Abruzzo, 1808 |
di Amelio Pezzetta
1. L’OCCUPAZIONE NAPOLEONICA DEL REGNO DI NAPOLI
Nei primi giorni
di febbraio del 1806 iniziò l’invasione militare franco-napoleonica del Regno
di Napoli con un esercito guidato dal maresciallo Andrea Massena. ll 15 febbraio, l’armata
transalpina composta da oltre 43000 uomini e guidata da Giuseppe Bonaparte, il
fratello di Napoleone entrò a Napoli che
il 23 gennaio, il Re Ferdinando IV e la sua corte avevano abbandonato per rifugiarsi a Palermo.
Il 30 marzo dello stesso anno, Giuseppe Bonaparte, ne acquisì il trono e fu proclamato re delle Due Sicilie. A seguito dell’investitura ufficiale il nuovo re formò un governo misto costituito da quattro francesi (Pierre-Louis Roederer, André-François Miot de Mélito, Louis Stanislas de Girardin e Mathieu Dumas) e tre napoletani (Antonio Cristoforo Saliceti, Michelangelo Cianciulli e Marzio Mastrilli). Il 5 luglio 1808, dopo una breve parentesi durata solo due anni e sei mesi, Giuseppe Bonaparte abdicò nel Regno di Napoli per acquisire il trono di Spagna. Il 6 luglio 1808, suo fratello lo nominò re di Spagna con il nome di Giuseppe Napoleone I. In seguito all’abdicazione, l’amministrazione franco-napoleonica dell’Italia meridionale si protrasse con Gioacchino Murat che il primo agosto dello stesso anno fu incoronato re delle Due Sicilie dall’imperatore Napoleone Bonaparte. Il 12 agosto 1808 Murat fece il suo ingresso a Napoli e governò sino al mese di luglio del 1815, quando la breve esperienza del decennio francese nell’Italia Meridionale si concluse.
2.
Le riforme napoleoniche.
Dopo la
conquista del Regno di Napoli i napoleonici avviarono una politica di riforme radicali
che
miravano a creare uno Stato moderno, superando le gravi condizioni economico-finanziarie
di arretratezza in cui il Regno stesso versava.
Le riforme attuate
furono influenzate dai principi e le idee maturate dall’illuminismo napoletano settecentesco
e la Rivoluzione francese, provocarono una profonda frattura con l’ancien regime
e lasciarono tracce indelebili sul tessuto amministrativo, economico-finanziario
e socio-politico del paese. A tal proposito Bianchini scrisse che il breve periodo
franco-napoleonico rappresenta “ una delle
più memorabili epoche della nostra storia, sembrando opera di un secolo mentre appena
lo fu di anni dieci”.
I principali problemi che i napoleonici si assunsero di affrontare e risolvere con la riorganizzazione statale erano i seguenti: l’abolizione del feudalesimo; la laicizzazione dello Stato secondo i principi impostisi con la Rivoluzione francese; la circoscrizione dell'influenza della Chiesa nella società civile; la riduzione del grave debito pubblico e quindi la necessità di riportare il bilancio dello Stato in pareggio; la necessità di porre fine all'anarchia tributaria che consentiva a chi aveva più beni di pagare meno tasse; il possesso della maggiore quantità superficiale di terreni coltivabili da parte della Chiesa e dei baroni; la riorganizzazione amministrativa territoriale con la necessità di liberare le Università (i Comuni) del Regno dall’’oppressione feudale; la riduzione degli abusi da parte delle classi sociali più elevate nei confronti dei ceti meno abbienti che all’epoca anziché l'eccezione costituivano la regola; la necessità di provvedere alle esigenze di spesa militare.
2a. La Riforma amministrativa.
Preso atto della
necessità di riorganizzare lo Stato, i napoleonici iniziarono a promulgare varie
leggi e decreti che riformarono la divisione amministrativa del Regno di Napoli
adeguandola al modello francese. Con l’importantissima legge n. 132 varata l’8 agosto
1806 e altre normative, sostanzialmente avvenne: 1) l’istituzione delle Intendenze
Provinciali, particolari organi periferici del Ministero
dell'Interno (anch’esso istituito dai napoleonici) corrispondenti
alle attuali prefetture; 2) la riforma delle amministrazioni locali; 3) la ripartizione
del territorio del Regno in quattro dipartimenti (Terra
di Lavoro, Capitanata, Abruzzo e Calabria) suddivisi in tredici province molto simili
alle precedenti circoscrizioni borboniche. Ogni provincia fu suddivisa in vari distretti,
circondari e Comuni e, infine ogni Comune fu ripartito in centri più piccoli
che all’epoca furono chiamate ville.
Al vertice di ogni
Provincia fu posto l’Intendente, una carica pubblica corrispondente all’attuale
prefetto a cui furono assegnati ampi poteri di controllo e vigilanza in materia
amministrativa, finanziaria, d’ordine pubblico e polizia. Nell’esercizio delle sue
funzioni esso era coadiuvato da un Consiglio d'Intendenza costituito da tre a cinque
membri. L’articolo otto della legge n. 132 prescriveva che l’Intendente era
tenuto a visitare ogni due anni tutti i centri abitati del territorio di
propria competenza, rafforzando in questo modo il potere di controllo statale
sulle amministrazioni locali.
Le altre importanti riforme amministrative dell’epoca furono: 1) l’introduzione nel Regno di Napoli del Codice napoleonico, la cui adozione ufficiale avvenne con un decreto promulgato il 22 giugno 1808; 2) la leva obbligatoria, introdotta con un decreto del 29 mar. 1807; 3) lo statuto costituzionale del Regno composto da 11 articoli che delineavano le linee fondamentali d’ordinamento dello Stato e della Corona e stabilivano che il cattolicesimo era la religione di Stato; vari provvedimenti riguardanti l’amministrazione della giustizia.
2b. L’eversione della feudalità
Nel Regno
di Napoli, il feudalesimo quale forma di governo era stato portato dai Normanni
e per secoli rimase sostanzialmente immutato. Con l’ordinamento
feudale, tranne i beni burgensatici e allodiali di libera proprietà, il resto che
rappresentava la maggioranza era costituito da demani feudali, ecclesiastici e universali
soggetti a usi civici, ossia ai diritti di pascolo, cavar pietre, legnatico, raccolta
di frutti selvatici, etc., dietro la generale corresponsione di un canone. A loro
volta i feudatari che potevano essere sia laici che ecclesiastici godevano di vari
diritti, arbitri e privilegi sulla proprietà, le persone e le cose. Nel Regno questo
stato di cose insieme alle leggi che ne assicuravano l’esistenza, fu inizialmente
messo in discussione nel XVIII secolo e ufficialmente abolito durante
il decennio napoleonico. Infatti, l’applicazione della legge
del 2 agosto 1806 e del Decreto del 3 dicembre 1808 portò all’abolizione del feudalesimo
con tutte le sue servitù, prerogative e soprusi e alla
trasformazione dello Stato da feudale ad amministrativo, un fatto
che tra l’altro permise ai Comuni di aggiungere ai diritti che possedevano anche
le giurisdizioni sottratte ai baroni e di affrancarsi totalmente dagli abusi e
soprusi arbitrari perpetrati dai baroni stessi. In
particolare la legge del 2 agosto 1806 prescrisse quanto segue: l’abolizione di
tutti i feudi, delle prestazioni personali, i pedaggi e tributi sull’uso dei boschi,
i frantoi, le acque dei fiumi e i mulini; la ripartizione proporzionale dei demani
feudali tra gli ex feudatari e i Comuni. La quota
spettante a questi ultimi, con l'aggiunta dei demani comunali doveva essere ripartita
tra le famiglie del Comune stesso, iniziando dalle più indigenti.
Al fine di dirimere i numerosi contenziosi giudiziari che nacquero tra i Comuni e gli ex feudatari a seguito dell’applicazione delle leggi eversive sulla feudalità, Giuseppe Bonaparte con un regio decreto del 11 novembre 1807 istituì un tribunale speciale chiamato Commissione Feudale. I suoi membri furono scelti tra le personalità dell’epoca con notevole competenza in materia feudale. L’aquilano Giacinto Dragonetti fu nominato Presidente della Commissione; Domenico Coco, Giuseppe Franchini, Giuseppe Raffaelli, Nicola Vivenzio, membri attivi e Davide Winspeare che inizialmente ricoprì la carica di procuratore. La Commissione feudale fu subissata dai notevoli ricorsi degli ex feudatari e dei rappresentanti delle Università tant’è vero che in pochi mesi emise oltre 3000 sentenze.
2c. La riforma dell’istruzione primaria.
Un’altra
importante riforma promossa durante il decennio napoleonico fu quella dell’istruzione scolastica che fu
resa obbligatoria e pubblica, sottraendo alla Chiesa un suo esclusivo privilegio
secolare. Un primo passo in tal senso lo compì Giuseppe Bonaparte nel mese di marzo del 1806 quando istituendo il Ministero dell’Interno, vi aprì una sezione dedicata
alla Pubblica Istruzione. In seguito il 15
agosto 1806 emanò un decreto che fissava l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione
scolastica per tutti i ragazzi del Regno senza distinzione di sesso e classe sociale.
Al fine di favorire la diffusione del sistema scolastico e l’istruzione obbligatoria,
il decreto ordinava che le autorità amministrative di ogni centro abitato del Regno
erano tenute a stipendiare un maestro che insegnasse “la numerica”, a leggere, scrivere e la dottrina cristiana ai ragazzi
e una maestra che alle bambine insegnasse anche “le
arti donnesche”, ossia cucire, ricamare e tessere.
Il decreto ha un’enorme
importanza storica poiché pone per la prima volta nel Regno di Napoli, l’attenzione
generale all’istruzione primaria femminile e all’alfabetizzazione di massa che passò
alle istituzioni locali. Tuttavia la sua applicazione non fu semplice per vari motivi.
In vari Comuni del Regno le scuole furono aperte con un certo ritardo a causa delle
difficoltà che sorsero per reperire il corpo docente. In questo senso le maggiori
difficoltà si ebbero nella ricerca e assunzione delle maestre e di conseguenza le
scuole femminili non furono aperte nei Comuni che non riuscirono a trovarle. In
alcune scuole maschili si registrarono dei ritardi nelle aperture e quando non si
riusciva a trovare il personale laico, l’insegnamento fu affidato agli ecclesiastici.
Il secondo problema fu costituito dalla mancanza di edifici scolastici, per cui
spesso l’attività didattica si svolgeva nell’abitazione del docente prescelto. A
questi problemi si aggiunse il numero degli alunni frequentanti le lezioni che era
sempre molto ristretto poiché contravvenendo alle norme, le famiglie non mandavano
i figli a scuola. Infatti: quelle benestanti generalmente preferivano affidare l’istruzione
dei loro figli a precettori privati, mentre i contadini utilizzavano i figli maschi
nei lavori agricoli e le femmine per le faccende domestiche.
Nel 1811 un nuovo decreto precisò i vari gradi dell’istruzione pubblica che fu suddivisa in primaria, secondaria, superiore e universitaria. Alle scuole primarie fu imposto lo studio del Galateo e due anni dopo “Gli Ammaestramenti degli antichi”, a dimostrazione dell’interesse del potere centrale statale nella diffusione anche delle regole del buon costume[1].
2.d. Le riforme e la politica ecclesiastica.
Per capire la politica
ecclesiastica e la vita religiosa del Decennio napoleonico bisogna tener conto di
vari fattori, tra cui, il più importante è la considerazione che Napoleone Bonaparte
aveva della religione. A tal proposito Napoleone sosteneva che la religione era
una forza che non poteva essere vinta dallo Stato, ma che poteva essere indirizzata
ai fini dello Stato per accrescere il consenso e la stabilità politica. Di conseguenza,
in linea con questa concezione ideologica, le leggi e i decreti d’interesse ecclesiastico
che furono promulgati erano finalizzati ad assicurare il graduale asservimento delle
strutture ecclesiastiche agli interessi statali.
Nel suo
complesso le leggi e i decreti di carattere ecclesiastico promulgati durante il
decennio furono abbastanza copiosi e toccarono vari argomenti e temi tra cui:
l'organizzazione della pubblica beneficienza, la soppressione dei monasteri e
degli ordini religiosi, la normativa sui parroci e gli aspiranti alle
ordinazioni sacerdotali, la riduzione delle diocesi e parrocchie, la
regolamentazione delle confraternite religiose, degli ospedali, cappelle
laicali, altri luoghi pii e l'abolizione del Tribunale Misto[2].
Quando Giuseppe Bonaparte
acquisìil trono di Napoli,
il pontefice Pio VII, tenendo conto di antiche consuetudini che risalivano
all’epoca normanna, rivendicò il suo diritto di sovranità che implicava l'investitura
papale del nuovo sovrano, ma Napoleone ricusò la pretesa pontificia ponendo al papa
il seguente ultimatum: se non riconosceva l'occupazione del Regno di Napoli, lui
non sarebbe stato riconosciuto principe temporale. Dopo questa presa di posizione,
il papa rinunciò alle sue prerogative.
Agli inizi di marzo
del 1806, il Ministro del Culto inviò una lettera a tutti i vescovi facendo presente
che il nuovo re Giuseppe Bonaparte avrebbe vigilato e contribuito a tutelare “La nostra sacrosanta Religione”[3]. In
linea con questa volontà sovrana, nel I titolo dello Statuto del Regno
promulgato nel 1808 si stabilì che la religione
cattolica apostolica romana fosse quella ufficiale dello Stato. Di conseguenza
i nuovi poteri riconoscevano la supremazia del cattolicesimo sulle altre
confessioni religiose e ne assicuravano la tutela. Questa scelta non si
discosta dal principio che assicurava la supremazia dello Stato su tutte le
altre istituzioni territoriali presenti nel suo territorio che di conseguenza
dovevano contribuire a perseguire le sue finalità.
Il passo
successivo si ebbe con il dispaccio del 17 maggio 1806 con cui Giuseppe
Bonaparte iniziò la politica d'asservimento della Chiesa allo Stato, imponendo
a tutto il clero del Regno di giurargli fedeltà con la seguente formula: "Giuro fedeltà e obbedienza a Giuseppe
Napoleone, re delle Sicilie, nostro augusto sovrano". Oltre a questo, il
re nominò i chierici Capecelatro e Rosini al Consiglio di Stato, inserì il
seggio del clero nel Parlamento Nazionale, tentò di circoscrivere l’influenza
clericale solo alla sfera spirituale, espulse dal Regno i cardinali che
riteneva più avversi al suo potere e infine promulgò leggi e decreti di
carattere ecclesiastico con varie finalità.
I napoleonidi inquadrarono il clero nell’apparato
statale e lo sottoposero al controllo delle autorità civili, facendone dei funzionari
stipendiati con specifici compiti in materia spirituale, di fede, d’insegnamento
e di anagrafe civile. In quest’ottica i vescovi dovevano essere dei perfetti funzionari
dello Stato con compiti di controllo sull'insegnamento della dottrina cristiana,
la fedeltà dei sudditi, le rendite diocesane, la congrua, ecc. A loro volta i perfetti
parroci, come ha evidenziato De Rosa, erano coloro che nel rispetto delle autorità
civili impartivano ai fedeli un insegnamento della dottrina cristiana che sacralizzava
l'obbedienza al sovrano[4].
Con la legge di eversione
delle feudalità del 1806, l'amministrazione napoleonica inflisse un colpo durissimo
al patrimonio della Chiesa poiché abolì oltre ai feudi laici anche quelli ecclesiastici.
Un altro duro colpo al patrimonio ecclesiastico fu portato dall’applicazione delle
leggi del 13 febbraio 1807 n. 36 del 7 maggio 1809 n. 448 e dei decreti del 2-1-1808
e del 7 agosto 1809 (n. 448) che portarono alla soppressione di tutti i monasteri
e ordini religiosi nel Regno. A causa di ciò, la Chiesa, intesa come forza economica
legata al sistema feudale scomparve, mentre i beni degli enti religiosi soppressi
furono incamerati dallo Stato e venduti. Un decreto del 1807
ordinò anche la nazionalizzazione dei beni letterari del clero, a dimostrazione
che le autorità napoleoniche perseguivano anche finalità di centralismo politico-culturale.
Un decreto legge
del I luglio 1806 ordinò che le confraternite, le cappelle laicali e altri luoghi
pii fossero considerati patrimonio dello Stato e soggetti alla sua sorveglianza
e tutela. Essi vennero a dipendere dal Ministero dell'Interno che esercitava il
controllo, prima tramite gli Intendenti provinciali e dal 1809 con il Consiglio
Generale degli Ospizi. Quest’organismo fu istituito con un decreto del 16 ottobre 1809 al fine
di "soprintendere alle amministrazioni
degli stabilimenti di pietà e de' luoghi pii laicali" e assorbì
diverse competenze che in precedenza erano assegnate al Tribunale Misto. A livello
comunale, l'amministrazione delle rendite, esazioni, introiti e spese delle cappelle laicali, altri luoghi e
pii stabilimenti locali fu affidata
alle Commissioni di Beneficienza fondate in ognuno di essi al fine di occuparsi
dei cittadini più indigenti e contribuire a sollevare le loro sorti materiali.
Con altre leggi l'amministrazione
napoleonica tentò di ridurre il numero dei poveri e dei mendicanti del Regno reprimendo
il vagabondaggio e disponendo l'impiego forzato dei non inabili in lavori di utilità
pubblica e nell'esercito.
In questo
periodo storico, la provvista delle parrocchie, la selezione, il mantenimento e
la sussistenza dei parroci divennero anch’essi materia di competenza statale. In
particolare le parrocchie si videro spogliare di varie tradizionali prerogative
e persero la loro funzione di principale centro di riferimento amministrativo
per la vita locale. Infatti, furono private dalle funzioni di anagrafe civile
che furono acquisite dai Comuni e dai suoi enti collaterali quali confraternite,
Monti Frumentari e di Pietà che, come visto passarono ai Consigli degli Ospizi.
I Comuni oltre a
sostituirle in alcune funzioni potevano controllarle
poiché le sue autorità e rappresentanze proponevano e retribuivano il predicatore
quaresimale, provvedevano alla manutenzione delle chiese, corrispondevano la congrua
ai parroci, imponevano loro di leggere durante la messa le proprie delibere e regolamenti
adottati, ecc.
Durante il Decennio
Napoleonico lo Stato assegnò ai parroci diverse funzioni non connesse con la "cura
animarum". Infatti, essi erano tenuti a predicare contro l'analfabetismo, aiutare
lo Stato nella lotta al brigantaggio violando a tal proposito anche il segreto confessionale,
impartire l'istruzione scolastica, tenere in ordine i registri parrocchiali, non
allontanarsi dalla propria sede per accettare altri incarichi nell'amministrazione
statale, spiegare e leggere al popolo durante le messe le norme del codice napoleonico,
le disposizioni governative e comunali, le varie missive riguardanti norme di vita
pubblica.
I parroci furono
nominati anche membri attivi delle Commissioni Comunali di Beneficienza con il compito
di visitare gli infermi, malati e mendici, soccorrerli, procurare loro lavoro, impegnarsi
a migliorare le loro condizioni morali, ecc.
Una circolare diffusa
agli inizi del 1809 obbligava i sacerdoti a sollecitare i bambini affinché frequentassero
le scuole comunali, mentre un decreto del 1810 stabiliva che nei comuni con meno
di 3000 abitanti, i parroci dovevano impartire l’istruzione scolastica[5]. Inoltre
i parroci e gli ordinari diocesani dovevano cooperare con il governo nelle
riforme sanitarie che di volta in volta approntava, tra cui convincere le famiglie
del Regno a far vaccinare i loro figli dal vaiolo. Tenendo conto degli importantissimi
servigi che i parroci dovevano garantire, lo Stato si preoccupò di assicurare loro
un'esistenza decorosa e dignitosa per non svilire la figura e il prestigio derivante
dalle funzioni a cui furono delegati. A tal proposito una legge del 13 febbraio
1807 ordinò che ognuno di essi avesse una rendita non inferiore a 120 ducati annui.
Un successivo decreto del 1813 stabiliva che dovevano svolgere funzioni pubbliche
(stato civile, istruzione elementare, igiene e profilassi) e che la congrua da corrispondere
doveva essere di 528 lire napoletane annue per le parrocchie con popolazione sino
a 1000 anime, di 660 lire per quelle con popolazione compresa tra 1000 e 2000 anime
e di una cifra superiore per le parrocchie con più filiali.
Ad avviso dei napoleonici,
i parroci più utili agli interessi statali si ottenevano oltre migliorando le condizioni
economiche, anche contribuendo a una loro maggiore moralizzazione e preparazione
culturale. Di conseguenza il Ministro del Culto emanò varie norme sulle ordinazioni,
si prefisse di ridurre il numero dei sacerdoti nel Regno al minimo indispensabile,
di consentire l'accesso agli ordini sacri solo a coloro che erano dotati di ottime
qualità morali e che risultavano seriamente interessati alla vita religiosa ed infine
stabilì il curriculum di studi che ogni aspirante sacerdote doveva seguire. A tal
proposito la legge del 30 novembre 1806 n. 262 restrinse il numero degli ordinandi
a uno su ogni 200 abitanti, mentre la legge del 19 novembre 1810 fissò il divieto
alle ordinazioni per i figli unici. Un successivo decreto del 12 novembre 1810 delegò
ai giudici di pace il compito di accertare i requisiti dei promuovendi agli ordini
sacri. Infine, l’articolo 65 della legge del primo gennaio 1812, prescrisse che
i parroci dei Comuni con più di 10000 abitanti dovevano essere laureati in teologia,
mentre i rettori delle parrocchie site nei Comuni con popolazione inferiore dovevano
essere provvisti del grado di licenza. Attraverso il Ministro del Culto, lo Stato
intervenne anche nella provvista delle parrocchie indicendo il concorso della "cura"
tramite i vescovi e, mediante gli Intendenti provinciali assumendo informazioni
sui candidati per accertare le loro qualità morali e politiche. La nomina a parroco
avveniva dopo l'autorizzazione del Ministero del Culto, la sua trasmissione al vescovo
e il giuramento di fedeltà allo Stato da parte del candidato prescelto.
Durante il decennio
napoleonico molte sedi vescovili rimasero vacanti: nel 1806 erano 54, nel 1810 salirono
a 73 e nel 1815 erano 100.
Il 18 settembre 1813
il Ministero del Culto emanò disposizioni riguardanti i predicatori quaresimali
che erano retribuiti dai Comuni, nonostante non fossero propri impiegati[6]. Le nuove
normative prescrissero che entro il mese di novembre, i decurionati erano tenuti
a inviare all’Intendente Provinciale, una terna contenente i nomi dei sacerdoti
proposti come quaresimalisti. In seguito l’Intendente sceglieva il candidato e lo
sottoponeva all'approvazione del vescovo. Se il Comune non presentava la terna entro
i termini prescritti, la scelta del predicatore competeva all’ordinario diocesano.
Con l'introduzione
nel Regno di Napoli del codice napoleonico avvenuta il I gennaio 1809, furono adottate
importantissime innovazioni riguardanti il matrimonio. Infatti, la nuova
normativa sulle unioni matrimoniali attribuiva maggior importanza al potere amministrativo
laico statale poiché prevedeva la separazione tra il rito civile e religioso e ordinava
che il primo fosse celebrato davanti a un pubblico ufficiale dello Stato dopo due
pubblicazioni affisse all'albo comunale. Su scelta dei diretti interessati, il rito
civile poteva essere seguito da quello religioso senza alcuna interferenza delle
autorità ecclesiastiche. Il codice napoleonico imponeva anche il consenso dei
genitori al matrimonio stesso se lo sposo avesse meno di 25 anni e la sposa
meno di 21.
Con un decreto del
22 dicembre 1808, seppur con una certa reticenza, Gioacchino Murat introdusse il
divorzio nel Regno di Napoli e ordinò che la sua concessione poteva avvenire in
seguito a sevizie, adulterio, ingiurie, condanne a pene infamanti, ecc. Tuttavia
a causa delle tradizioni culturali e religiose della popolazione regnicola, pochi
se ne avvalsero e durante la Restaurazione fu abolito.
Nel periodo napoleonico
iniziò a imporsi la consuetudine di seppellire i defunti in cimiteri extraurbani
per motivi di carattere igienico-sanitario. A tal proposito Gioacchino Murat con
il decreto n. 278 dell’undici Febbraio 1809 impose la costruzione a Pozzuoli di
un cimitero pubblico circondato da mura e non situato all’interno di un edificio
religioso. Nel 1813 con un altro decreto
impose la costruzione di un secondo cimitero extraurbano. Queste due norme traevano
ispirazione dal famoso editto di Saint-Cloud del
12 giugno 1804 in cui l’imperatore Napoleone Bonaparte ordinava che le tombe fossero tutte uguali ed esposte fuori le mura cittadine, in luoghi soleggiati e
arieggiati. La sepoltura all’interno delle chiese o in altri particolari ambiti
urbani era concessa solo in via eccezionale. Tale editto e le norme a esso ispirate
che lo seguirono tolsero alla Chiesa anche la gestione dei cimiteri, portarono a una
maggiore laicizzazione della morte e all’abbandono della pratica delle sepolture
nei luoghi ritenuti sacri poiché più vicini ai santi che intercedevano per la salvezza
dell’anima. Ad avviso di Marsetič l’editto
“fu il fondamento su cui si sviluppò successivamente
tutta la normativa cimiteriale del XIX secolo. La normativa disciplinò la costruzione
dei nuovi cimiteri extraurbani e le regole da rispettare, fissando norme e comportamenti
che spesso si sono mantenuti fino ad oggi. Il progresso scientifico, filosofico,
matematico e il mito della ragione, portano ad una rilettura in termini laici degli
eventi terreni ed inducono al rifiuto, alla riconsiderazione critica di ordine culturale
e religiosa, dell’antica concezione della morte, dei riti e dei culti funebri”[7].
Il
5 settembre 1806 l’editto fu esteso a tutti gli Stati italiani conquistati dai
francesi, ma per vari motivi, nel periodo in esame nei Comuni del Regno di
Napoli, la costruzione di nuovi cimiteri non avvenne o fu rallentata e la sepoltura
dei cadaveri continuò a farsi dentro le chiese. Nel 1817, una legge borbonica confermò
l’editto di Saint Cloud e obbligò le amministrazioni comunali del Regno a costruire
i cimiteri fuori le mura urbane. Diversi cimiteri di località dell’Italia Meridionale
costruiti durante la Restaurazione sono definiti napoleonici poiché s’ispirarono
a tal editto.
La politica ecclesiastica
dei napoleonidi regnicoli interessò anche altre questioni di carattere religioso,
tra cui le feste, la celebrazione del Te Deum durante particolari ricorrenze, la
vigilanza sull'insegnamento della dottrina cattolica e i provvedimenti disciplinari
a carico dei sacerdoti.
Quali giudizi trarre
dall’insieme di queste norme di carattere ecclesiastico e quali riflessi ebbero
sulla religiosità popolare, ovvero ne provocarono trasformazioni?
Su tali aspetti ci
sono pareri discordi. Le autorità civili della Restaurazione descrissero il decennio
napoleonico come un periodo storico confuso, caratterizzato da una grande anarchia
religiosa a cui si accompagnò la perdita di diversi valori cristiani. In realtà
non fu proprio così. Per certi aspetti avvenne una rottura rispetto al passato poiché
le autorità civili napoleoniche imposero la separazione tra Stato e Chiesa e la
libertà di culto che facendo riferimento a una visione di Dio e una concezione
della Chiesa di derivazione illuministica e rivoluzionaria favorirono una maggiore
laicizzazione della vita pubblica. Tuttavia è da sottolineare che queste nuove concezioni
si diffusero solo in ambiti intellettuali ristretti molto circostanziati e non raggiunsero
le masse popolari che sostanzialmente continuarono a vivere seguendo le proprie
tradizioni millenarie. Tra l’altro era pressoché impossibile che il riformismo
di un decennio potesse intaccare il sentimento religioso e il modo di percepire
e vivere la fede, con profondissime radici secolari. Di conseguenza, per vari aspetti
ci fu una continuità con il passato. A garantirla concorse anche la maggioranza
dei sacerdoti che operò nel periodo in esame. Essa si era formata prima dell’avvento
dei napoleonici e quindi la loro azione pastorale, mentalità e cultura non erano
modificabili solo con nuove leggi.
Durante il decennio la realtà esistenziale delle popolazioni meridionali non subì nessuna sostanziale modifica e di conseguenza neanche la visione del mondo che la accompagnava di cui il sentimento religioso è un aspetto. La divinità continuò a essere presentata come un ente superiore da temere e supplicare in perfetta armonia con quanto avvenuto nei secoli precedenti. Altrettanta continuità, si ebbe con le forme di controllo e di condizionamento socio-religioso con le quali si tentarono di sviluppare forme di culto a cui era connessa la legittimazione divina delle autorità civili, delle loro iniziative e riuscite campagne militari.
3.
L’opposizione civile e religiosa ai francesi.
L’occupazione francese
del 1806 non fu seguita dalla profonda reazione popolare che caratterizzò la
precedente invasione del 1799. Tuttavia durante il periodo in esame non mancarono
di manifestarsi il malcontento popolare e sacche di opposizione accompagnate anche
dalla resistenza armata. Come ha evidenziato Petrucci, nel Regno di Napoli dell’epoca
napoleonica si diffuse un malcontento popolare che non ricorreva alle armi e si
manifestava con forme di boicottaggio, opposizione silenziosa e resistenza
passiva alle direttive e norme emanate[8].
In diversi casi,
come ha rilevato Brancaccio, l’opposizione fu alimentata dal clero che aizzò vari focolai d’insurrezione nelle province del Regno [9].
In alcuni di essi verificatisi con maggior frequenza nei borghi rurali, i sacerdoti
ufficianti le funzioni religiose si rifiutarono di omaggiare con il Te Deum Napoleone, il re e a tutti coloro che li appoggiavano e sostenevano. Ad avviso di Gallo
“la scelta sostanzialmente filo-borbonica
delle masse [e] di fette consistenti del clero, stava forse a significare una sostanziale
accettazione di una dinastia che si riconosceva come nazionale, una sorta di patriottismo
da piccola nazione che si univa al senso di fedeltà dinastica”[10].
L’opposizione ai
napoleonici la manifestò anche Il cardinale
Fabrizio Ruffo, l’ex capo dell’esercito sanfedista che ritenne illegittimo il governo
di Giuseppe Bonaparte poiché non aveva ricevuto l’investitura pontificia e
scelse la via dell’esilio [11].
Un’altra opposizione per motivi religiosi si ebbe contro il matrimonio
civile e l’istituto del divorzio due aspetti molto contrastanti con le generalizzate
tradizioni religiose della popolazione dell’epoca.
A sua volta la resistenza armata antifrancese che in diversi casi fu alimentata dai Borboni rifugiatisi a Palermo e dagli inglesi, si manifestò in diverse regioni e province dell’Italia Meridionale, sopratutto Basilicata, Calabria, Principato Citra e Terra di Lavoro[12]. In particolare nel 1806 in Calabria ad accendere la rivolta concorse il sacerdote Antonio Presta che con una lettera si richiamò ai fatti della Repubblica Partenopea, diffuse uno spirito di crociata e scrisse che quella fu “epoca che tutti i nostri popolari Calabresi col segno della Croce fregiati, lo inimico ancora francese discacciassimo” [13]. A capo degli insorti anti-francesi si posero militari professionisti e personaggi considerati banditi comuni tra cui il brigante Michele Pezza, detto Fra Diavolo e il colonnello Alessandro Mandarini. Il 28 maggio 1807 nei pressi di Mileto (Provincia di Vibo Valentia) si ebbe un duro scontro frontale tra i francesi e le forze filo-borboniche che dalla battaglia uscirono sconfitte.
4.
L’ABRUZZO E LA CHIESA
DURANTE IL DECENNIO NAPOLEONICO.
L’invasione militare
francese dell’Abruzzo ebbe inizio attorno al 10 febbraio 1806. La prima città a
essere conquistata fu L’Aquila che cadde in mano all’esercito transalpino il giorno
11 febbraio 1806. Il 15 febbraio fu la
volta di Chieti e in seguito l’occupazione si estese a tutta la Regione.
L’avanzata francese
in Abruzzo assomigliò a una passeggiata militare poiché fu ostacolata solo da alcune
sacche sporadiche di resistenza di bande sanfediste al comando di De Donatiis, Piccioli,
Rodio e Sciabolone. Una resistenza più tenace, invece fu opposta dai civili e uomini
in arme che presidiavano la fortezza di Civitella del Tronto e si arresero il 21
maggio, ovvero circa quattro mesi dopo la conquista dei più importanti centri della
Regione.
Alle sporadiche sacche
di resistenza descritte, si aggiungono: 1) l’opposizione popolare che in alcuni
sfociò in varie sommosse locali; 2) quella di bande armate costituite da personaggi
definiti “briganti” ai quali fu assegnato quest’appellativo al fine di criminalizzarli e considerarli dei terroristi
che congiuravano contro lo Stato. Essi furono strumentalizzati dalla monarchia
borbonica in esilio e imperversarono nella Regione provocando vittime tra l’esercito
francese, le autorità civili e la gente comune. In realtà
le bande di briganti antifrancesi, oltre a qualche delinquente comune,
comprendevano in gran parte agricoltori a cui si aggiunsero pastori, artigiani,
esponenti della borghesia agraria, studenti, rappresentanti della nobiltà, del
clero ed altre categorie sociali. Questa composizione molto variegata rappresenta
la conferma che all’epoca il termine di brigante si era generalizzato per
indicare tutti coloro che si opponevano alle forze di occupazione e non veri e
propri delinquenti comuni. Ad avviso di Petrucci “Questa composizione eterogenea non riconducibile ai soli ceti poveri, degli insorgenti e dei briganti
porta a ridimensionare la necessità delle loro azioni criminose che sarebbero
avvenute dietro la spinta delle pessime condizioni di vita e allo scopo di
procurarsi il necessario per sopravvivere, attraverso il crimine”[14]. Ad alcune bande di briganti abruzzesi che
scatenarono sommosse popolari filo-borboniche parteciparono anche alcuni rappresentanti
del clero. Infatti, a una banda che operò nel teramano appartenne il sacerdote Don
Candido Clemente, mentre, come vedremo dopo, a una sommossa scoppiata a Città Sant’Angelo
prese parte attiva il sacerdote Don Domenico Marulli. Un altro sacerdote che fu
coinvolto in una piccola sommossa antifrancese scoppiata a Pacentro il 20 maggio
1806 fu Don Pasquale Ferri d’Introdacqua che invitò a prendere le armi ed a consegnarle
ai rivoltosi[15].
Anche in Abruzzo, l’opposizione antifrancese in
diversi casi fu orchestrata e guidata dal re in esilio e dai suoi fedeli seguaci
locali. Uno di essi fu Luigi De Riseis, un membro della nobiltà originario di Scerni
che fu definito un sollevatore di popoli a causa della sua fedeltà alla monarchia
borbonica, operò in suo favore e nel 1808 inviò al re Ferdinando in esilio un memoriale
in cui tracciava le linee di un piano d’azione per la riconquista del Regno che
coinvolgeva le masse popolari, Infatti scrisse che “I francesi di nessun’altra cosa temono tanto quanto delle ben regolate insurgenze
de’ popoli”[16]. Anche altri membri della sua famiglia furono sostenitori della monarchia
borbonica e pagarono questa scelta con l’arresto, la prigionia e anche la morte.
Infatti, Pietro De Riseis fu condannato a
morte poiché considerato autore di sommosse anti-murattiane avvenute nella Provincia
di Abruzzo Citra, mentre il nipote Panfilo fu arrestato
e condannato a un anno di carcere poiché sospettato di appartenere alla Carboneria.
Dall’inizio del decennio
al 1811, in tutto il chietino furono organizzate una ventina di azioni sovversive
antifrancesi da gruppi definiti briganti che generalmente trovavano rifugio nei
boschi e negli anfratti dei massicci montuosi. Alcuni di essi imperversarono
nella valle dell’Aventino mettendo a dura prova i governativi e provocando
disagi alla popolazione civile. Altri gruppi sovversivi furono organizzati anche
nelle altre provincie abruzzesi.
Il 19 marzo
1814, durante una riunione di un gruppo di cospiratori antifrancesi, furono decise
le modalità d’azione di un’insurrezione che doveva avvenire a Pescara e in seguito
fallì. Altri focolai di rivolta scoppiarono circa una settimana dopo in altre località
delle due provincie d’Abruzzo Citeriore e Ulteriore I. In particolare il 27 marzo
1814 a Città Sant’Angelo fu organizzata un’importante
rivolta antinapoleonica da una setta carbonara a cui aderiva il sacerdote Don Domenico Marulli. All’epoca, all’alba, mentre suonavano le campane, i rivoluzionari
anti-murattiani scesero armati per le strade del paese, disarmarono i soldati che
lo presidiavano e issarono una loro bandiera sulla torre dell’orologio. Dopo questi
iniziali successi l’attività sovversiva fu rinforzata dagli abitanti del paese che
si armarono con falci, bastoni e altro dando man forte agli insorti. La sensazione
di libertà ebbe breve durata poiché si prolungò per circa due settimane. Infatti,
il 10 aprile, giorno di Pasqua, l’esercito murattiano composto da circa 5000 uomini
marciò verso Città Sant’Angelo, riuscì a domare la rivolta popolare e fece arrestare
e fucilare tutti i suoi organizzatori. Anche Don Domenico Marulli subì la stessa
sorte dei suoi compagni d’avventura e fu fucilato. La rivolta in oggetto è considerata
una delle prime sommosse carbonare avvenute in Italia.
4.b. L’eversione della feudalità e i feudi ecclesiastici in Abruzzo.
Le riforme antifeudali
promosse dal regime napoleonico interessarono anche l’Abruzzo, una Regione che
all’epoca era periferica e di frontiera del Regno. Infatti, la legge del due agosto 1806 e l’applicazione del Real Decreto
del tre dicembre 1808 portarono anche in Abruzzo all’abolizione formale e definitiva
del feudalesimo. Tuttavia la liberazione effettiva da tutti i soprusi e angherie
baronali e l’acquisizione comunale di parte dei beni feudali, in moltissimi casi
avvenne solo dopo lunghe cause e ricorsi che gli amministratori delle Civium Universitas
regionali, ossia dei Comuni dell’epoca, sostennero presso la Commissione Feudale.
In diversi casi le controversie giudiziarie si protrassero durante la
Restaurazione Borbonica e l’Unità d’Italia. Per quanto riguarda le angherie e i
soprusi dei baroni, la cronaca ha registrato dei casi individuali che in vari
Comuni della Regione si sono manifestati anche nei primi decenni del XX secolo
e durante il ventennio fascista.
Alla ripartizione
dei beni feudali provvidero i commissari di nomina regia. Uno di essi fu Giuseppe
De Thomasis di Montenerodomo che il 22 ott. 1809 fu nominato commissario del Re
per la Divisione dei Demani delle tre province
abruzzesi. La sua attività portò a ripartire i beni feudali tra i Comuni e gli ex
baroni in quote proporzionali che tenevano conto dei diritti reciproci che ognuno
di essi dimostrò di vantare.
All’epoca
la maggior parte delle Università o Comuni abruzzesi erano infeudate, mentre un
loro numero esiguo era demaniale e dipendeva direttamente dalla corona. Anche in
Abruzzo esistevano feudatari laici ed ecclesiastici con i secondi che avevano
in dotazione vasti territori acquisiti con lasciti testamentari, donazioni per
finalità religiose e altre modalità. In particolare, ad avviso di Novi
Chavarria nelle tre provincie dell’Abruzzo Citra e Ultra alla fine del XVIII secolo
c’erano 58 feudi ecclesiastici che erano tenuti da: i vescovi di Chieti, Ortona,
Teramo e Sulmona-Valva; le abbazie e monasteri di Montecassino, Montesanto, San
Clemente a Casauria, San Giovanni di Collimento, San Giovanni di Scorzone, San Quirico
di Roma, San Francesco di Tocco, Santa Maria di Casanova, Santo Spirito del Morrone,
Santa Chiara di Sulmona, i Padri Celestini de L’Aquila, San Bartolomeo e Santa Maria
in Trigulti; l’Oratorio di San Filippo Neri di Roma; la Chiesa di Santo Spirito
di Avezzano; il Capitolo di San Pietro di Roma[17]. La popolazione
che viveva nei feudi ecclesiastici all’epoca considerata ammontava a 43671 individui,
mentre 26 di essi risultavano disabitati[18].
4.c. La riforma amministrativa del’Abruzzo.
La legge del 8 agosto
1806 ed una serie di decreti emanati successivamente portarono alla ripartizione
amministrativa della Regione nelle seguenti tre province: l’Abruzzo Ulteriore Primo
con 72 Comuni, 17 circondari e, i distretti di Teramo e Penne; l’Abruzzo Ulteriore Secondo comprendente
121 Comuni di cui 17 attualmente passati alla Provincia di Rieti e due a quella
di Pescara, 32 circondari e, i distretti dell’Aquila,
Cittaducale, Sulmona e Avezzano; l’Abruzzo Citeriore con 123 Comuni, 25 circondari
e, i distretti di Chieti, Lanciano e Vasto. Nel complesso le tre province abruzzesi
dell’epoca in considerazione erano costituite da 316 Comuni, 74 circondari e nove
distretti.
La riforma in diversi
casi portò all’aggregazione di antiche Civium Universitas pre-napoleoniche in un
unico moderno Comune. Gli esempi in tal senso sono molteplici. A solo scopo dimostrativo
si cita l’Università di Forme sita in Provincia dell’Aquila che con tale denominazione
è esistita dal 1595 al 1807, mentre nel 1811 fu annessa al Comune di Massa d’Albe
a cui tuttora appartiene[19].
Altri esempi di aggregazioni
amministrative si ebbero nella Provincia di Abruzzo Citra. Poiché in tale ambito,
agli inizi del 1806 esistevano 130 Civium Universitas e nel 1816 i Comuni erano
123, si dimostra che ci furono sette aggregazioni.
Oltre alle aggregazioni,
all’epoca si registrò anche una separazione. Infatti, nel 1807 la località di Villa Castellammare che è situata sulla sponda nord
del fiume Pescara divenne un Comune autonomo facente parte della Provincia di Abruzzo
Ulteriore I. La fortezza pescarese e i suoi dintorni, inizialmente furono aggregati
a Francavilla e nel 1811 costituirono il Comune autonomo di Pescara[20].
La creazione dei
Comuni, Distretti, Provincie, etc. anche in Abruzzo portò a un ordinamento amministrativo
uniforme che pose fine al particolarismo caratterizzante la Regione e l’intero Regno
di Napoli durante l’ancien regime.
Un’altra particolarità
amministrativa regionale fu nel 1806 la nomina a Intendente Provinciale della
Provincia d’Abruzzo Citra a un funzionario di nazionalità francese: Pierre Joseph
Briot. Pierre Briot fu una delle tre personalità transalpine che nel 1806 a cui
fu assegnata la carica d’Intendente di una Provincia del Regno.
4.d. Il clero, le diocesi, la soppressione dei monasteri e degli ordini religiosi in Abruzzo.
Il rapporto tra il
mondo ecclesiastico e i napoleonici nel territorio abruzzese è complesso e ha per
oggetto numerosi aspetti. Di conseguenza per una sua analisi più esauriente
possibile, nel presente saggio si terrà conto dei seguenti importanti fattori:
1) l’atteggiamento più o meno generalizzato del clero regionale verso i
rappresentanti centrali e periferici del governo; 2) il valore culturale e morale
che le autorità amministrative laiche locali attribuirono alla religione
cattolica durante il decennio; 3) gli effetti della politica ecclesiastica
governativa condotta nelle province abruzzesi.
Riguardo il
primo punto, come si è visto alcuni rappresentanti del mondo ecclesiastico si opposero
ai napoleonici fomentando le ribellioni e le azioni sovversive, mentre un’altra
parte più consistente li appoggiò. In linea di massima si può dire che la
chiesa abruzzese, senza rinunciare alle proprie prerogative morali e spirituali
seguì una politica di adattamento, cercando di volta in volta di conciliare le
scelte governative con i principi della fede cristiana.
Le autorità
religiose durante l’insediamento al trono di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino
Murat manifestarono ubbidienza, celebrarono nei più importanti centri d’Abruzzo
messe solenni di ringraziamento e intonarono il Te Deum. Altre messe solenni di
ringraziamento furono celebrate in occasione di riusciti successi militari
durante le campagne napoleoniche. Uno di essi è costituito dall’ingresso a
Mosca dell’esercito di Napoleone Bonaparte nel 1812. Dopo che si diffuse tale
notizia, il Ministro della Giustizia ordinò a tutti gli ordinari diocesani abruzzesi
d’intonare il Te Deum e far celebrare una messa.
Per quanto
riguarda il secondo punto, si può innanzitutto premettere che in linea con lo
Statuto del Regno e le concezioni di Napoleone Bonaparte sul valore e
importanza da attribuire alla religione cattolica, le autorità amministrative
regionali dimostrarono rispetto per essa e anche loro tentarono di asservire la
chiesa alle finalità governative. Un documento molto utile in tal senso è
costituito da una circolare dell’Intendente di Abruzzo Citeriore del 1806 che
innanzitutto imponeva ai parroci e a tutto il clero “di collaborare, consolare i cittadini, alzare la voce contro il brigantaggio
“[21]. La circolare
poi continuava facendo presente che in alcuni luoghi si erano visti preti e religiosi
“immischiarsi con i ribelli” e infine
si concludeva con il seguente accorato appello rivolto a tutti i rappresentanti
del mondo ecclesiastico: ”Parlate alle vostre popolazioni a nome di Dio, del Re,
della patria,dei loro interessi più cari; mostrate la mano della Provvidenza visibilmente
segnata in tutti questi grandi avvenimenti… Rammentate i precetti dell’Evangelo,
le voci stesse dell’Eterno, prescriventi agli uomini l’ubbidienza alle leggi ed
alle autorità, la tolleranza, la concordia e la fraternità. Con tale buona condotta
ononerete il vostro Ministero lo renderete più prezioso all’’Umanità e sarete veramente
degni della protezione dell’autorità, dell’affezione dei fedeli e grandi agli occhi
di Dio e degli uomini”[22]. In
tale documento emerge in modo molto chiaro che l’Intendente voleva utilizzare
il clero per perseguire finalità governative, lo invitava a collaborare con le
autorità civili e considerava la religione un’importante strumento ideologico
che poteva contribuire alla legittimazione divina del potere e al mantenimento
dell’ordine pubblico.
Il secondo documento utile ai nostri
fini è costituito da una lettera che 1808 le autorità civili e religiose di
Lama dei Peligni inviarono al re per chiedere il suo intervento al fine di riparare
la chiesa parrocchiale di San Nicola. In tale lettera scrissero: "E' stato ed è a cuore della M.V. l'esercizio
della religione, che deve dirsi il fondamento della società e mancando essa ne manca
un freno potentissimo per la popolazione. Quindi ad evitar tanti disordini e rovine
umiliati e supplicanti al vostro regal trono la pregano e la scongiurano dar degli
ordini più volte sollecitati per non vedersi la rovina di questa chiesa parrocchiale
" [23].
Le frasi riportate dimostrano che anche le autorità lamesi dell’epoca erano concordi
nel ritenere che la religione fosse un efficace strumento di controllo sociale utile
per garantire l'ordine costituito.
Nel 1810, ad avviso del Consigliere
d’Intendenza d’Abruzzo Citeriore, Nicola Durini c’era stata una decadenza di
costume religioso. Infatti, in suo rapporto scrisse che la religione: “Non trova nelle attuali circostanze quel
favore mediante il quale sosteneva colle feste magnifiche e clamorose e con le
influenze della tonaca e del cappuccio”[24].
Nel 1811, il parroco di Lama dei
Peligni Don Ferdinando Dè Guglielmi durante un'orazione funebre pronunciata per
la morte di un ricco possidente locale, confermò che all’epoca c’era stata una
decadenza del costume religioso e una maggiore maggiore laicizzazione della
vita pubblica, come dimostrano le seguenti frasi del suo discorso: "Ah Santa Religione hai perduto un uomo che
colla sua pietà promuoveva la tua gloria ed il tuo onore. Oh quanto era bello
il vederlo inginocchiato là in quel leggio raccolto e divoto ispirare a tutti
venerazione e rispetto per la chiesa e per la Sacra di lei liturgia. Quanto era
bello il sentirlo sgridare gli oziosi e gli sfaccendati acciocchè lasciati i
giochi ed i divertimenti corressero alla chiesa. Oh quanto erano energiche e
commoventi le di lui lagnanze nel vedere tanta irreligiosità e malcostume
andare in trionfo"[25].
Durante il periodo in considerazione il territorio
regionale era ripartito in otto circoscrizioni diocesane: Chieti-Vasto, Lanciano,
L’Aquila, Avezzano, Sulmona-Valva, Teramo, Ortona-Campli, Atri-Penne e Trivento[26]. A
tali diocesi vere e proprie vanno aggiunti i territori appartenenti a abbazie e
monasteri retti da abati con prerogative vescovili.
Per vari motivi nell’epoca
in considerazione rimasero vacanti le sedi vescovili di Sulmona-Valva dal 1799 al
1818, Lanciano dal 1807-1818
e Ortona-Campli dal 1804 al 1818.
Il decennio francese fu prodigo
d’iniziative in materia ecclesiastica che si aggiungono ai fatti citati.
Infatti, furono promulgate numerose leggi e decreti che sostanzialmente nel
loro complesso riguardarono la proprietà ecclesiastica, la condotta del clero e
i loro doveri verso lo Stato e la popolazione civile. La trattativa di tali aspetti
inizia con una lettera che il 23 agosto 1806 il Ministro del Culto scrisse all’ordinario
diocesano teatino Chieti per esprimergli la richiesta del re di non ordinare nuovi
sacerdoti al fine di non svilire la loro figura poiché se non riuscivano a ottenere
qualche carica ecclesiastica erano costretti a impegnarsi in mestieri umili.
In seguito, l'applicazione
di varie norme di legge portò alla soppressione degli ordini religiosi esistenti
in Abruzzo, alla chiusura dei loro monasteri, all’incameramento dei beni da parte
dei Comuni e altre istituzioni statali e, infine alla loro vendita che come
vedremo non fu totale. Tra essi vi fu l’ordine dei Celestini la cui sede
dell’abate generale era posta nell’Abbazia di
Santo
Spirito al Morrone sita nei pressi di Sulmona. L’ordine religioso fu fondato
da Pietro da Morrone che divenne papa con il nome di Celestino V; nel Regno di
Napoli fu soppresso nel 1807; durante la Restaurazione Borbonica non fu ricostituito
e scomparve definitivamente.
Gli ordini
religiosi all’epoca esistenti avevano monasteri e abbazie dispersi in tutto il
territorio regionale e nelle più importanti città erano presenti in maggior
numero. Una lettera inviata il 12 settembre 1809 dall’Intendente Provinciale di
Abruzzo Citra al Ministero di Finanza e Giustizia faceva presente che nel suo
territorio monasteri da sopprimere erano 29 [27]. Nelle altre due provincie si registravano
numeri più o meno simili. Tali enti ecclesiastici godevano
di un notevole patrimonio e rendite che essenzialmente erano costituite dagli
introiti derivanti da lasciti testamentari, le donazioni per motivi spirituali,
le corrisposte censuarie e l’affitto di terreni e abitazioni. Nel 1809 ad avviso di Dandolo, i monasteri maschili
abruzzesi che furono soppressi assicuravano la notevole rendita annua di
69136,62 ducati, cosi ripartita nelle tre provincie: Abruzzo Citra 25857,78
ducati (37,4%); Abruzzo Ultra I 17219,86 ducati (16,9%); Abruzzo Ultra II
3126058,68 ducati (45,2%)[28].
Le attività di
soppressione non furono facili e avvennero con una certa lentezza a causa
dell’opposizione degli enti religiosi interessati [29]. si conclusero iniziò la vendita dei loro beni che, come
detto non fu totale. Infatti, ad avviso di Villani, nel 1811 le rendite dei beni
venduti nelle tre provincie abruzzesi rappresentarono le seguenti percentuali del
loro imponibile lordo: Abruzzo Citra 1,02%, Abruzzo Ultra I 1,89%, Abruzzo Ultra
II 2,12%[30].
Questi dati dimostrano che solo una percentuale esigua dei beni ecclesiastici fu
venduta e, come successo in altre Regioni del Regno, essi furono acquisiti dalla
borghesia agraria che implementò i propri possedimenti. La parte più consistente
dei beni feudali, edifici e terre dei monasteri soppressi, invece fu incamerata
dai Comuni e altre istituzioni pubbliche. Gli esempi che seguono dimostrano
alcune acquisizioni e destinazioni che essi ebbero.
Ad avviso di Brancaccio, in Abruzzo dopo le soppressioni,
sei chiese annesse ai monasteri furono destinate a vari usi, mentre in altre sei
di esse continuarono a officiarsi le funzioni religiose[31].
Nel 1807 a L’Aquila
il Convento soppresso di Sant’Agostino fu scelto come abitazione da un Commissario
Regio. Il 16 giugno dello stesso anno, Il soppresso monastero celestiniano di Sulmona
fu destinato al Collegio Reale della provincia di Aquila, un’istituzione scolastica
fondata con l’entrata in vigore del decreto di riforma dell’istruzione superiore
voluta da Giuseppe Bonaparte. A tale nuova istituzione nel 1811 furono destinati
anche i libri delle biblioteche dei Celestini e i Riformati della città e di altri
monasteri regionali. Al fine di favorirne l’acquisizione, nel mese di settembre
del 1811 furono inviati al Rettore del Collegio, gli inventari dei libri dei monasteri
soppressi affinché scegliesse quelli che gli sembravano più utili per la biblioteca[32].
A Chieti dopo il 1808, il convento
del complesso monastico di San Domenico divenne la sede dell’Intendenza Provinciale,
mentre la chiesa fu concessa alla Confraternita del Santissimo Rosario. Nel 1809 l’analoga chiesa di San Domenico eretta a Teramo fu soppressa
e trasformata prima in stalla per cavalli e poi in caserma. Anche la chiesa
di San Matteo sita nella stessa città, dopo la soppressione fu trasformata in una
caserma. Nel 1809 il Convento dei frati Agostiniani di Penne fu soppresso e abbandonato.
A Castel di Sangro il monastero soppresso dei domenicani fu utilizzato come caserma,
per ospitare una scuola pubblica, vari uffici amministrativi comunali e giudiziari.
A Lanciano il Tribunale
fu sistemato nei locali del vecchio seminario[33]. A Pescara
il monastero degli agostiniani dopo la soppressione fu adibito a ufficio della dogana.
Ad Avezzano il 10 giugno 1811 la gendarmeria e la cancelleria del tribunale furono
collocate nel monastero soppresso di San Francesco. Nel 1811 nell'ex-monastero,
attiguo alla chiesa teramana di San Matteo furono aperte le scuole secondarie. Il
22 ottobre 1812 il sindaco di Lama dei Peligni, in risposta ad una lettera dell'Intendente
di Chieti in cui chiedeva di precisare l'uso a cui fu destinato il soppresso monastero
dei Celestini, fece presente quanto segue: "In risposta alla V.stra stimatissima del 17 corrente mese n=4857 sono a
dirvi che il Monistero degli ex Celestini che è situato in questo Comune non è molto
grande. Giusto un tiro di fucile distante dall'abitato ed è quasi cadente. In esso
Monistero ci è una chiesa che da S.E. il Ministro dell'Interno fu ceduta a questo
Comune, ed è aperta al culto divino. In terranei contigui alla d. Chiesa sarebbe
necessario un accomodo, un altro per conservarci parati, attenenti alla d. chiesa,
ed altro per formarvi un Campo Santo, giacché l'unica chiesa parrocchiale che vi
è, è piena di Sepolture e piena di Morti che non hanno dove allocarsi. Il restante
del Monistero sig. Intendente sarebbe necessario a questo Comune ad una caserma
di alloggio, tantoppiù che è in progetto la nuova strada rotabile, la quale transiterà
a questo Comune secondo la Pianta rimessa dall'ingegner Forti a S.E. il Ministro,
e questa Comune non ha luogo dove alloggiare le truppe che passano essendo il Comune
sfornito di abitazioni sufficienti agl'istessi abitanti"[34].
Un altro
particolare effetto delle soppressioni monastiche fu l’allargamento delle
circoscrizioni diocesane. Diversi abati di monasteri abruzzesi avevano
prerogative vescovili sulle chiese e monasteri soggetti alla loro
giurisdizione. Dopo le soppressioni le prerogative degli abati e i territori di
alcuni loro enti religiosi furono acquisite dai vescovi delle varie diocesi
regionali..
Un importante esempio in tal senso è costituito da diversi feudi appartenenti
all’abbazia soppressa di Santo Spirito al Morrone
(tra essi Pratola Peligna e
San
Benedetto in Perillis) che nel 1818 furono assegnati alla diocesi di Sulmona-Valva.
Per quanto riguarda
i sepolcri extra-urbani, dalla bibliografia e documenti consultati è emerso che
durante il decennio napoleonico in Abruzzo, nonostante l’editto di Saint Cloud non
ne furono fondati e quindi continuò l’antica pratica delle sepolture nei luoghi
sacri, ossia chiese e monasteri. Queste pratiche funerarie portarono al congestionamento
dei cimiteri e una testimonianza in tal senso la dimostra la seguente lettera inviata
nel 1817 dal locale arciprete al Sindaco di Lama dei Peligni: "Mi veggo nella massima necessità di supplicarvi
come nella chiesa parrocchiale di San Nicola non ci si può non dire funzionare ma
neppure entrare tanto è il puzzore che si sente, proveniente dal Cimitero che è
pieno di cadaveri e ribocca dalle altre sepolture di particolari cittadini. La partecipo
a ciò acciocchè vi compiacciate tanto di eseguire e con la solita stima vi saluto.
Pietro Cianfarra arciprete "[35].
4.e. L’istruzione in Abruzzo durante il decennio napoleonico.
Un altro importante
provvedimento del periodo in esame che interessò anche le tre provincie abruzzesi
dell’epoca fu la riforma dell’istruzione scolastica.
All’inizio del decennio,
l’Abruzzo era caratterizzato da un elevato tasso di analfabetismo, esistevano pochissime
scuole regie di base, in altrettante in poche Università (Comuni) erano aperte delle
scuole pubbliche con maestri stipendiati dalle amministrazioni locali e l’istruzione
sia elementare che superiore era generalmente affidata a personale ed enti ecclesiastici.
Le leggi napoleoniche crearono le premesse per un deciso cambiamento di rotta che
mirava a favorire l’istruzione pubblica statale e ad accrescere il tasso di alfabetizzazione
della popolazione anche di quella appartenente a classi sociali allora escluse
dall’istruzione primaria.
Dall’analisi dei
documenti citati è emerso che la realizzazione di questi buoni propositi anche in
Abruzzo incontrò diverse difficoltà e problemi organizzativi. Il primo fu rappresentato
dalla generale mancanza d’insegnanti laici. Di conseguenza, come visto in tutto
il Regno, per aprire le scuole pubbliche comunali e statali fu necessario ricorrere
al personale ecclesiastico che oltre ad essere istruito, in generale vantava il
possesso di capacita didattiche. Il secondo problema da affrontare fu il reperimento
dei locali in cui svolgere l’attività didattica, mentre il terzo fu di convincere
tutte le famiglie a mandare i propri figli a scuola. Tenuto conto di questi fatti
d’ordine generale, passiamo ora ad analizzare alcuni di essi riguardanti la realtà
regionale.
Nonostante la laicità
di principio accordata all’istruzione dai napoleonici, nelle tre provincie
regionali non si riuscì a fare a meno dell’apporto ecclesiastico nell’insegnamento
e organizzazione scolastica. Infatti, molti insegnanti furono reperiti tra il
personale ecclesiastico e addirittura nel 1807 l’Intendente Provinciale d’Abruzzo
Citeriore Pierre Briot inviò una lettera a ogni Comune di sua competenza ordinando
che la scelta dei maestri e delle maestre doveva avvenire in accordo con il capo
religioso del luogo o altri sacerdoti.
Nel 1806 a
Teramo il vescovo fece presente che nella sua città non fu trovata nessuna
maestra per le scuole femminili e quindi propose di scegliere le “Maestre Pie”
tra le religiose”[36].
Inoltre fece presente che nel seminario fece aprire 4 scuole di cui una “dei primi rudimenta”[37].
Nel 1807 a Sulmona
fu aperta una scuola di disegno «per la figura e per l'architettura» che fu
frequentata da 46 allievi e finanziata con contributi dei luoghi pii, delle parrocchie
e dei conventi[38].
A Castel di Sangro a causa di difficoltà economiche e organizzative non fu possibile
dare immediata esecuzione a quanto previsto dalle norme di legge in materia d’istruzione
scolastica; una maestra scelta dal Decurionato, nel 1808 non svolgeva il suo incarico,
mentre la scuola primaria femminile fu attivata solo nel 1812[39]. A Celenza
sul Trigno nel 1808 il maestro non aveva alunni[40]. Anche
a Guardiagrele nello stesso anno non erano state aperte scuole e fu chiesto al sindaco
di rivolgersi al parroco affinchè invitasse i genitori a mandare a scuola i propri
figli[41].
Nel 1808 a
Scanno erano aperte una classe maschile affidata all’arciprete del luogo ed una
femminile affidata a una maestra. Nel 1808 la prima era frequentata da 42
alunni e la seconda da 52 bambine[42]. A
Lama dei Peligni nel 1810 era aperta una classe maschile tenuta da un sacerdote
e una classe femminile tenuta da una maestra laica. Essi erano pagati con le
rendite che assicurava il monastero dei celestini che fu soppresso e acquisito
dal Comune. Nello stesso anno nel distretto di Lanciano, le scuole primarie
erano maggiormente frequentate durante la stagione invernale, come dimostra il seguente
scritto di Nicola, Durini Consigliere d’Intendenza d’Abruzzo Citeriore: “I maestri di scuola stabiliti in ogni Comune
contano nell’inverno dei scolari che la bella stagione chiamando all’ovile e al
bosco toglie all’educazione e alla coltura”[43].
Nel 1811 a
Teramo fu istituito il Real Collegio nell'ex-monastero benedettino di San Matteo.
In una lettera
inviata all’Intendente di Chieti nel 1816, il Sindaco di Lettopalena, a
conferma di altre sue comunicazioni precedenti, fece presente che nel suo
Comune, le scuole non furono aperte “per
le circostanze dè padri di famiglia che han dovuto portare seco i loro figli a
travagliare nello stato romano per iniziare arte”[44]
Nella Provincia di
Abruzzo Ultra II nel 1810 esistevano 149 scuole maschili. Poiché all’epoca le località
erano 233, ne segue che solo nel 64% di esse esisteva una scuola[45]. Inoltre
in tale Provincia nel periodo 1807-1810 solo 20 località su 63 avevano una scuola
femminile e all’insegnamento maschile provvedevano 37 maestri reclutati tra il clero[46].
A commento di
tutti i dati riportati si fa presente quanto segue: 1) la pubblica istruzione
continuò a essere legata al personale ecclesiastico; 2) nell’epoca considerata l’impostazione
completamente laica del modello scolastico restava un principio inattuato e
inattuabile; 3) il divario numerico esistente tra le classi maschili e femminili
era sostanzialmente dovuto alle difficoltà di reperire le maestre e al fatto che
molte famiglie non mandavano le figlie femmine a scuola poiché le utilizzavano
per le attività domestiche.
Nonostante queste
difficoltà oggettive la politica scolastica dei napoleonidi nel suo complesso ebbe
notevoli effetti positivi poiché impose l’obbligo della frequenza scolastica ai
ragazzi di tutte le classi sociali che ebbero maggiori scambi e rapporti
reciproci, favorì l’apertura di nuove sedi scolastiche e l’istruzione pubblica.
Alla fine del decennio oltre il 90% dei Comuni delle Provincie di Abruzzo Ulteriore I e II aveva aperto una scuola maschile, mentre nella Provincia di Abruzzo Citeriore questa percentuale scendeva al 63%[47]. Le nuove sedi scolastiche furono frequentate da pochi alunni e in Regione il tasso di analfabetismo pur registrando una lieve flessione rimase ancora molto alto. La sua discesa iniziò negli ultimi decenni del XIX secolo Nei primi decenni del secolo successivo iniziò a scendere più sensibilmente, proseguì in modo più deciso durante il ventennio fascista e dopo qualche decennio dalla conclusione del II conflitto mondiale si annullò completamente. Dopo gli anni 60 del secolo scorso, gli individui non alfabetizzati ancora viventi, erano quelli nati tra la fine XIX secolo e il ventennio fascista che per vari motivi oggettivi e famigliari non ebbero accesso alle istituzioni scolastiche.
5.
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[1]
Tanturri,
A., La pubblica istruzione a
Sulmona in età moderna, pag. 236.
[2] Il Tribunale Misto era un organo
giudiziario che fu istituito nel 1741 n
esecuzione del concordato tra la Santa Sede e il Regno di Napoli. Esso composto
da tre ecclesiastici (di cui due di nomina papale) e due laici che restavano in
carica per tre anni. Alcuni suoi compiti erano: il controllo dell'amministrazione
degli ospedali, confraternite e altri luoghi pii laicali; dirimere annose controversie
giuridiche e vertenze di carattere ecclesiastico; decidere quali cause erano di
competenza vescovile, in materia d’immunità
locale e sulle pretese di franchigie degli ecclesiastici.
[3]
Canosa
R., Storia dell’Abruzzo nel decennio francese, pag. 158.
[4]
De Rosa G., La parrocchia nell'età
contemporanea,
Orientamenti Sociali n. 2, pag. 11.
[5]
TANTURRI A., Il sacro fuoco della ragione. La scuola in Abruzzo
Ultra II durante il Decennio francese, pag.
[6]
I predicatori quaresimali erano
sacerdoti che durante il periodo quaresimale erano invitati a fare prediche in
chiesa per preparare i fedeli alla Pasqua.
[7]
Marsetič R., Il cimitero civico di Monte Ghiro a Pola. Simbolo dell’identità cittadina
e luogo di memoria (1846-1947), pag. 12.
[9]
Brancaccio
G., Le soppressioni monastiche, in Gli Abruzzi
nella storia del Mezzogiorno Moderno, pag. 362.
[10]
GALLO F. F.,
Dai gigli alle coccarde. Il conflitto politico
in Abruzzo (1770-1815), pag. 13.
[11]
Menozzi
D., I Vescovi dalla Rivoluzione all’Unità
tra impegno politico e preoccupazioni sociali, pag.144.
[12]
Il Principato
Citra è un ambito territoriale coincidente grosso modo con l’attuale Provincia di
Salerno. A sua volta la Terra di Lavoro è un ambito storico-geografico
dell'Italia Meridionale che comprende aree attualmente assegnate alla Campania,
il Lazio e il Molise.
[13]
MOZZILLO A., Cronache della Calabria in guerra 1806-1811,
pag. 240.
[14]
Petrucci S., op. cit., pagg. 268-269.
[15]
Canosa
R., op.
cit., pag. 17.
[16]
GALLO F. F., op. cit. pagg.88-89.
[17]
Novi Chavarria E., I feudi ecclesiastici
nel Regno di Napoli: spazi, confini e dimensioni (secoli XV-XVIII), pagg. 369-371.
L’elenco riportato comprende anche i possedimenti ecclesiastici di località che
all’epoca appartenevano alle due province abruzzesi e ora fanno parte della
Regione Lazio.
[18]
Novi
Chavarria E., op. cit.
pagg. 369-371.
[19]
SCIARRETTA A., Geo-storia amministrativa
d'Abruzzo Provincia di Abruzzo Ulteriore II o dell'Aquila.
[20]
Questa separazione è persistita
sino al 1927 quando i due Comuni furono di nuovo aggregati e fu istituita la Provincia
di Pescara.
[21] Canosa R., op. cit., pag. 47.
[22]
Canosa R., op. cit., pag.47-48.
[23] Archivio di Stato di Chieti, Affari Comunali di Lama dei Peligni 1806-1815, busta n. 584.
[24]
VIGGIANI C., L’Abruzzo
Citeriore nel rapporto del 14 giugno1810 del Consiglio d’Intendenza Giuseppe
Nicola Durini, pag. 153.
[25]De Guglielmi F.,
Necrologio di Luigi Madonna di Lama, 29 novembre
1811, manoscritto conservato presso la Biblioteca A. De Meis di Chieti.
[26] La sede della diocesi di Trivento
pur essendo in Molise comprendeva all’epoca e comprende tuttora Comuni abruzzesi
che appartengono alle Province di Chieti e dell’Aquila.
[27]
BRANCACCIO
G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
Moderno, pag. 368.
[28]
DANDOLO F.,
L’incameramento dei patrimoni monastici in
Puglia agli inizi dell’Ottocento, pag. 96.
[29]
BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno Moderno,
op. cit., pag. 370.
[30]
VILLANI P., La vendita dei beni nazionali: una rivoluzione
fondiaria?, pagg. 68-69
[31]
BRANCACCIO
G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
Moderno, op. cit. pag. 372.
[32]
Zazo,
A., L'istruzione
pubblica e privata nel Napoletano, 1767-1860, pag. 98.
[33]
BRANCACCIO G., Le città abruzzesi nell’età napoleonica: Lanciano,
in Nelle province dell’Impero, pag. 336.
[34]Archivio di Stato di Chieti, Intendenza,
soppressione di monasteri, successione di carte relativa a singoli conventi, busta
3, fasc. 54.
[35]
Archivio di Stato di
Chieti, Affari Comunali di Lama dei
Peligni 1806-1815, busta 585.
[36]
BORGHESE A. Scuola e cultura nell’Abruzzo teramano
durante il decennio francese, pag. 217.
[37]
BORGHESE A., op. cit. pag.
217.
[38]
Tanturri,
A., La pubblica istruzione a
Sulmona in età moderna, pag, 236.
[39]
Tanturri
A., La
pubblica istruzione in Abruzzo tra Sette e Ottocento: Il caso di Castel di Sangro,
pag. 36.
[40] CANOSA R., op. cit., pag., 94.
[41] CANOSA R., op. cit., pag., 95.
[42]
Tanturri
A., La pubblica
istruzione a Scanno fra Sette e Ottocento, pagg.
103-104.
[43]
VIGGIANI C., op. cit., pag. 153.
[44]
VITTORIA G. A., Lettopalena “Universitas“ e borgo autentico,
pag. 133.
[45]
TANTURRI A., Maestri
ed alunni in Abruzzo tra Cinque e Ottocento, pag.140. Chieti, Tinari, 2008.
[46]
TANTURRI A., Il sacro fuoco della ragione. La scuola in Abruzzo
Ultra II durante il Decennio francese, op. cit., pagg. 674-675.
[47]
TANTURRI, L’arcano amore della sapienza. Il sistema
scolastico del Mezzogiorno dal Decennio alle soglie dell’Unità nazionale
(1806-1861), pagg. 18-20.
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