Bonaparte aveva della religione. A tal proposito Napoleone sosteneva che la religione era una forza che non poteva essere vinta dallo Stato, ma che poteva essere indirizzata ai fini dello Stato per accrescere il consenso e la stabilità politica. Di conseguenza, in linea con questa concezione ideologica, le leggi e i decreti d’interesse ecclesiastico che furono promulgati erano finalizzati ad assicurare il graduale asservimento delle strutture ecclesiastiche agli interessi statali.

Nel suo complesso le leggi e i decreti di carattere ecclesiastico promulgati durante il decennio furono abbastanza copiosi e toccarono vari argomenti e temi tra cui: l'organizzazione della pubblica beneficienza, la soppressione dei monasteri e degli ordini religiosi, la normativa sui parroci e gli aspiranti alle ordinazioni sacerdotali, la riduzione delle diocesi e parrocchie, la regolamentazione delle confraternite religiose, degli ospedali, cappelle laicali, altri luoghi pii e l'abolizione del Tribunale Misto[2].

Quando Giuseppe Bonaparte acquisìil trono di Napoli, il pontefice Pio VII, tenendo conto di antiche consuetudini che risalivano all’epoca normanna, rivendicò il suo diritto di sovranità che implicava l'investitura papale del nuovo sovrano, ma Napoleone ricusò la pretesa pontificia ponendo al papa il seguente ultimatum: se non riconosceva l'occupazione del Regno di Napoli, lui non sarebbe stato riconosciuto principe temporale. Dopo questa presa di posizione, il papa rinunciò alle sue prerogative.

Agli inizi di marzo del 1806, il Ministro del Culto inviò una lettera a tutti i vescovi facendo presente che il nuovo re Giuseppe Bonaparte avrebbe vigilato e contribuito a tutelare “La nostra sacrosanta Religione[3]. In linea con questa volontà sovrana, nel I titolo dello Statuto del Regno promulgato nel 1808 si stabilì che la religione cattolica apostolica romana fosse quella ufficiale dello Stato. Di conseguenza i nuovi poteri riconoscevano la supremazia del cattolicesimo sulle altre confessioni religiose e ne assicuravano la tutela. Questa scelta non si discosta dal principio che assicurava la supremazia dello Stato su tutte le altre istituzioni territoriali presenti nel suo territorio che di conseguenza dovevano contribuire a perseguire le sue finalità.

Il passo successivo si ebbe con il dispaccio del 17 maggio 1806 con cui Giuseppe Bonaparte iniziò la politica d'asservimento della Chiesa allo Stato, imponendo a tutto il clero del Regno di giurargli fedeltà con la seguente formula: "Giuro fedeltà e obbedienza a Giuseppe Napoleone, re delle Sicilie, nostro augusto sovrano". Oltre a questo, il re nominò i chierici Capecelatro e Rosini al Consiglio di Stato, inserì il seggio del clero nel Parlamento Nazionale, tentò di circoscrivere l’influenza clericale solo alla sfera spirituale, espulse dal Regno i cardinali che riteneva più avversi al suo potere e infine promulgò leggi e decreti di carattere ecclesiastico con varie finalità.

 I napoleonidi inquadrarono il clero nell’apparato statale e lo sottoposero al controllo delle autorità civili, facendone dei funzionari stipendiati con specifici compiti in materia spirituale, di fede, d’insegnamento e di anagrafe civile. In quest’ottica i vescovi dovevano essere dei perfetti funzionari dello Stato con compiti di controllo sull'insegnamento della dottrina cristiana, la fedeltà dei sudditi, le rendite diocesane, la congrua, ecc. A loro volta i perfetti parroci, come ha evidenziato De Rosa, erano coloro che nel rispetto delle autorità civili impartivano ai fedeli un insegnamento della dottrina cristiana che sacralizzava l'obbedienza al sovrano[4].

Con la legge di eversione delle feudalità del 1806, l'amministrazione napoleonica inflisse un colpo durissimo al patrimonio della Chiesa poiché abolì oltre ai feudi laici anche quelli ecclesiastici. Un altro duro colpo al patrimonio ecclesiastico fu portato dall’applicazione delle leggi del 13 febbraio 1807 n. 36 del 7 maggio 1809 n. 448 e dei decreti del 2-1-1808 e del 7 agosto 1809 (n. 448) che portarono alla soppressione di tutti i monasteri e ordini religiosi nel Regno. A causa di ciò, la Chiesa, intesa come forza economica legata al sistema feudale scomparve, mentre i beni degli enti religiosi soppressi furono incamerati dallo Stato e venduti. Un decreto del 1807 ordinò anche la nazionalizzazione dei beni letterari del clero, a dimostrazione che le autorità napoleoniche perseguivano anche finalità di centralismo politico-culturale.

Un decreto legge del I luglio 1806 ordinò che le confraternite, le cappelle laicali e altri luoghi pii fossero considerati patrimonio dello Stato e soggetti alla sua sorveglianza e tutela. Essi vennero a dipendere dal Ministero dell'Interno che esercitava il controllo, prima tramite gli Intendenti provinciali e dal 1809 con il Consiglio Generale degli Ospizi. Quest’organismo fu istituito con un decreto del 16 ottobre 1809 al fine di "soprintendere alle amministrazioni degli stabilimenti di pietà e de' luoghi pii laicali" e assorbì diverse competenze che in precedenza erano assegnate al Tribunale Misto. A livello comunale, l'amministrazione delle rendite, esazioni, introiti e spese delle cappelle laicali, altri luoghi e pii stabilimenti locali fu affidata alle Commissioni di Beneficienza fondate in ognuno di essi al fine di occuparsi dei cittadini più indigenti e contribuire a sollevare le loro sorti materiali.

Con altre leggi l'amministrazione napoleonica tentò di ridurre il numero dei poveri e dei mendicanti del Regno reprimendo il vagabondaggio e disponendo l'impiego forzato dei non inabili in lavori di utilità pubblica e nell'esercito.

In questo periodo storico, la provvista delle parrocchie, la selezione, il mantenimento e la sussistenza dei parroci divennero anch’essi materia di competenza statale. In particolare le parrocchie si videro spogliare di varie tradizionali prerogative e persero la loro funzione di principale centro di riferimento amministrativo per la vita locale. Infatti, furono private dalle funzioni di anagrafe civile che furono acquisite dai Comuni e dai suoi enti collaterali quali confraternite, Monti Frumentari e di Pietà che, come visto passarono ai Consigli degli Ospizi.

I Comuni oltre a sostituirle in alcune funzioni potevano controllarle poiché le sue autorità e rappresentanze proponevano e retribuivano il predicatore quaresimale, provvedevano alla manutenzione delle chiese, corrispondevano la congrua ai parroci, imponevano loro di leggere durante la messa le proprie delibere e regolamenti adottati, ecc.

Durante il Decennio Napoleonico lo Stato assegnò ai parroci diverse funzioni non connesse con la "cura animarum". Infatti, essi erano tenuti a predicare contro l'analfabetismo, aiutare lo Stato nella lotta al brigantaggio violando a tal proposito anche il segreto confessionale, impartire l'istruzione scolastica, tenere in ordine i registri parrocchiali, non allontanarsi dalla propria sede per accettare altri incarichi nell'amministrazione statale, spiegare e leggere al popolo durante le messe le norme del codice napoleonico, le disposizioni governative e comunali, le varie missive riguardanti norme di vita pubblica.

I parroci furono nominati anche membri attivi delle Commissioni Comunali di Beneficienza con il compito di visitare gli infermi, malati e mendici, soccorrerli, procurare loro lavoro, impegnarsi a migliorare le loro condizioni morali, ecc.

Una circolare diffusa agli inizi del 1809 obbligava i sacerdoti a sollecitare i bambini affinché frequentassero le scuole comunali, mentre un decreto del 1810 stabiliva che nei comuni con meno di 3000 abitanti, i parroci dovevano impartire l’istruzione scolastica[5]. Inoltre i parroci e gli ordinari diocesani dovevano cooperare con il governo nelle riforme sanitarie che di volta in volta approntava, tra cui convincere le famiglie del Regno a far vaccinare i loro figli dal vaiolo. Tenendo conto degli importantissimi servigi che i parroci dovevano garantire, lo Stato si preoccupò di assicurare loro un'esistenza decorosa e dignitosa per non svilire la figura e il prestigio derivante dalle funzioni a cui furono delegati. A tal proposito una legge del 13 febbraio 1807 ordinò che ognuno di essi avesse una rendita non inferiore a 120 ducati annui. Un successivo decreto del 1813 stabiliva che dovevano svolgere funzioni pubbliche (stato civile, istruzione elementare, igiene e profilassi) e che la congrua da corrispondere doveva essere di 528 lire napoletane annue per le parrocchie con popolazione sino a 1000 anime, di 660 lire per quelle con popolazione compresa tra 1000 e 2000 anime e di una cifra superiore per le parrocchie con più filiali.

Ad avviso dei napoleonici, i parroci più utili agli interessi statali si ottenevano oltre migliorando le condizioni economiche, anche contribuendo a una loro maggiore moralizzazione e preparazione culturale. Di conseguenza il Ministro del Culto emanò varie norme sulle ordinazioni, si prefisse di ridurre il numero dei sacerdoti nel Regno al minimo indispensabile, di consentire l'accesso agli ordini sacri solo a coloro che erano dotati di ottime qualità morali e che risultavano seriamente interessati alla vita religiosa ed infine stabilì il curriculum di studi che ogni aspirante sacerdote doveva seguire. A tal proposito la legge del 30 novembre 1806 n. 262 restrinse il numero degli ordinandi a uno su ogni 200 abitanti, mentre la legge del 19 novembre 1810 fissò il divieto alle ordinazioni per i figli unici. Un successivo decreto del 12 novembre 1810 delegò ai giudici di pace il compito di accertare i requisiti dei promuovendi agli ordini sacri. Infine, l’articolo 65 della legge del primo gennaio 1812, prescrisse che i parroci dei Comuni con più di 10000 abitanti dovevano essere laureati in teologia, mentre i rettori delle parrocchie site nei Comuni con popolazione inferiore dovevano essere provvisti del grado di licenza. Attraverso il Ministro del Culto, lo Stato intervenne anche nella provvista delle parrocchie indicendo il concorso della "cura" tramite i vescovi e, mediante gli Intendenti provinciali assumendo informazioni sui candidati per accertare le loro qualità morali e politiche. La nomina a parroco avveniva dopo l'autorizzazione del Ministero del Culto, la sua trasmissione al vescovo e il giuramento di fedeltà allo Stato da parte del candidato prescelto.

Durante il decennio napoleonico molte sedi vescovili rimasero vacanti: nel 1806 erano 54, nel 1810 salirono a 73 e nel 1815 erano 100.

Il 18 settembre 1813 il Ministero del Culto emanò disposizioni riguardanti i predicatori quaresimali che erano retribuiti dai Comuni, nonostante non fossero propri impiegati[6]. Le nuove normative prescrissero che entro il mese di novembre, i decurionati erano tenuti a inviare all’Intendente Provinciale, una terna contenente i nomi dei sacerdoti proposti come quaresimalisti. In seguito l’Intendente sceglieva il candidato e lo sottoponeva all'approvazione del vescovo. Se il Comune non presentava la terna entro i termini prescritti, la scelta del predicatore competeva all’ordinario diocesano.

Con l'introduzione nel Regno di Napoli del codice napoleonico avvenuta il I gennaio 1809, furono adottate importantissime innovazioni riguardanti il matrimonio. Infatti, la nuova normativa sulle unioni matrimoniali attribuiva maggior importanza al potere amministrativo laico statale poiché prevedeva la separazione tra il rito civile e religioso e ordinava che il primo fosse celebrato davanti a un pubblico ufficiale dello Stato dopo due pubblicazioni affisse all'albo comunale. Su scelta dei diretti interessati, il rito civile poteva essere seguito da quello religioso senza alcuna interferenza delle autorità ecclesiastiche. Il codice napoleonico imponeva anche il consenso dei genitori al matrimonio stesso se lo sposo avesse meno di 25 anni e la sposa meno di 21.

Con un decreto del 22 dicembre 1808, seppur con una certa reticenza, Gioacchino Murat introdusse il divorzio nel Regno di Napoli e ordinò che la sua concessione poteva avvenire in seguito a sevizie, adulterio, ingiurie, condanne a pene infamanti, ecc. Tuttavia a causa delle tradizioni culturali e religiose della popolazione regnicola, pochi se ne avvalsero e durante la Restaurazione fu abolito.

Nel periodo napoleonico iniziò a imporsi la consuetudine di seppellire i defunti in cimiteri extraurbani per motivi di carattere igienico-sanitario. A tal proposito Gioacchino Murat con il decreto n. 278 dell’undici Febbraio 1809 impose la costruzione a Pozzuoli di un cimitero pubblico circondato da mura e non situato all’interno di un edificio religioso. Nel 1813 con un altro decreto impose la costruzione di un secondo cimitero extraurbano. Queste due norme traevano ispirazione dal famoso editto di Saint-Cloud del 12 giugno 1804 in cui l’imperatore Napoleone Bonaparte ordinava che le tombe fossero tutte uguali ed esposte fuori le mura cittadine, in luoghi soleggiati e arieggiati. La sepoltura all’interno delle chiese o in altri particolari ambiti urbani era concessa solo in via eccezionale. Tale editto e le norme a esso ispirate che lo seguirono tolsero alla Chiesa anche la gestione dei cimiteri, portarono a una maggiore laicizzazione della morte e all’abbandono della pratica delle sepolture nei luoghi ritenuti sacri poiché più vicini ai santi che intercedevano per la salvezza dell’anima. Ad avviso di Marsetič l’editto “fu il fondamento su cui si sviluppò successivamente tutta la normativa cimiteriale del XIX secolo. La normativa disciplinò la costruzione dei nuovi cimiteri extraurbani e le regole da rispettare, fissando norme e comportamenti che spesso si sono mantenuti fino ad oggi. Il progresso scientifico, filosofico, matematico e il mito della ragione, portano ad una rilettura in termini laici degli eventi terreni ed inducono al rifiuto, alla riconsiderazione critica di ordine culturale e religiosa, dell’antica concezione della morte, dei riti e dei culti funebri[7].

Il 5 settembre 1806 l’editto fu esteso a tutti gli Stati italiani conquistati dai francesi, ma per vari motivi, nel periodo in esame nei Comuni del Regno di Napoli, la costruzione di nuovi cimiteri non avvenne o fu rallentata e la sepoltura dei cadaveri continuò a farsi dentro le chiese. Nel 1817, una legge borbonica confermò l’editto di Saint Cloud e obbligò le amministrazioni comunali del Regno a costruire i cimiteri fuori le mura urbane. Diversi cimiteri di località dell’Italia Meridionale costruiti durante la Restaurazione sono definiti napoleonici poiché s’ispirarono a tal editto.

La politica ecclesiastica dei napoleonidi regnicoli interessò anche altre questioni di carattere religioso, tra cui le feste, la celebrazione del Te Deum durante particolari ricorrenze, la vigilanza sull'insegnamento della dottrina cattolica e i provvedimenti disciplinari a carico dei sacerdoti.

Quali giudizi trarre dall’insieme di queste norme di carattere ecclesiastico e quali riflessi ebbero sulla religiosità popolare, ovvero ne provocarono trasformazioni?

Su tali aspetti ci sono pareri discordi. Le autorità civili della Restaurazione descrissero il decennio napoleonico come un periodo storico confuso, caratterizzato da una grande anarchia religiosa a cui si accompagnò la perdita di diversi valori cristiani. In realtà non fu proprio così. Per certi aspetti avvenne una rottura rispetto al passato poiché le autorità civili napoleoniche imposero la separazione tra Stato e Chiesa e la libertà di culto che facendo riferimento a una visione di Dio e una concezione della Chiesa di derivazione illuministica e rivoluzionaria favorirono una maggiore laicizzazione della vita pubblica. Tuttavia è da sottolineare che queste nuove concezioni si diffusero solo in ambiti intellettuali ristretti molto circostanziati e non raggiunsero le masse popolari che sostanzialmente continuarono a vivere seguendo le proprie tradizioni millenarie. Tra l’altro era pressoché impossibile che il riformismo di un decennio potesse intaccare il sentimento religioso e il modo di percepire e vivere la fede, con profondissime radici secolari. Di conseguenza, per vari aspetti ci fu una continuità con il passato. A garantirla concorse anche la maggioranza dei sacerdoti che operò nel periodo in esame. Essa si era formata prima dell’avvento dei napoleonici e quindi la loro azione pastorale, mentalità e cultura non erano modificabili solo con nuove leggi.

Durante il decennio la realtà esistenziale delle popolazioni meridionali non subì nessuna sostanziale modifica e di conseguenza neanche la visione del mondo che la accompagnava di cui il sentimento religioso è un aspetto. La divinità continuò a essere presentata come un ente superiore da temere e supplicare in perfetta armonia con quanto avvenuto nei secoli precedenti. Altrettanta continuità, si ebbe con le forme di controllo e di condizionamento socio-religioso con le quali si tentarono di sviluppare forme di culto a cui era connessa la legittimazione divina delle autorità civili, delle loro iniziative e riuscite campagne militari.


3.                  L’opposizione civile e religiosa ai francesi.

L’occupazione francese del 1806 non fu seguita dalla profonda reazione popolare che caratterizzò la precedente invasione del 1799. Tuttavia durante il periodo in esame non mancarono di manifestarsi il malcontento popolare e sacche di opposizione accompagnate anche dalla resistenza armata. Come ha evidenziato Petrucci, nel Regno di Napoli dell’epoca napoleonica si diffuse un malcontento popolare che non ricorreva alle armi e si manifestava con forme di boicottaggio, opposizione silenziosa e resistenza passiva alle direttive e norme emanate[8].

In diversi casi, come ha rilevato Brancaccio, l’opposizione fu alimentata dal clero che aizzò vari focolai d’insurrezione nelle province del Regno [9]. In alcuni di essi verificatisi con maggior frequenza nei borghi rurali, i sacerdoti ufficianti le funzioni religiose si rifiutarono di omaggiare con il Te Deum Napoleone, il re e a tutti coloro che li appoggiavano e sostenevano. Ad avviso di Gallo “la scelta sostanzialmente filo-borbonica delle masse [e] di fette consistenti del clero, stava forse a significare una sostanziale accettazione di una dinastia che si riconosceva come nazionale, una sorta di patriottismo da piccola nazione che si univa al senso di fedeltà dinastica[10].

L’opposizione ai napoleonici la manifestò anche Il cardinale Fabrizio Ruffo, l’ex capo dell’esercito sanfedista che ritenne illegittimo il governo di Giuseppe Bonaparte poiché non aveva ricevuto l’investitura pontificia e scelse la via dell’esilio [11].

Un’altra opposizione per motivi religiosi si ebbe contro il matrimonio civile e l’istituto del divorzio due aspetti molto contrastanti con le generalizzate tradizioni religiose della popolazione dell’epoca.

A sua volta la resistenza armata antifrancese che in diversi casi fu alimentata dai Borboni rifugiatisi a Palermo e dagli inglesi, si manifestò in diverse regioni e province dell’Italia Meridionale, sopratutto Basilicata, Calabria, Principato Citra e Terra di Lavoro[12]. In particolare nel 1806 in Calabria ad accendere la rivolta concorse il sacerdote Antonio Presta che con una lettera si richiamò ai fatti della Repubblica Partenopea, diffuse uno spirito di crociata e scrisse che quella fu “epoca che tutti i nostri popolari Calabresi col segno della Croce fregiati, lo inimico ancora francese discacciassimo[13]. A capo degli insorti anti-francesi si posero militari professionisti e personaggi considerati banditi comuni tra cui il brigante Michele Pezza, detto Fra Diavolo e il colonnello Alessandro Mandarini. Il 28 maggio 1807 nei pressi di Mileto (Provincia di Vibo Valentia) si ebbe un duro scontro frontale tra i francesi e le forze filo-borboniche che dalla battaglia uscirono sconfitte.

4.                  L’ABRUZZO E LA CHIESA DURANTE IL DECENNIO NAPOLEONICO.

 4.a. La conquista francese dell’Abruzzo, l’opposizione antifrancese e il clero.

L’invasione militare francese dell’Abruzzo ebbe inizio attorno al 10 febbraio 1806. La prima città a essere conquistata fu L’Aquila che cadde in mano all’esercito transalpino il giorno 11 febbraio 1806. Il 15 febbraio fu la volta di Chieti e in seguito l’occupazione si estese a tutta la Regione.

L’avanzata francese in Abruzzo assomigliò a una passeggiata militare poiché fu ostacolata solo da alcune sacche sporadiche di resistenza di bande sanfediste al comando di De Donatiis, Piccioli, Rodio e Sciabolone. Una resistenza più tenace, invece fu opposta dai civili e uomini in arme che presidiavano la fortezza di Civitella del Tronto e si arresero il 21 maggio, ovvero circa quattro mesi dopo la conquista dei più importanti centri della Regione.

Alle sporadiche sacche di resistenza descritte, si aggiungono: 1) l’opposizione popolare che in alcuni sfociò in varie sommosse locali; 2) quella di bande armate costituite da personaggi definiti “briganti” ai quali fu assegnato quest’appellativo al fine di criminalizzarli e considerarli dei terroristi che congiuravano contro lo Stato. Essi furono strumentalizzati dalla monarchia borbonica in esilio e imperversarono nella Regione provocando vittime tra l’esercito francese, le autorità civili e la gente comune. In realtà le bande di briganti antifrancesi, oltre a qualche delinquente comune, comprendevano in gran parte agricoltori a cui si aggiunsero pastori, artigiani, esponenti della borghesia agraria, studenti, rappresentanti della nobiltà, del clero ed altre categorie sociali. Questa composizione molto variegata rappresenta la conferma che all’epoca il termine di brigante si era generalizzato per indicare tutti coloro che si opponevano alle forze di occupazione e non veri e propri delinquenti comuni. Ad avviso di Petrucci “Questa composizione eterogenea non riconducibile ai soli ceti poveri, degli insorgenti e dei briganti porta a ridimensionare la necessità delle loro azioni criminose che sarebbero avvenute dietro la spinta delle pessime condizioni di vita e allo scopo di procurarsi il necessario per sopravvivere, attraverso il crimine[14].  Ad alcune bande di briganti abruzzesi che scatenarono sommosse popolari filo-borboniche parteciparono anche alcuni rappresentanti del clero. Infatti, a una banda che operò nel teramano appartenne il sacerdote Don Candido Clemente, mentre, come vedremo dopo, a una sommossa scoppiata a Città Sant’Angelo prese parte attiva il sacerdote Don Domenico Marulli. Un altro sacerdote che fu coinvolto in una piccola sommossa antifrancese scoppiata a Pacentro il 20 maggio 1806 fu Don Pasquale Ferri d’Introdacqua che invitò a prendere le armi ed a consegnarle ai rivoltosi[15].

Anche in Abruzzo, l’opposizione antifrancese in diversi casi fu orchestrata e guidata dal re in esilio e dai suoi fedeli seguaci locali. Uno di essi fu Luigi De Riseis, un membro della nobiltà originario di Scerni che fu definito un sollevatore di popoli a causa della sua fedeltà alla monarchia borbonica, operò in suo favore e nel 1808 inviò al re Ferdinando in esilio un memoriale in cui tracciava le linee di un piano d’azione per la riconquista del Regno che coinvolgeva le masse popolari, Infatti scrisse che “I francesi di nessun’altra cosa temono tanto quanto delle ben regolate insurgenze de’ popoli”[16]. Anche altri membri della sua famiglia furono sostenitori della monarchia borbonica e pagarono questa scelta con l’arresto, la prigionia e anche la morte. Infatti, Pietro De Riseis fu condannato a morte poiché considerato autore di sommosse anti-murattiane avvenute nella Provincia di Abruzzo Citra, mentre il nipote Panfilo fu arrestato e condannato a un anno di carcere poiché sospettato di appartenere alla Carboneria.

Dall’inizio del decennio al 1811, in tutto il chietino furono organizzate una ventina di azioni sovversive antifrancesi da gruppi definiti briganti che generalmente trovavano rifugio nei boschi e negli anfratti dei massicci montuosi. Alcuni di essi imperversarono nella valle dell’Aventino mettendo a dura prova i governativi e provocando disagi alla popolazione civile. Altri gruppi sovversivi furono organizzati anche nelle altre provincie abruzzesi.

Il 19 marzo 1814, durante una riunione di un gruppo di cospiratori antifrancesi, furono decise le modalità d’azione di un’insurrezione che doveva avvenire a Pescara e in seguito fallì. Altri focolai di rivolta scoppiarono circa una settimana dopo in altre località delle due provincie d’Abruzzo Citeriore e Ulteriore I. In particolare il 27 marzo 1814 a Città Sant’Angelo fu organizzata un’importante rivolta antinapoleonica da una setta carbonara a cui aderiva il sacerdote Don Domenico Marulli. All’epoca, all’alba, mentre suonavano le campane, i rivoluzionari anti-murattiani scesero armati per le strade del paese, disarmarono i soldati che lo presidiavano e issarono una loro bandiera sulla torre dell’orologio. Dopo questi iniziali successi l’attività sovversiva fu rinforzata dagli abitanti del paese che si armarono con falci, bastoni e altro dando man forte agli insorti. La sensazione di libertà ebbe breve durata poiché si prolungò per circa due settimane. Infatti, il 10 aprile, giorno di Pasqua, l’esercito murattiano composto da circa 5000 uomini marciò verso Città Sant’Angelo, riuscì a domare la rivolta popolare e fece arrestare e fucilare tutti i suoi organizzatori. Anche Don Domenico Marulli subì la stessa sorte dei suoi compagni d’avventura e fu fucilato. La rivolta in oggetto è considerata una delle prime sommosse carbonare avvenute in Italia.

4.b. L’eversione della feudalità e i feudi ecclesiastici in Abruzzo.

Le riforme antifeudali promosse dal regime napoleonico interessarono anche l’Abruzzo, una Regione che all’epoca era periferica e di frontiera del Regno. Infatti, la legge del due agosto 1806 e l’applicazione del Real Decreto del tre dicembre 1808 portarono anche in Abruzzo all’abolizione formale e definitiva del feudalesimo. Tuttavia la liberazione effettiva da tutti i soprusi e angherie baronali e l’acquisizione comunale di parte dei beni feudali, in moltissimi casi avvenne solo dopo lunghe cause e ricorsi che gli amministratori delle Civium Universitas regionali, ossia dei Comuni dell’epoca, sostennero presso la Commissione Feudale. In diversi casi le controversie giudiziarie si protrassero durante la Restaurazione Borbonica e l’Unità d’Italia. Per quanto riguarda le angherie e i soprusi dei baroni, la cronaca ha registrato dei casi individuali che in vari Comuni della Regione si sono manifestati anche nei primi decenni del XX secolo e durante il ventennio fascista.

Alla ripartizione dei beni feudali provvidero i commissari di nomina regia. Uno di essi fu Giuseppe De Thomasis di Montenerodomo che il 22 ott. 1809 fu nominato commissario del Re per la Divisione dei Demani delle tre province abruzzesi. La sua attività portò a ripartire i beni feudali tra i Comuni e gli ex baroni in quote proporzionali che tenevano conto dei diritti reciproci che ognuno di essi dimostrò di vantare.

All’epoca la maggior parte delle Università o Comuni abruzzesi erano infeudate, mentre un loro numero esiguo era demaniale e dipendeva direttamente dalla corona. Anche in Abruzzo esistevano feudatari laici ed ecclesiastici con i secondi che avevano in dotazione vasti territori acquisiti con lasciti testamentari, donazioni per finalità religiose e altre modalità. In particolare, ad avviso di Novi Chavarria nelle tre provincie dell’Abruzzo Citra e Ultra alla fine del XVIII secolo c’erano 58 feudi ecclesiastici che erano tenuti da: i vescovi di Chieti, Ortona, Teramo e Sulmona-Valva; le abbazie e monasteri di Montecassino, Montesanto, San Clemente a Casauria, San Giovanni di Collimento, San Giovanni di Scorzone, San Quirico di Roma, San Francesco di Tocco, Santa Maria di Casanova, Santo Spirito del Morrone, Santa Chiara di Sulmona, i Padri Celestini de L’Aquila, San Bartolomeo e Santa Maria in Trigulti; l’Oratorio di San Filippo Neri di Roma; la Chiesa di Santo Spirito di Avezzano; il Capitolo di San Pietro di Roma[17]. La popolazione che viveva nei feudi ecclesiastici all’epoca considerata ammontava a 43671 individui, mentre 26 di essi risultavano disabitati[18].

4.c. La riforma amministrativa del’Abruzzo.

La legge del 8 agosto 1806 ed una serie di decreti emanati successivamente portarono alla ripartizione amministrativa della Regione nelle seguenti tre province: l’Abruzzo Ulteriore Primo con 72 Comuni, 17 circondari e, i distretti di Teramo e Penne; l’Abruzzo Ulteriore Secondo comprendente 121 Comuni di cui 17 attualmente passati alla Provincia di Rieti e due a quella di Pescara, 32 circondari e, i distretti dell’Aquila, Cittaducale, Sulmona e Avezzano; l’Abruzzo Citeriore con 123 Comuni, 25 circondari e, i distretti di Chieti, Lanciano e Vasto. Nel complesso le tre province abruzzesi dell’epoca in considerazione erano costituite da 316 Comuni, 74 circondari e nove distretti.

La riforma in diversi casi portò all’aggregazione di antiche Civium Universitas pre-napoleoniche in un unico moderno Comune. Gli esempi in tal senso sono molteplici. A solo scopo dimostrativo si cita l’Università di Forme sita in Provincia dell’Aquila che con tale denominazione è esistita dal 1595 al 1807, mentre nel 1811 fu annessa al Comune di Massa d’Albe a cui tuttora appartiene[19].

Altri esempi di aggregazioni amministrative si ebbero nella Provincia di Abruzzo Citra. Poiché in tale ambito, agli inizi del 1806 esistevano 130 Civium Universitas e nel 1816 i Comuni erano 123, si dimostra che ci furono sette aggregazioni.

Oltre alle aggregazioni, all’epoca si registrò anche una separazione. Infatti, nel 1807 la località di Villa Castellammare che è situata sulla sponda nord del fiume Pescara divenne un Comune autonomo facente parte della Provincia di Abruzzo Ulteriore I. La fortezza pescarese e i suoi dintorni, inizialmente furono aggregati a Francavilla e nel 1811 costituirono il Comune autonomo di Pescara[20].

La creazione dei Comuni, Distretti, Provincie, etc. anche in Abruzzo portò a un ordinamento amministrativo uniforme che pose fine al particolarismo caratterizzante la Regione e l’intero Regno di Napoli durante l’ancien regime.

Un’altra particolarità amministrativa regionale fu nel 1806 la nomina a Intendente Provinciale della Provincia d’Abruzzo Citra a un funzionario di nazionalità francese: Pierre Joseph Briot. Pierre Briot fu una delle tre personalità transalpine che nel 1806 a cui fu assegnata la carica d’Intendente di una Provincia del Regno.

4.d. Il clero, le diocesi, la soppressione dei monasteri e degli ordini religiosi in Abruzzo.

Il rapporto tra il mondo ecclesiastico e i napoleonici nel territorio abruzzese è complesso e ha per oggetto numerosi aspetti. Di conseguenza per una sua analisi più esauriente possibile, nel presente saggio si terrà conto dei seguenti importanti fattori: 1) l’atteggiamento più o meno generalizzato del clero regionale verso i rappresentanti centrali e periferici del governo; 2) il valore culturale e morale che le autorità amministrative laiche locali attribuirono alla religione cattolica durante il decennio; 3) gli effetti della politica ecclesiastica governativa condotta nelle province abruzzesi.

Riguardo il primo punto, come si è visto alcuni rappresentanti del mondo ecclesiastico si opposero ai napoleonici fomentando le ribellioni e le azioni sovversive, mentre un’altra parte più consistente li appoggiò. In linea di massima si può dire che la chiesa abruzzese, senza rinunciare alle proprie prerogative morali e spirituali seguì una politica di adattamento, cercando di volta in volta di conciliare le scelte governative con i principi della fede cristiana.

Le autorità religiose durante l’insediamento al trono di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat manifestarono ubbidienza, celebrarono nei più importanti centri d’Abruzzo messe solenni di ringraziamento e intonarono il Te Deum. Altre messe solenni di ringraziamento furono celebrate in occasione di riusciti successi militari durante le campagne napoleoniche. Uno di essi è costituito dall’ingresso a Mosca dell’esercito di Napoleone Bonaparte nel 1812. Dopo che si diffuse tale notizia, il Ministro della Giustizia ordinò a tutti gli ordinari diocesani abruzzesi d’intonare il Te Deum e far celebrare una messa.

Per quanto riguarda il secondo punto, si può innanzitutto premettere che in linea con lo Statuto del Regno e le concezioni di Napoleone Bonaparte sul valore e importanza da attribuire alla religione cattolica, le autorità amministrative regionali dimostrarono rispetto per essa e anche loro tentarono di asservire la chiesa alle finalità governative. Un documento molto utile in tal senso è costituito da una circolare dell’Intendente di Abruzzo Citeriore del 1806 che innanzitutto imponeva ai parroci e a tutto il clero “di collaborare, consolare i cittadini, alzare la voce contro il brigantaggio “[21]. La circolare poi continuava facendo presente che in alcuni luoghi si erano visti preti e religiosi “immischiarsi con i ribelli” e infine si concludeva con il seguente accorato appello rivolto a tutti i rappresentanti del mondo ecclesiastico: ”Parlate alle vostre popolazioni a nome di Dio, del Re, della patria,dei loro interessi più cari; mostrate la mano della Provvidenza visibilmente segnata in tutti questi grandi avvenimenti… Rammentate i precetti dell’Evangelo, le voci stesse dell’Eterno, prescriventi agli uomini l’ubbidienza alle leggi ed alle autorità, la tolleranza, la concordia e la fraternità. Con tale buona condotta ononerete il vostro Ministero lo renderete più prezioso all’’Umanità e sarete veramente degni della protezione dell’autorità, dell’affezione dei fedeli e grandi agli occhi di Dio e degli uomini[22]. In tale documento emerge in modo molto chiaro che l’Intendente voleva utilizzare il clero per perseguire finalità governative, lo invitava a collaborare con le autorità civili e considerava la religione un’importante strumento ideologico che poteva contribuire alla legittimazione divina del potere e al mantenimento dell’ordine pubblico.

Il secondo documento utile ai nostri fini è costituito da una lettera che 1808 le autorità civili e religiose di Lama dei Peligni inviarono al re per chiedere il suo intervento al fine di riparare la chiesa parrocchiale di San Nicola. In tale lettera scrissero: "E' stato ed è a cuore della M.V. l'esercizio della religione, che deve dirsi il fondamento della società e mancando essa ne manca un freno potentissimo per la popolazione. Quindi ad evitar tanti disordini e rovine umiliati e supplicanti al vostro regal trono la pregano e la scongiurano dar degli ordini più volte sollecitati per non vedersi la rovina di questa chiesa parrocchiale " [23]. Le frasi riportate dimostrano che anche le autorità lamesi dell’epoca erano concordi nel ritenere che la religione fosse un efficace strumento di controllo sociale utile per garantire l'ordine costituito.

Nel 1810, ad avviso del Consigliere d’Intendenza d’Abruzzo Citeriore, Nicola Durini c’era stata una decadenza di costume religioso. Infatti, in suo rapporto scrisse che la religione: “Non trova nelle attuali circostanze quel favore mediante il quale sosteneva colle feste magnifiche e clamorose e con le influenze della tonaca e del cappuccio[24].

Nel 1811, il parroco di Lama dei Peligni Don Ferdinando Dè Guglielmi durante un'orazione funebre pronunciata per la morte di un ricco possidente locale, confermò che all’epoca c’era stata una decadenza del costume religioso e una maggiore maggiore laicizzazione della vita pubblica, come dimostrano le seguenti frasi del suo discorso: "Ah Santa Religione hai perduto un uomo che colla sua pietà promuoveva la tua gloria ed il tuo onore. Oh quanto era bello il vederlo inginocchiato là in quel leggio raccolto e divoto ispirare a tutti venerazione e rispetto per la chiesa e per la Sacra di lei liturgia. Quanto era bello il sentirlo sgridare gli oziosi e gli sfaccendati acciocchè lasciati i giochi ed i divertimenti corressero alla chiesa. Oh quanto erano energiche e commoventi le di lui lagnanze nel vedere tanta irreligiosità e malcostume andare in trionfo"[25].

 Durante il periodo in considerazione il territorio regionale era ripartito in otto circoscrizioni diocesane: Chieti-Vasto, Lanciano, L’Aquila, Avezzano, Sulmona-Valva, Teramo, Ortona-Campli, Atri-Penne e Trivento[26]. A tali diocesi vere e proprie vanno aggiunti i territori appartenenti a abbazie e monasteri retti da abati con prerogative vescovili.

Per vari motivi nell’epoca in considerazione rimasero vacanti le sedi vescovili di Sulmona-Valva dal 1799 al 1818, Lanciano dal 1807-1818 e Ortona-Campli dal 1804 al 1818.

Il decennio francese fu prodigo d’iniziative in materia ecclesiastica che si aggiungono ai fatti citati. Infatti, furono promulgate numerose leggi e decreti che sostanzialmente nel loro complesso riguardarono la proprietà ecclesiastica, la condotta del clero e i loro doveri verso lo Stato e la popolazione civile. La trattativa di tali aspetti inizia con una lettera che il 23 agosto 1806 il Ministro del Culto scrisse all’ordinario diocesano teatino Chieti per esprimergli la richiesta del re di non ordinare nuovi sacerdoti al fine di non svilire la loro figura poiché se non riuscivano a ottenere qualche carica ecclesiastica erano costretti a impegnarsi in mestieri umili.

In seguito, l'applicazione di varie norme di legge portò alla soppressione degli ordini religiosi esistenti in Abruzzo, alla chiusura dei loro monasteri, all’incameramento dei beni da parte dei Comuni e altre istituzioni statali e, infine alla loro vendita che come vedremo non fu totale. Tra essi vi fu l’ordine dei Celestini la cui sede dell’abate generale era posta nell’Abbazia di Santo Spirito al Morrone sita nei pressi di Sulmona. L’ordine religioso fu fondato da Pietro da Morrone che divenne papa con il nome di Celestino V; nel Regno di Napoli fu soppresso nel 1807; durante la Restaurazione Borbonica non fu ricostituito e scomparve definitivamente.

Gli ordini religiosi all’epoca esistenti avevano monasteri e abbazie dispersi in tutto il territorio regionale e nelle più importanti città erano presenti in maggior numero. Una lettera inviata il 12 settembre 1809 dall’Intendente Provinciale di Abruzzo Citra al Ministero di Finanza e Giustizia faceva presente che nel suo territorio monasteri da sopprimere erano 29 [27].  Nelle altre due provincie si registravano numeri più o meno simili. Tali enti ecclesiastici godevano di un notevole patrimonio e rendite che essenzialmente erano costituite dagli introiti derivanti da lasciti testamentari, le donazioni per motivi spirituali, le corrisposte censuarie e l’affitto di terreni e abitazioni. Nel 1809 ad avviso di Dandolo, i monasteri maschili abruzzesi che furono soppressi assicuravano la notevole rendita annua di 69136,62 ducati, cosi ripartita nelle tre provincie: Abruzzo Citra 25857,78 ducati (37,4%); Abruzzo Ultra I 17219,86 ducati (16,9%); Abruzzo Ultra II 3126058,68 ducati (45,2%)[28].

Le attività di soppressione non furono facili e avvennero con una certa lentezza a causa dell’opposizione degli enti religiosi interessati [29]. si conclusero iniziò la vendita dei loro beni che, come detto non fu totale. Infatti, ad avviso di Villani, nel 1811 le rendite dei beni venduti nelle tre provincie abruzzesi rappresentarono le seguenti percentuali del loro imponibile lordo: Abruzzo Citra 1,02%, Abruzzo Ultra I 1,89%, Abruzzo Ultra II 2,12%[30]. Questi dati dimostrano che solo una percentuale esigua dei beni ecclesiastici fu venduta e, come successo in altre Regioni del Regno, essi furono acquisiti dalla borghesia agraria che implementò i propri possedimenti. La parte più consistente dei beni feudali, edifici e terre dei monasteri soppressi, invece fu incamerata dai Comuni e altre istituzioni pubbliche. Gli esempi che seguono dimostrano alcune acquisizioni e destinazioni che essi ebbero.

 Ad avviso di Brancaccio, in Abruzzo dopo le soppressioni, sei chiese annesse ai monasteri furono destinate a vari usi, mentre in altre sei di esse continuarono a officiarsi le funzioni religiose[31].

Nel 1807 a L’Aquila il Convento soppresso di Sant’Agostino fu scelto come abitazione da un Commissario Regio. Il 16 giugno dello stesso anno, Il soppresso monastero celestiniano di Sulmona fu destinato al Collegio Reale della provincia di Aquila, un’istituzione scolastica fondata con l’entrata in vigore del decreto di riforma dell’istruzione superiore voluta da Giuseppe Bonaparte. A tale nuova istituzione nel 1811 furono destinati anche i libri delle biblioteche dei Celestini e i Riformati della città e di altri monasteri regionali. Al fine di favorirne l’acquisizione, nel mese di settembre del 1811 furono inviati al Rettore del Collegio, gli inventari dei libri dei monasteri soppressi affinché scegliesse quelli che gli sembravano più utili per la biblioteca[32].

A Chieti dopo il 1808, il convento del complesso monastico di San Domenico divenne la sede dell’Intendenza Provinciale, mentre la chiesa fu concessa alla Confraternita del Santissimo Rosario. Nel 1809 l’analoga chiesa di San Domenico eretta a Teramo fu soppressa e trasformata prima in stalla per cavalli e poi in caserma. Anche la chiesa di San Matteo sita nella stessa città, dopo la soppressione fu trasformata in una caserma. Nel 1809 il Convento dei frati Agostiniani di Penne fu soppresso e abbandonato. A Castel di Sangro il monastero soppresso dei domenicani fu utilizzato come caserma, per ospitare una scuola pubblica, vari uffici amministrativi comunali e giudiziari.

A Lanciano il Tribunale fu sistemato nei locali del vecchio seminario[33]. A Pescara il monastero degli agostiniani dopo la soppressione fu adibito a ufficio della dogana. Ad Avezzano il 10 giugno 1811 la gendarmeria e la cancelleria del tribunale furono collocate nel monastero soppresso di San Francesco. Nel 1811 nell'ex-monastero, attiguo alla chiesa teramana di San Matteo furono aperte le scuole secondarie. Il 22 ottobre 1812 il sindaco di Lama dei Peligni, in risposta ad una lettera dell'Intendente di Chieti in cui chiedeva di precisare l'uso a cui fu destinato il soppresso monastero dei Celestini, fece presente quanto segue: "In risposta alla V.stra stimatissima del 17 corrente mese n=4857 sono a dirvi che il Monistero degli ex Celestini che è situato in questo Comune non è molto grande. Giusto un tiro di fucile distante dall'abitato ed è quasi cadente. In esso Monistero ci è una chiesa che da S.E. il Ministro dell'Interno fu ceduta a questo Comune, ed è aperta al culto divino. In terranei contigui alla d. Chiesa sarebbe necessario un accomodo, un altro per conservarci parati, attenenti alla d. chiesa, ed altro per formarvi un Campo Santo, giacché l'unica chiesa parrocchiale che vi è, è piena di Sepolture e piena di Morti che non hanno dove allocarsi. Il restante del Monistero sig. Intendente sarebbe necessario a questo Comune ad una caserma di alloggio, tantoppiù che è in progetto la nuova strada rotabile, la quale transiterà a questo Comune secondo la Pianta rimessa dall'ingegner Forti a S.E. il Ministro, e questa Comune non ha luogo dove alloggiare le truppe che passano essendo il Comune sfornito di abitazioni sufficienti agl'istessi abitanti"[34].

Un altro particolare effetto delle soppressioni monastiche fu l’allargamento delle circoscrizioni diocesane. Diversi abati di monasteri abruzzesi avevano prerogative vescovili sulle chiese e monasteri soggetti alla loro giurisdizione. Dopo le soppressioni le prerogative degli abati e i territori di alcuni loro enti religiosi furono acquisite dai vescovi delle varie diocesi regionali.. Un importante esempio in tal senso è costituito da diversi feudi appartenenti all’abbazia soppressa di Santo Spirito al Morrone (tra essi Pratola Peligna e San Benedetto in Perillis) che nel 1818 furono assegnati alla diocesi di Sulmona-Valva.

Per quanto riguarda i sepolcri extra-urbani, dalla bibliografia e documenti consultati è emerso che durante il decennio napoleonico in Abruzzo, nonostante l’editto di Saint Cloud non ne furono fondati e quindi continuò l’antica pratica delle sepolture nei luoghi sacri, ossia chiese e monasteri. Queste pratiche funerarie portarono al congestionamento dei cimiteri e una testimonianza in tal senso la dimostra la seguente lettera inviata nel 1817 dal locale arciprete al Sindaco di Lama dei Peligni: "Mi veggo nella massima necessità di supplicarvi come nella chiesa parrocchiale di San Nicola non ci si può non dire funzionare ma neppure entrare tanto è il puzzore che si sente, proveniente dal Cimitero che è pieno di cadaveri e ribocca dalle altre sepolture di particolari cittadini. La partecipo a ciò acciocchè vi compiacciate tanto di eseguire e con la solita stima vi saluto. Pietro Cianfarra arciprete "[35].

4.e. L’istruzione in Abruzzo durante il decennio napoleonico.

Un altro importante provvedimento del periodo in esame che interessò anche le tre provincie abruzzesi dell’epoca fu la riforma dell’istruzione scolastica.

All’inizio del decennio, l’Abruzzo era caratterizzato da un elevato tasso di analfabetismo, esistevano pochissime scuole regie di base, in altrettante in poche Università (Comuni) erano aperte delle scuole pubbliche con maestri stipendiati dalle amministrazioni locali e l’istruzione sia elementare che superiore era generalmente affidata a personale ed enti ecclesiastici. Le leggi napoleoniche crearono le premesse per un deciso cambiamento di rotta che mirava a favorire l’istruzione pubblica statale e ad accrescere il tasso di alfabetizzazione della popolazione anche di quella appartenente a classi sociali allora escluse dall’istruzione primaria.

Dall’analisi dei documenti citati è emerso che la realizzazione di questi buoni propositi anche in Abruzzo incontrò diverse difficoltà e problemi organizzativi. Il primo fu rappresentato dalla generale mancanza d’insegnanti laici. Di conseguenza, come visto in tutto il Regno, per aprire le scuole pubbliche comunali e statali fu necessario ricorrere al personale ecclesiastico che oltre ad essere istruito, in generale vantava il possesso di capacita didattiche. Il secondo problema da affrontare fu il reperimento dei locali in cui svolgere l’attività didattica, mentre il terzo fu di convincere tutte le famiglie a mandare i propri figli a scuola. Tenuto conto di questi fatti d’ordine generale, passiamo ora ad analizzare alcuni di essi riguardanti la realtà regionale.

Nonostante la laicità di principio accordata all’istruzione dai napoleonici, nelle tre provincie regionali non si riuscì a fare a meno dell’apporto ecclesiastico nell’insegnamento e organizzazione scolastica. Infatti, molti insegnanti furono reperiti tra il personale ecclesiastico  e addirittura  nel 1807 l’Intendente Provinciale d’Abruzzo Citeriore Pierre Briot inviò una lettera a ogni Comune di sua competenza ordinando che la scelta dei maestri e delle maestre doveva avvenire in accordo con il capo religioso del luogo o altri sacerdoti.

Nel 1806 a Teramo il vescovo fece presente che nella sua città non fu trovata nessuna maestra per le scuole femminili e quindi propose di scegliere le “Maestre Pie” tra le religiose”[36]. Inoltre fece presente che nel seminario fece aprire 4 scuole di cui una “dei primi rudimenta[37].

Nel 1807 a Sulmona fu aperta una scuola di disegno «per la figura e per l'architettura» che fu frequentata da 46 allievi e finanziata con contributi dei luoghi pii, delle parrocchie e dei conventi[38]. A Castel di Sangro a causa di difficoltà economiche e organizzative non fu possibile dare immediata esecuzione a quanto previsto dalle norme di legge in materia d’istruzione scolastica; una maestra scelta dal Decurionato, nel 1808 non svolgeva il suo incarico, mentre la scuola primaria femminile fu attivata solo nel 1812[39]. A Celenza sul Trigno nel 1808 il maestro non aveva alunni[40]. Anche a Guardiagrele nello stesso anno non erano state aperte scuole e fu chiesto al sindaco di rivolgersi al parroco affinchè invitasse i genitori a mandare a scuola i propri figli[41].

Nel 1808 a Scanno erano aperte una classe maschile affidata all’arciprete del luogo ed una femminile affidata a una maestra. Nel 1808 la prima era frequentata da 42 alunni e la seconda da 52 bambine[42]. A Lama dei Peligni nel 1810 era aperta una classe maschile tenuta da un sacerdote e una classe femminile tenuta da una maestra laica. Essi erano pagati con le rendite che assicurava il monastero dei celestini che fu soppresso e acquisito dal Comune. Nello stesso anno nel distretto di Lanciano, le scuole primarie erano maggiormente frequentate durante la stagione invernale, come dimostra il seguente scritto di Nicola, Durini Consigliere d’Intendenza d’Abruzzo Citeriore: “I maestri di scuola stabiliti in ogni Comune contano nell’inverno dei scolari che la bella stagione chiamando all’ovile e al bosco toglie all’educazione e alla coltura[43].

Nel 1811 a Teramo fu istituito il Real Collegio nell'ex-monastero benedettino di San Matteo.

In una lettera inviata all’Intendente di Chieti nel 1816, il Sindaco di Lettopalena, a conferma di altre sue comunicazioni precedenti, fece presente che nel suo Comune, le scuole non furono aperte “per le circostanze dè padri di famiglia che han dovuto portare seco i loro figli a travagliare nello stato romano per iniziare arte”[44]

Nella Provincia di Abruzzo Ultra II nel 1810 esistevano 149 scuole maschili. Poiché all’epoca le località erano 233, ne segue che solo nel 64% di esse esisteva una scuola[45]. Inoltre in tale Provincia nel periodo 1807-1810 solo 20 località su 63 avevano una scuola femminile e all’insegnamento maschile provvedevano 37 maestri reclutati tra il clero[46].

A commento di tutti i dati riportati si fa presente quanto segue: 1) la pubblica istruzione continuò a essere legata al personale ecclesiastico; 2) nell’epoca considerata l’impostazione completamente laica del modello scolastico restava un principio inattuato e inattuabile; 3) il divario numerico esistente tra le classi maschili e femminili era sostanzialmente dovuto alle difficoltà di reperire le maestre e al fatto che molte famiglie non mandavano le figlie femmine a scuola poiché le utilizzavano per le attività domestiche.

Nonostante queste difficoltà oggettive la politica scolastica dei napoleonidi nel suo complesso ebbe notevoli effetti positivi poiché impose l’obbligo della frequenza scolastica ai ragazzi di tutte le classi sociali che ebbero maggiori scambi e rapporti reciproci, favorì l’apertura di nuove sedi scolastiche e l’istruzione pubblica.

Alla fine del decennio oltre il 90% dei Comuni delle Provincie di Abruzzo Ulteriore I e II aveva aperto una scuola maschile, mentre nella Provincia di Abruzzo Citeriore questa percentuale scendeva al 63%[47]. Le nuove sedi scolastiche furono frequentate da pochi alunni e in Regione il tasso di analfabetismo pur registrando una lieve flessione rimase ancora molto alto. La sua discesa iniziò negli ultimi decenni del XIX secolo Nei primi decenni del secolo successivo iniziò a scendere più sensibilmente, proseguì in modo più deciso durante il ventennio fascista e dopo qualche decennio dalla conclusione del II conflitto mondiale si annullò completamente.  Dopo gli anni 60 del secolo scorso, gli individui non alfabetizzati ancora viventi, erano quelli nati tra la fine XIX secolo e il ventennio fascista che per vari motivi oggettivi e famigliari non ebbero accesso alle istituzioni scolastiche. 

5.                  BIBLIOGRAFIA CONSULTATA

Bianchini L., Della Storia delle Finanze del Regno di Napoli. Stamperia di Francesco Lao, Napoli, 1838.

BLANCH L., Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806. In: Croce B. (a cura) Scritti storici, vol. I, Laterza, Bari, 1945, pagg. 3-292.

BORGHESE A. Scuola e cultura nell’Abruzzo teramano durante il decennio francese, in: Rivoluzione francese e governo napoleonico in Abruzzo (1789-1815), Centro Ricerche Storiche, Teramo, 1992, pagg. 215-221.

BRANCACCIO G., Chieti durante il Decennio francese. In: Spagnoletti A., (a cura di), Il governo della città. Le città meridionali nel Decennio francese, Bari, Edipuglia, 2009, pp. 125-138.

BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno Moderno, Biblion Edizioni, Milano, 2019.

Brancaccio G.. Il Molise e gli Abruzzi dal 1799 al 1861. In: Mascilli Migliorini L. Da Sud. Le radici meridionali dell'Unità nazionale, pagg. 1-384, Silvana Editoriale Roma, 2011.

BRANCACCIO G., in: Provincia. Strutture e dinamiche storiche di Abruzzo Citra in età moderna, ESI, Napoli, 2001.

G. BRANCACCIO (2007). Le città abruzzesi nell'età napoleonica: Lanciano. In: Nelle Province dell'Impero. Colloquio internazionale in occasione del bicentenario della nascita di Victor Hugo, a cura di L. Mascilli Migliorini. Avellino, vol. I, pagg. 343-357, Edizioni del Centro Dorso, AVELLINO, 2006.

Calio' T., La soppressione dei conventi a Tagliacozzo nel decennio francese. In: Salvatori F. (a cura), Tagliacozzo e la Marsica tra Antico Regime e Risorgimento. Aspetti di vita artistica, civile e religiosa, Tipografia Abilgraph, Roma, 2005, pagg 51-62.

Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel decennio francese, Ed. Menabò, Ortona (Ch), 2005.

Carnevale, D., La Riforma Delle Esequie a Napoli Nel Decennio Francese, Studi Storici vol. 49, n. 2, 2008, pp. 523–552.

Cestaro A., Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l’età giacobina e il Decennio francese: aspetti e problemi, Rassegna Storica Lucana n. 91, 1991, pagg. 7-25.

Costantini B., I moti d’Abruzzo dal 1798 al 1860 e il clero, Stabil. poligraf. edit. Amoroso, Pescara, 1960.

DANDOLO F., L’incameramento dei patrimoni monastici in Puglia agli inizi dell’Ottocento, in: LANDI F. (a cura di), Confische e sviluppo capitalistico. I grandi patrimoni del clero regolare in età moderna in Europa e nel Continente Americano, Franco Angeli, Milano 2004.

D’Elia C., (a cura). Stato e Chiesa nel Mezzogiorno napoleonico Atti del quinto seminario di studi “Decennio francese (1806-1815) ”. Giannini Editore, Napoli, 2008.

DE ROSA G., La vita religiosa nel Mezzogiorno durante la dominazione francese, in: CESTARO A. & LERRA A. (a cura), Il mezzogiorno tra ancien régime e Decennio Francese, Venosa (Pz), 1992.

De Rosa G., La parrocchia nell'età contemporanea, Orientamenti Sociali, n.2, 1980, pagg. 7-18.

DEL VILLANO W. & DI TILLIO Z. Abruzzo nel tempo. Didattica Costantini, Pescara, 1978.

GALLO F.F., Dai gigli alle coccarde. Il conflitto politico in Abruzzo (1770-1815), Carocci Ed., Roma, 2002.

Marsetič R., Il cimitero civico di Monte Ghiro a Pola. Simbolo dell’identità cittadina e luogo di memoria (1846-1947), Centro di Ricerche Storiche – Rovigno Collana degli Atti - N. 35. 2013, pagg. 73-102.

LETTIERI A., Il clero e a rivoluzione francese in Abruzzo, in: Rivoluzione francese e governo napoleonico in Abruzzo (1789-1815), Centro Ricerche Storiche, Teramo, 1992, pagg. 209-214.

Menozzi D., I Vescovi dalla Rivoluzione all’Unità tra impegno politico e preoccupazioni sociali, in: ROSA M. (a cura), Clero e società nell’Italia Contemporanea, Ed. Laterza, Bari, 1992, pagg. 125-179.

MOZZILLO A., Cronache della Calabria in guerra 1806-1811, vol. I, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1972.

MASTROBERTI F., Pierre Joseph Briot. Un giacobino tra amministrazione e politica (1771-1827), Jovene Ed. Napoli, 1998.

Novi Chavarria E., I feudi ecclesiastici nel Regno di Napoli: spazi, confini e dimensioni (secoli XV-XVIII). In Musi A.& Noto M.A. (a cura), Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell’Italia meridionale, Quaderni Mediterranea Ricerche storiche, n. 19, 2011, pagg.353-386.

Petrucci S., Opposizione popolare, insorgenza e brigantaggio nell'Italia napoleonica, Annali di Storia moderna e contemporanea, 2008, n. 14, pagg. 259-280.

SCIARRETTA A., Geo-storia amministrativa d'Abruzzo Provincia di Abruzzo Ulteriore II o dell'Aquila. http://www.asciatopo.altervista.org/ammi_aq.html. Consultato il 12-4-2023.

TANTURRI A., Il sacro fuoco della ragione. La scuola in Abruzzo Ultra II durante il Decennio francese, in: Bianchi, A. (ed.), L'istruzione in Italia tra Sette e Ottocento. Da Milano a Napoli: casi regionali e tendenze nazionali. I. Studi, La Scuola, Brescia, 2012, pagg. 697-735.

TANTURRI A., L’arcano amore della sapienza. In: Il sistema scolastico del Mezzogiorno dal Decennio alle soglie dell’Unità nazionale (1806-1861), Milano, Unicopli, 2013.

Tanturri A., La pubblica istruzione a Scanno fra Sette e Ottocento, Archivium Scholarum Piarum, XXXV, 2011, n. 70, pagg. 75 – 106.

Tanturri A., La pubblica istruzione a Sulmona in età moderna, Annali di storia dell'educazione e delle istituzioni scolastiche, n.13, 2006, pagg. 209-242

 TANTURRI A., La pubblica istruzione in Abruzzo tra Sette e Ottocento: il caso di Castel di Sangro, Proposte e ricerche n. 62, 2009, pagg. 23-42.

TANTURRI A., Maestri ed alunni in Abruzzo tra Cinque e Ottocento, Chieti, Tinari, 2008.

VIGGIANI C., L’Abruzzo Citeriore nel rapporto del 14 giugno1810 del Consiglio d’Intendenza Giuseppe Nicola Durini, in: Rivoluzione francese e governo napoleonico in Abruzzo (1789-1815), Centro Ricerche Storiche, Teramo, 1992, pagg. 147-153.

VILLANI P., La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli (1806-1815), Banca Commerciale Italiana, Milano, 1964.

VITTORIA G. A., Lettopalena “Universitas“ e borgo autentico, Pixartprinting S.p.A., Quarto D'Altino. (VE), 2021.

ZAZO A., L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano, 1767-1860, Il Solco Ed. Città di Castello (Pg), 1927.

 

 

 Note:



[1] Tanturri, A., La pubblica istruzione a Sulmona in età moderna, pag. 236.

[2] Il Tribunale Misto era un organo giudiziario che fu istituito nel 1741 n esecuzione del concordato tra la Santa Sede e il Regno di Napoli. Esso composto da tre ecclesiastici (di cui due di nomina papale) e due laici che restavano in carica per tre anni. Alcuni suoi compiti erano: il controllo dell'amministrazione degli ospedali, confraternite e altri luoghi pii laicali; dirimere annose controversie giuridiche e vertenze di carattere ecclesiastico; decidere quali cause erano di competenza vescovile, in materia d’immunità locale e sulle pretese di franchigie degli ecclesiastici.

[3] Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel decennio francese, pag. 158.

[4] De Rosa G., La parrocchia nell'età contemporanea, Orientamenti Sociali n. 2, pag. 11.

[5] TANTURRI A., Il sacro fuoco della ragione. La scuola in Abruzzo Ultra II durante il Decennio francese, pag. 677.

[6] I predicatori quaresimali erano sacerdoti che durante il periodo quaresimale erano invitati a fare prediche in chiesa per preparare i fedeli alla Pasqua.

[7] Marsetič R., Il cimitero civico di Monte Ghiro a Pola. Simbolo dell’identità cittadina e luogo di memoria (1846-1947), pag. 12.

 [8] Petrucci S., Opposizione popolare, insorgenza e brigantaggio nell'Italia napoleonica, pag. 266.

[9] Brancaccio G., Le soppressioni monastiche, in Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno Moderno, pag. 362.

[10] GALLO F. F., Dai gigli alle coccarde. Il conflitto politico in Abruzzo (1770-1815), pag. 13.

[11] Menozzi D., I Vescovi dalla Rivoluzione all’Unità tra impegno politico e preoccupazioni sociali, pag.144.

[12] Il Principato Citra è un ambito territoriale coincidente grosso modo con l’attuale Provincia di Salerno. A sua volta la  Terra di Lavoro è un ambito storico-geografico dell'Italia Meridionale che comprende aree attualmente assegnate alla Campania, il Lazio e il Molise.

[13] MOZZILLO A., Cronache della Calabria in guerra 1806-1811, pag. 240.

[14] Petrucci S., op. cit., pagg. 268-269.

[15] Canosa R., op. cit., pag. 17.

[16] GALLO F. F., op. cit. pagg.88-89.

[17] Novi Chavarria E., I feudi ecclesiastici nel Regno di Napoli: spazi, confini e dimensioni (secoli XV-XVIII), pagg. 369-371. L’elenco riportato comprende anche i possedimenti ecclesiastici di località che all’epoca appartenevano alle due province abruzzesi e ora fanno parte della Regione Lazio.

[18] Novi Chavarria E., op. cit. pagg. 369-371.

[19] SCIARRETTA A., Geo-storia amministrativa d'Abruzzo Provincia di Abruzzo Ulteriore II o dell'Aquila.

[20] Questa separazione è persistita sino al 1927 quando i due Comuni furono di nuovo aggregati e fu istituita la Provincia di Pescara.

[21] Canosa R., op. cit., pag. 47.

[22] Canosa R., op. cit., pag.47-48.

[23] Archivio di Stato di Chieti, Affari Comunali di Lama dei Peligni 1806-1815, busta n. 584.

[24] VIGGIANI C., L’Abruzzo Citeriore nel rapporto del 14 giugno1810 del Consiglio d’Intendenza Giuseppe Nicola Durini, pag. 153.

[25]De Guglielmi F., Necrologio di Luigi Madonna di Lama, 29 novembre 1811, manoscritto conservato presso la Biblioteca A. De Meis di Chieti.

[26] La sede della diocesi di Trivento pur essendo in Molise comprendeva all’epoca e comprende tuttora Comuni abruzzesi che appartengono alle Province di Chieti e dell’Aquila.

[27] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno Moderno, pag. 368.

[28] DANDOLO F., L’incameramento dei patrimoni monastici in Puglia agli inizi dell’Ottocento, pag. 96.

[29] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno Moderno, op. cit., pag. 370.

[30] VILLANI P., La vendita dei beni nazionali: una rivoluzione fondiaria?, pagg. 68-69

[31] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno Moderno, op. cit. pag. 372.

[32] Zazo, A., L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano, 1767-1860, pag. 98.

[33] BRANCACCIO G., Le città abruzzesi nell’età napoleonica: Lanciano, in Nelle province dell’Impero, pag. 336.

[34]Archivio di Stato di Chieti, Intendenza, soppressione di monasteri, successione di carte relativa a singoli conventi, busta 3, fasc. 54.

[35] Archivio di Stato di Chieti, Affari Comunali di Lama dei Peligni 1806-1815, busta 585.

[36] BORGHESE A. Scuola e cultura nell’Abruzzo teramano durante il decennio francese, pag. 217.

[37] BORGHESE A., op. cit. pag. 217.

[38] Tanturri, A., La pubblica istruzione a Sulmona in età moderna, pag, 236.

[39] Tanturri A., La pubblica istruzione in Abruzzo tra Sette e Ottocento: Il caso di Castel di Sangro, pag. 36.

[40] CANOSA R., op. cit., pag., 94.

[41] CANOSA R., op. cit., pag., 95.

[42] Tanturri A., La pubblica istruzione a Scanno fra Sette e Ottocento, pagg. 103-104.

[43] VIGGIANI C., op. cit., pag. 153.

[44] VITTORIA G. A., Lettopalena “Universitas“ e borgo autentico, pag. 133.

[45] TANTURRI A., Maestri ed alunni in Abruzzo tra Cinque e Ottocento, pag.140. Chieti, Tinari, 2008.

[46] TANTURRI A., Il sacro fuoco della ragione. La scuola in Abruzzo Ultra II durante il Decennio francese, op. cit., pagg. 674-675.

[47] TANTURRI, L’arcano amore della sapienza. Il sistema scolastico del Mezzogiorno dal Decennio alle soglie dell’Unità nazionale (1806-1861), pagg. 18-20.

Nessun commento:

Posta un commento