VIAGGIO NELLA “CHRONOLOGIA
URBIS ANXIANI” DI GIACOMO FELLA
di Angelo Iocco
Spesso citata da tutti gli storici di Lanciano, poco letta e studiata realmente, questa opera manoscritta si conserva ancora oggi nella biblioteca comunale di Lanciano, sezione “manoscritti”. Giacomo Fella, nato nella metà del ‘500, morto nel 1633 circa, fu sindaco, magistrato e gentiluomo di Lanciano, visse nel palazzo di famiglia nel rione Lancianovecchia, in via dei Frentani, dove una targa ancora lo ricorda. Scrisse Diui Thomae apostoli vita a doctore physico Iacobo Fella Anxianensi decurione, hexametris versibus condita, & Ortonensibus Sacro Corpore tutelaris tanti conspicuis nuncupata
Anxiani : Apud Marcum Antonium Facium, 1609, ossia una monografia sulla vita di San Tommaso apostolo.
Vita del glorioso san Biagio martire, e vescouo di Sebaste. In versi sciolti composta dal sig. Giacomo Fella da Lanciano ... Con vna Apologia in cui si defende esseruisi ragioneuolmente indotto Pan dio de i pastori con la sampogna d'otto canne intessuta ...
In Venetia : presso Gio. Battista
Bonfadino, 1610
In regiae et fidelissimae vrbis anxani insignia doctoris physici Iacobi Fellae praeludium ...
In Venetia : appresso Gio. Battista
Ciotti Senese, 1606
Ossia una memoria storica
sull’origine dello stemma civico di Lanciano, sul perché dei gigli angioini e
sul perché della lancia. Ma l’opera più ricca resta la monografia manoscritta
della Chronologia Urbis Anxani, di cui hanno supposto molti, sia una copia
quella giunta a noi, o se non una copia, una versione interpolata con diverse
aggiunte posticce, come vedremo appresso. Di Fella, l’unico ad essersi in parte
occupato con rigore critico circa il suo scritto, fu Corrado Marciani.
Nella copia settecentesca in possesso di Corrado Marciani, mancano i capitoli 3, 4, e poi i capp. 7-8, dal cap. 3 si passa direttamente al cap. 5, ossia il n. 3 della copia settecentesca.
Nella prefazione il
Fella dà sfoggio di erudizione tardocinquecentesca, con diverse citazioni da
Valerio Massimo e dalla sua opera, circa gli esempi di virtù, e sulla necessità
di tramandare i fatti e memorabili della comunità ai posteri; altre citazioni
sulla buona costumanza degli uomini dotti e virtuosi sono tratte dalla
“Repubblica” di Platone, e diversi altri autori di cui parleremo, consultati
dal Fella. La sua intenzione, come ha scritto anche Cristina Ciccarelli nel suo
studio sulle storie e memorie Abruzzesi in età moderna, era quella di mostrare
il tipico uomo del tardo Rinascimento: colto, dedito al culto delle patrie
memorie, a saper ben destreggiarsi tra citazioni e passi dotti da inserire a
proposito nel discorso, e nella prefazione abbondano, da Pitagora a Ovidio, da
Cicerone e alla gloria della Patria, da lui patrocinata nel brano del “Somnium
Scipionis”.
Nel primo capitolo: “De vita primorum hominorum et Civitatis primordiis” abbiamo l’esempio di “storia generale dell’uomo” di cui ha scritto anche la Ciccarelli; era usanza allora quella di partire dalle origini, quasi sempre sulla scorta di citazioni Bibliche, su come nacque e si incivilì. Per la storia di Lanciano questo capitolo non ha nulla di interessante, se non la solita sfilza di abbondanti citazioni dotte dal “De lingua” di Varrone, dalla “Politica” di Aristotele circa il buon governo e la storia delle oligarchie, democrazie, tirannidi, imperi, a seguire circa le guerre della storia dell’Uomo, varie sono le citazioni da Stazio, Seneca, Tacito, Plutarco, , Catone, Boemo ecc.. Per Plutarco i primi uomini sarebbero nati dalle querce, altri vivevano nelle grotte dei monti, , a seguire ci fu la nascita della tecnica e dell’architettura per costruire città, a seguire colla cultura vennero le religioni, i ulti, le tradizioni, le arti, e dato che nella società occorreva una buona amministrazione, fu inventato il governo, o meglio i vari tipi di governo…in sostanza nulla di interessante con Lanciano.
Nel secondo capitolo
“De virtu primorum hominum” continua la sequela di citazioni dotte da questi
autori: Virgilio, “Eneide”, lib.3, “Georgiche”, lib. 1, “Eneide”, lib. 8,
Ovodio, “Metamorfosi” lib. 1, “Fasti”, lib. 4, “Metam.”, lib. 15, Seneca,
Tibullo lib. 2, egloga 1, Catullo, Lib. 5, una Vita di san Biagio, Claudio,
“Init.”, 1, Matteo Francesco Fiorentino, epistola a Lanciano, Toquato Tasso,
“Aminta”, Francesco Sansovino e Aloysio Pallum. Si parla sempre dell’erudizione
dell’uomo e nsui primi metodi di alimentazione, ed è una continuazione del
primo capitolo.
Nel cap. 3 “De Samnitum
fortitudine et opibus” si fa riferimento al valore guerresco degli antichi
Sanniti, sul loro vestiario di guerra con scudi dorati e pennacchi, con il loro
urlare spaventavano l’esercito romano, nella guerra contro i Galli, al servizio
di Roma, condussero 70mila fanti, ed erano i Marsi, i Marrucini, Frentani e
Vestini, e conquistarono 200mila libbre d’oro e altro, con cui ornarono i
palazzi di Roma; a seguire Fella parla della presenza di Annibale nel Sannio
dove fu bene accolto, dell’umiliazione delle Forche Caudine, delle guerre
contro Lucio Silla, con abbondanza di citazioni da Ennio,, Valerio Massimo,
Erennio Ponto. Nel capitolo “De Samnii finibus, multiplici nomenclatura, et
etymologia et origine”, si parla dei confini corografici del Sannio attraverso
l’Adriatico, gli Appennini, basandosi su quanto già scritto dai cartografi
antichi quali Plinio, Claudio Tolomeo, Livio, e si fa una trattazione del
termine “Aprutio” come nome della regione, citando a sua ragione la tesi di
Flavio Biondo nell’Italia illustrata,
Nel capitolo “De Frentanorum terminis, nomenclatura et origine”, si continua la trattazione del capitolo precedente: la divisione del Sannio in 8 porzioni, come riportato da Tito Livio nei libri 32-37, i Pretuziani, Pennesi, Peligni, Marrucini, Marsi, Frentani, Vestini, Carricini, Sabini ecc., Fella discorre del termine “Frentano” derivante dal fiume Fortore tra Molise e Puglia, discute delle probabili popolazioni che abitarono l’Abruzzo prima dei Sanniti, ossia i Liburni; sempre nel parlare del termine “Aprutio”, accoglie la teoria del Biondo circa “l’asperità” del territorio e la ricca presenza di cinghiali, e rigetta le teorie di Giovanni Boemondo, poi Fella passa in rassegna i fiumi della Frentania: il Sangro, l’Aventino, il Feltrino, chiama a testimonianza per le origini antiche dei Frentani, gli scrittori Plinio, Cicerone, Mazzaelli, Giovanbattista Carafa colla sua Descrizione del Regno di Napoli, riportando quanto detto, mentre Fella scriveva, Francesco Brunetti di Campli nel suo “Sacra ac profana Aprutii Monumenta”. Anxanum ossia Lanciano è citata come capitale dei Frentani, e lodata per la sua opulenza, floridezza delle arti e dei costumi in epoca romana, anche se molte città frentane hanno dato alla storia uomini illustri, e Lanciano no.
Nel capitolo sesto: “De multiplici Anxani urbis nomine, etymologia et origine”, Fella passa in rassegna gli antichi scrittori che menzionarono Lanciano, e sempre il Plinio, Claudio Tolomeo, Strabone, frate Filippo Ferrari Alessandrino, Abraham Ostelio, e passa in rassegna le errate citazioni di “Anxanum – Anxa – Ansano”, e infine ragione sulla corruzione del nome latino in quello attuale: da “Anxanum > Ansanum > Anxani > L’ancianum > Lanxiano > Lanzano > Lanciano”. In antico era citata come Anxanum o Anxa, o “Anzano” in uno scritto di Geronimo Cintano vescovo, nel nome corretto latino da Benedetto Calarella, “Lanxanum” invece da Mario Nigro veneziano, citato più volte anche dagli storici Pietro Polidori e Anton Ludovico Antinori.
A seguire, Fella
menziona l’unico monumento che riuscì a rinvenire, attestante l’antichità di
Anxanum in epoca romana, cioè la lapide dei Decurioni che ai suoi tempi era
murata sulla destra nel porticato della facciata della chiesa di Maria
Santissima del Ponte in piazza. Tale lapide era incastonata in un’altra pietra
maggiore, rettangolare, con caratteri latini, che attestavano così:
HOC VERSIS
INSUSCIPIENDOS CURAVIT / VIVUNT MORTE FUSUS QUI PLEBE INCEBAT / HIC MINOR
IGNARA DE PIETATE VIRUM / CIVIS OLIVERUS VATES INVENIT AB ANNIS / MILLE DEI
CENTUM VIGINTA QUINQUE DIE QUOQUE BIS / NESCIT HUNC CIVIS QUI REUS EX URBE
TANTEM / TRANSTULIT AD TESTE PARVA SACELLA DICANS / ALPHONSUS BELMONTIS INQUIT
UNDE REPONE / PATER QUEM GENUIT REGIA MIHI PARTHENOPE / HIC ROMANA VIROS ET
NOMEN CONTINET URBIS / ANXIANI PARVO NOMINE QUOD PERSIT / CUR FIT FAMA RECENS
VILGI SED PRISCA RENOVAT / VIRGINIS TEMPLIS AEDIFICATA LEGE
Questo il testo della
lapide fatta costruire dal governatore Alfonso Belmonte, dopo che il poeta
locale Oliviero Lancianese nel 1520 rinvenne, dice Fella, la lapide nella
contrada del Castellaro o Santa Giusta, dove lo stesso Pollidori e Domenico
Romanelli secoli più avanti, sostennero di aver trovato diversi ruderi di
costruzioni, ipotizzando addirittura fino a quella piccola contrada sperduta
dal centro antico, un’appendice dell’antica Anxanum. La lapide fu dunque murata
nel portico della Cattedrale, integriamo noi, poi dopo il rifacimento della
facciata nel 1819, murata presso la Torre campanaria fino al 1944, quando il
bombardamento del 20 aprile in Piazza la ridusse in frantumi, i quali furono
recuperati e maldestramente rimontati per essere incollati nel corridoio della
scalinata del palazzo comunale. La lapide antica riporta dunque, con gloria di
Fella, il quale la usa come testimonianza del governo al tempo di Augusto,
l’elenco dei decurioni di Anxanum, tra cui Ennio, Iucundus, Discolius e figli,
Felice, Leo, Salvatore, Proculo, Saturnino ecc. il Bocache nei primi 2 volumi
dei suoi Manoscritti di Lanciano ne fa amplia, e anche ampollosa trattazione,
citando a suo vantaggio diverse memorie di epigrafisi del Regno di Napoli, per
far combaciare “forzatamente” quelle trattazioni, alle sue argomentazioni come
fondamento inoppugnabile del suo grande “progetto-castello” di falsità circa le
glorie antiche e i Monumenti lapidei dell’antica Anxanum.
A seguir, il Fella
descrive le origini comuni di Lanciano con Sulmona, l’una fondata dal fratello,
e l’altra da Anxa compagno d’armi di Enea nella guerra di Troia, peregrini per
l’antica Esperia, fondando diverse città. Fella passa a trattare le vicende dei
bassi tempi di Lanciano, che fu occupata dai Longobardi, distrutta quasi
totalmente da Pipino il Breve, precisamente nel luogo chiamato Lancianovecchio,
e a valore della sua tesi, cita Trogo e Giustino, avvalorando ulteriormente una
tesi, evidentemente già a lui nota, di un grave cataclisma naturale che avrebbe
ingoiato quasi tutta la città, creando la forra che separa il Colle Erminio dal
rione Olmo di Riccio. A tale causa, come attestavano anche Pollidori e Bocache,
risulterebbe difficile trovare prove dell’esistenza materiale dell’antica
Anxanum, per la scomparsa della città in seguito alla frana del colle…eppure
Bocache e Pollidori ne trovarono di testimonianza…praticamente sotto ogni
tegola che cadeva sotto i loro piedi dai vichi di Lanciano!!
Nella trattazione del
capitolo, Fella menziona lo stemma di Lanciano dotato di gigli angioini e di
una lancia, anche se non menziona la fantasiosa leggenda della Lancia del
soldato Longino, la cui paternità fu del falsario Alfonso Ceccarelli, che
scrisse dei trattatelli su Chieti, Penne e Lanciano. Sulla scorta delle testimonianze
di Flavio Biondo e Leandro Alberti, Fella ricorda l’importanza delle Fiere che
fecero la fortuna di Lanciano.
Nel capitolo “De prisco
urbium condendarum”, Fella ricorda come anticamente si fondava una città,
tracciando il solco del perimetro sul terreno, con un bove maschio e una vacca
femmina a mo’ degli antichi. Nulla di interessante circa la storia di Lanciano.
Nel successivo “De
prisco earumdem urbium evertendarum more”, c’è la continuazione nella
trattazione del precedente, le invocazioni alle divinità, si spandeva il sale,
si menzionano celebri città distrutte per la loro lussuria come Troia e
Gerusalemme, si ricordano altre città celebri distrutte citando passi Biblici,
in sostanza il capitolo è un altro esempio di erudizione “di provincia”, completamente
svincolato dal filo conduttore di questa trattazione.
Veniamo al capitolo
nono “De Anxani situ”, dove si riprende la diceria della distruzione
dell’antica città per terremoti, cataclismi e invasioni. Un accostamento,
quello del Fella, a diversi altre leggende che vogliono una città antica
distrutta da frane o addirittura, come riporta Verlengia in alcuni scritti, da
invasioni di insetti, formiche e lombrichi. Benché la morte precoce o “aborto”
di alcuni castelli, anche abruzzesi, a causa di pestilenze, luoghi aspri e
difficilmente abitabili, sia da discriminare da altre situazioni accadute
migliaia di anni fa, come nel caso di Lanciano, si può allo stato delle cose,
soltanto opinare che Lanciano fosse stata, come la vicina Ortona romana,
distrutta da qualche frana; ma certamente dato il suolo di arenaria sopra cui
sorge, il materiale antico servì da base per nuove costruzioni medievali. E
basta vedere la triplice stratificazione dello scavo-percorso archeologico che
corre sotto la Piazza del Plebiscito, in cui le mura e le case furono spianate
per nuove edificazioni e sostruzioni. Ortona anche nel XVI secolo fu soggetta a
frane, la “Pizzuta” del colle del castello aragonese si ridusse nei secoli,
sino al 1946 quando ingoiò parte della fortezza, e nel 1550 una parte
dell’Orientale franò a mare. Forse sulla scorta di questi cataclismi, recenti
al tempo di Fella, lo storico dovette immaginare che l’antica Anxanum fu
inghiottita da una grande frana? Comunque sia, la città fu riedificata coi
Longobardi rifortificatasi in un colle ben elevato, ossia il colle di
Lancianovecchia; la città ha 3 colli, quello di Lancianovecchia detto
“Herminio”, e Fella ipotizza che il termine debba derivare da un luogotenente
longobardo che risiedeva presso il Dongione, citando l’ipotesi dell’Ostelio;
altri rioni era la Civita nova, Sacca e Borgo. Sulla Sacca, il Fella fa varie
ipotesi sull’etimologia, quelle ancora oggi si sentono dire su Lanciano, cioè
il colle “sacchus” dove si pagava il dazio, dove vivevano gli ebrei, oppure
perché era un colle che si restringe alla fine.
Il capitolo si chiude
con una breve corografia del territorio lancianese, sui buoni prodotti agricoli
dell’olio e del frumento. La città ha 300 pozzi e cisterne, una grande cisterna
presso Sant’Agostino, un’altra presso San Legonziano; poi cita l’acquedotto di
Fonte Marcianese, ma non riporta la famosa “fonte di Longino”, di cui dettero
sfoggio Pollidori e Romanelli, si citano i fiumiciattoli Arno, Vallecupa,
Girolo, Petroso, Feltrino, che attraversano anche la città. Poi si citano le
arti, i sarti, i fabbricatori di aghi, scarpari, pellai, lanari, funai; si
menziona la guarnigione di 400 virtuosi lancianesi, che presidiò la città
durante l’invasione del Conte di Lautrech nel 1528. Fella menziona il portico delle
Fiere eretto nel 1508, e da’ alcune notizie generali sul governo diocesano,
sulle rendite dei preti ecc. Nel capitolo “De honorum distributione”, Fella
tocca un argomento a lui molto caro, essendo stato magistrato e sindaco.
Ogni quartiere ha un
eguale numero di decurioni, Lancianovecchio ha 30 decurioni, e il diritto del
Magistrato, che dopo un tot di mesi passava al Borgo e agli altri rioni,
eccettuata la Sacca, forse perché rione troppo piccolo. Nel 1515 re Ferdinando
ordinò che i senatori fossero 72 scelti con assenso regio; con il legato
Antonio Bardario, la politica spagnola interferì sempre di più negli affari
politici di Lanciano, tanto che questa ripartizione in 72 gentiluomini tra
patrizi e plebei dei rioni lancianesi, cessò nel 1564, quando dei tribuni della
plebe si rivoltarono contro i patrizi per la loro lussuria, e poiché questi
impedivano loro di partecipare alle riunioni nel chiostro di San Francesco. Tra
i vari procuratori della Plebe, Fella ricorda Pietro Florio, Alessandro Roscio,
Donato Arcangelo, Antonio Salvatore Alonso Mellado spagnolo Camillo Scrocco, i
quali ricorsero al tribunale di Napoli accusano i patrizi di ostruzionismo, di
peculato contro l’erario, di aver imposto dazi sulla gabella della farina. Nel
1562 Antonio Piscicelli regio legato aprutino, venne in città per costringere
la cittadinanza a pagare le tasse regie. La città si ribella, il viceré manda
il fedelissimo Gaspare Panciro, il quale trova la città indebitata per 22.700
ducati, che Piscicelli era creditore per 3.650 ducati, e che aveva acquistato
da essa i feudi di San Vito e Sant’Apollinare. E riscontrò altri debiti, che
Lanciano riscuoteva 5.472 ducati, che i magistrati si eleggevano dalle centurie
ogni semestre, nel 1558 ciò fu contestato quando si normalizzò il numero degli
eletti a 72; e i signori si lamentarono presso il Preside della Provincia
affinché questa costumanza, osservando anche gli Statuti civici di Lanciano,
fosse concessa solamente loro, senza interferenze. Tutte queste caratteristiche
non sono menzionate nella copia settecentesca del manoscritto di Fella, e si
arriva direttamente al concordato in 16 punti:
abolire la corruzione,
abolire le sovrimposte sulla farina e sul vino, assegnare ai creditori le
entrate della città per abolire i debiti, aggiungere 48 senatori per un totale
di 120 membri, non potendo essere eletti coloro che non erano nati in città; le
altre norme riguardano i compiti da assolvere da pare dei senatori e dei
magistrati per garantire il buon governo, la mancanza di frodi e tumulti, la
corruzione, norme sulle contravvenzioni ai soprusi del sindaco, rinuncia agli
incarichi. Anche Antinori nella sua Istoria critica di Lanciano, copiata poi da
Domenico Romanelli e pubblicata in parte nelle Antichità storico critiche
dei Frentani, 1790, trascrive queste disposizioni in 16 punti. Sono
disposizioni che cercano di arginare un’emorragia già aperta circa i problemi
sociali e economici della città, una sorta di protettorato spagnolo che va a
lenire e congelare i poteri dei sindaci, dei magistrati, a interferire sugli
antichi privilegi e costumanze concesse dai sovrani passati di Napoli alla
città, per poterla controllare meglio, anzi “soffocarla”, e ridurla alla fame,
per poterla successivamente vendere, come avverrà nel 1646, quando Fella era
morto da almeno 10 anni. Tali disposizioni furono approvate nel 1564.
Nel seguente capitolo
“De platonica urbis divisione”, di una decina di carte, poco c’è di interesse
sulla storia locale, ma compare la solista sfilza di citazioni dotte sul buon
governo, estratte dalle Leggi e dalla Repubblica di Platone, aventi per tema il
numero 12. Nel capitolo dodicesimo “De polari longitudine e latitudine urbis”,
Fella cita Claudio Tolomeo che pone Lanciano a 41°33 di longitudine e 41,21° di
latitudine. Altre citazioni sono prese da Antonio Magno e dall’Itinerario di
Antonino. Nel capitolo successivo “De Gestis aliquot Anxani ab scriptoribus
sumptis”, Fella riesce a fare un notevole riassunto degli scrittori a lui
contemporanei e dei secoli passati, che trattarono di Lanciano, sono Giovanni
Simonella, Paolo Giovio, Giovanbattista Carafa, quando cita l’attacco di Lalle
Camponeschi contro le forze braccesche a Lanciano, Bernardino Cirillo, Girolamo
Pico Fonticulano, e anche dei diplomi regi di Giovanna I e Ladislao del 1379 e
1380, poi Filippo Orsini circa i diplomi concessi a Lanciano sull’erigere il
porto di San Vito, poi Francesco Guicciardini lib. 19, Giovanbattista de Lectis
storico ortonese, Joan Albin Lucanus e Thomas Cartius. In queste notizie, sono
citati alcuni fatti memorabili dei lancianesi, specialmente nell’ambito delle
lotte di potere tra angioini e aragonesi, Lanciano fu assediata da Francesco
Sforza e Braccio da Montone, anche se i lancianesi si ribellarono catturando
diversi cavalieri dello Sforza. A seguire si citano le imprese di Lalle
Camponeschi, che ribelle inizialmente alla regina Giovanna II, le tolse Aquila,
Chieti, Lanciano, Popoli, Guardiagrele,. Penne. Nel 1367 Corrado Lupo occupò
Lanciano contro Luigi d’Angiò, il quale non riuscì a sconfiggerlo, e si ritirò
a Sulmona; allora Giovanna I risolse di riconquistare le città con le truppe di
Luigi di Taranto, ma le città citate si ribellarono fieramente. Qui Fella
denuncia alcune notizie false che furono scritte su Lanciano, riportando per
iscritto dei diplomi del 1379 e 1380, Giovanna I nominò Paoluccio di Ser Andrea
pretore di Lanciano che condannò Cecco di Silvestro per tradimento e violenze,
il quale fu gettato dal Ponte della Madonna, poi Mascio Cosiza condannato per
gli stessi reati a essere sepolto sottosopra. Notizie di gusto popolaresco che
sono giunte sino ad oggi alle orecchie dei lancianesi, tanto che furono
riportare dall’ispettore scolastico e cultore di tradizioni Domenico Policella
(1930-2013), e da Roberto Mancinoni del gruppo folk “Lu Cantastorie”. Nel 1380
Filippo Orsini giustiziere d’Abruzzo,
Giovanni de Pancellis di Recanati giudice, e il notaio Bullotta
approvarono l’operato dei lancianesi; poi il Guicciardini, riporta Fella,
scrisse che Federico Craafa di ritorno a Barletta, arrivò a Lanciano con 160
soldati e fece saccheggio, Antonio Ricci cercò di riprendere Ortona difesa da
Sciarra Colonna; nel 1381 i monaci della certosa di San Martino di Napoli
chiesero ai lancianesi 200 once donate da Carlo III, a seguire nel capitolo si ricorda
la fierezza dei lancianesi opposta alle orde dei turchi che saccheggiarono le
coste abruzzesi nell’estate 1566.
Nel successivo capitolo
“De bellis adversus exules gentis”, che è una continuazione del precedente sul
tema dei turchi, si ricorda Alessandro Capece come pretore lancianese, che con
Giovanni Frosciuto catturò e sterminò una banda di predoni nel bosco di
Piazzano vicino Atessa; nel 1590 furono presi 50 turchi, nel 1596 Francesco
Roscio riuscì a uccidere una torme di sbandati, nel 1600 dei banditi sotto il
comando di Arcangelo Pulice fu sorpresa presso il porto di Venere e sterminata,
nello scontro navale si salvò, quasi miracolosamente, un pellegrino che si
dirigeva al santuario di Loreto. Nel 1602 un certo frate Felice “apostata” fu catturato con
degli sbandati, processato a Lanciano e impiccato nel portico della Fiera;
sulla base di queste imprese di “polizia” lancianese, Fella conclude che Marco
Sciarra per timore dei lancianesi, non osò mai devastare le contrade della
città. Nonostante il colorito della narrazione sia ricco di prese di posizioni
dell’autore nel voler mostrare una città ben organizzata ed equipaggiata
nell’amministrare la giustizia e nel punire i torti e sopprimere le violenze,
possiamo capire quale fosse il clima di incertezza e di violenze da parte di
predoni e banditi in quei tempi.
Nel capitolo “De
calamitatibus quae duce Lautrecho obvenerunt”, uno dei più genuini dal punto di
vista storico, e più interessanti di tutta la Cronaca di Fella, si ricorda un
fatto contemporaneo di particolare rilevanza per la storia lancianese. Nel
1528, in piena guerra tra Francia e Spagna per i domini a Napoli, il Conte di
Laurtrech, Odet de Foiux al soldo di Francesco di Francia, piomba a Lanciano,
piazza il quartier generale nella Fiera, e minaccia di assediare la città in
caso di mancata resa; il Principe d’Orange chiede al duca d’Amalfi di mandare
rinforzi a Lanciano, il magistrato Duccio Riccio lancianese paga 300 soldati
per aumentare il presidio, ma la situazione è troppo pericolosa, sicché vengono
dislocati in varie città delle isole, quando partirono col Conte di San
Valentino e di Città di Sangro (Torino di Sangro). Antonio Riccio, nemico di
Duccio, trova occasione per rientrare in città e allearsi con Lautrech.
Naturalmente, come si spiegherà, soltanto per vendicarsi di antichi torti e
devastare.
Tornando alla Cronaca di Fella, Antonio Ricci riesce a entrare a
Lanciano da Porta Santa Maria la Nova, la città è saccheggiata per tre giorni,
sicché Lautrech prosegue per Napoli, lasciando come preside Lazzaro Ursini;
l’esercito francese porta un’epidemia, e Fella annota oltre 5.000 morti. Duccio
Ricci, ritornato da Napoli con congedo del Principe d’Orange, scopre che il
nemico Antonio è a Lanciano, piomba immediatamente asserragliandosi nel castello
di Paglieta, antico feudo lancianese, che puntualmente è assediato dal partito
“antoniano”. Giunge il Conte di Palena che riduce i ribelli alla soggiacenza di
Carlo V, allora Antonio e i fedelissimo scappano a Barletta, ancora presidiata
dalle forze di Lautrech, e l’anno seguente con Federico Carafa, torna armato
più che mai a Lanciano, già gravata dallo svernamento delle truppe caroline, vi
torna con 26 navi e 120 armati. Lanciano aveva cercato l’aiuto presso i
Lanzichenecchi al soldo di Carlo, ma senza successo, nel momento che Antonio
Ricci sbarcava alla foce del Sangro. Anzi, Fella riporta che i tedeschi
scapparono dalla città, lasciandola in preda al nemico, sicché Antonio poté
saccheggiare felicemente la città, con bottino di 400.000 ducati. Oltre al
danno, la beffa, Carlo accusa Lanciano di aver parteggiato per i francesi, e la
punisce con la perdita di alcuni castelli, e con un documento in 16 punti, che
l’Antinori trascrisse da Fella, e qui riportiamo:
Nel capitolo: “De origine factionum dirarum et cladibus perpetratis”, si descrive brevemente l’origine dei vari dissidi tra le famiglie lancianesi, che portarono al doppio partito dei petroniani e antoniani; nel 1505 è ucciso Berardino Pellicciotti, sua moglie si mise sotto la protezione di Pietro Ricci, affinché lei non venga depauperata dei beni dai congiurati, fratelli del Pellicciotti, i quali una notte rubano 7000 ducati alla cassa dell’erario, accusando poi il magistrato Pietro Ricci di furto. La tensione sale, e Pietro viene ucciso, anche se Antinori sostiene “ferito” dai congiurati di un altro Pietro Ricci, figliastro di Filippo “Pippo” Ricci, facente capo a un ramo bastardo della famiglia. Ha così inizio, un periodo lungo di torbidi, aggressioni fisiche anche in pieno giorno in città tra queste due famiglie per il potere politico, agguati privati, muore Sallustio Florio giureconsulto, nel 1514 avvengono altri omicidi, nel 1522 e 1527, che si trascinano anche a Paglieta, residenza estiva dei Ricci. Antonio Ricci, colui che tradì la sua patria e il partito francese per passare a quello carolino, verrà ammazzato dice Fella, presso la fonte di Longino nel 1532, e dovette intervenire Sciarra Colonna ripristinare la pace.
Nel diciassettesimo capitolo “De Anxanis episcopis et archiepiscopis” ha
inizia la seconda parte della Cronaca, dove dopo le trattazioni dei fatti
storici, anche se come abbiamo visto, non in forma di “cronologia”, il Fella passa in rassegna i
vescovi e le chiese maggiori della città. Fella fa un preambolo in cui espone i
motivi per cui Lanciano, con i privilegi vari, specialmente quello di Alfonso
del 1456, era destinata a essere sede vescovile staccandosi da Chieti, e arriva
alla bolla di Leone X del 1515 in cui si riconosce la nuova diocesi con vescovo
Angelo Maccafani di Pereto, viene riportata la bolla di erezione a
vescovado, in latino; la serie dei vescovi, riportata da Fella con apposito
stemma disegnato in ciascuna pagina, prosegue sino a Giovanni Uva:
·
Angelo
Maccafani † (27 giugno 1515 - 1º dicembre 1517 deceduto)
o
Sede vacante
o
Egidio da Viterbo, O.E.S.A. † (10 aprile 1532 - 12 novembre 1532 deceduto) (amministratore
apostolico)
·
Michele
Fortini, O.P. † (26 febbraio 1533 o 1535[19] - 15
febbraio 1539 deceduto)
·
Juan Salazar
Fernández † (30 aprile 1540 - 12 settembre 1555 deceduto)
·
Pompeo
Piccolomini † (12 giugno 1556 - 26 gennaio 1560 nominato vescovo di Tropea)
·
Leonardo Marini, O.P. † (26 gennaio 1560 - 7 ottobre 1566 nominato arcivescovo, titolo
personale, di Alba)
·
Ettore
Piscicelli † (13 ottobre 1568 - 23 settembre 1569 deceduto)
·
Antonio Gaspar
Rodríguez, O.F.M. † (20 ottobre 1570 - 1º novembre 1578 deceduto)
·
Mario
Bolognini † (3 luglio 1579 - 3 ottobre 1588 nominato arcivescovo, titolo
personale, di Crotone)
·
Paolo Tasso †
(17 ottobre 1588 - 2 settembre 1607 deceduto)
o
Sede vacante (1607-1610)
·
Lorenzo Monzonís
Galatina, O.F.M. † (27 gennaio 1610 - 20 novembre 1617 nominato arcivescovo, titolo
personale, di Pozzuoli)
·
Francisco Romero, O.Carm. † (14 maggio 1618 - 11 gennaio 1621 nominato arcivescovo, titolo
personale, di Vigevano)
·
Andrea Gervasi
† (24 giugno 1622 - 9 agosto 1668 deceduto)
·
Alfonso Álvarez Barba Ossorio, O.C.D. † (9 settembre 1669 - 29 maggio 1673 nominato arcivescovo di Brindisi)
·
Francesco Antonio Carafa, C.R. † (27 maggio 1675 - 24 novembre 1687 nominato arcivescovo, titolo
personale, di Catania)
·
Manuel de la
Torre y Gutiérrez, O. de M. † (9 agosto 1688 - 21 luglio 1694 deceduto)
·
Giovanni
Monreale † (4 luglio 1695 - 21 maggio 1696 nominato arcivescovo di Reggio
Calabria)
·
Barnaba De
Castro, O.E.S.A. † (25 febbraio 1697 - 15 dicembre 1700 nominato arcivescovo di Brindisi)
·
Giovanni Uva,
O.F.M. † (18 aprile 1701 - gennaio 1717 deceduto)
Come notiamo, la serie dei vescovi si arresta a Giovanni Uva frate
Minore, morto nel 1717, quando si sa, Fella morì circa il 1633, e dunque nella
compilazione, si arrestò a trattare di Andrea Gervasi, in effetti, come nota
anche Florindo Carabba, che redasse uno schedario-indice dei capitoli del
manoscritto felliano, quest’opera fu continuata da qualcun altro, che si
arrestò negli anni ’20 del ‘700 nella trattazione. Nei capitoli successivi si
riporta la Bolla di erezione del Vescovato di Lanciano del 27 giugno 1515,
l’Exequatur regio di Giovanna d’Aragona e Carlo del 20 ottobre 1513, e infine
la Bolla dell’erezione dell’Arcivescovado del 23 marzo 1562 di papa Pio IV, e
infine l’Exequatur di re Filippo II de 23 marzo 1562.
Viene finalmente la parte finale della Cronaca con l’elenco delle chiese
maggiori di Lanciano e le loro note storiche. Nel cap. “De Sacris Aedibus et
Caenobis Lanciani”, si parla della chiesa dell’Annunziata, che fino al 1819
affiancava in piazza la Basilica della Madonna, si cita la bolla papale del
1488 che offre una indulgenza per i lavori alla Basilica, nel 1516 si riporta
il documento di aggregazione delle rendite della chiesa dell’Annunziata alla
chiesa della Madonna; nel 1545 il vescovo Salazar unisce nuovamente le due
chiese in una sola istituzione sotto la Santa Casa del Ponte, nel 1513 ci sono
nuovi lavori alla chiesa, crollata in parte per un difetto di fabbrica,
crollato nuovamente nel 1542 fu incaricato l’architetto Gabriele Cavansi, la
pietra fu posta dal vescovo Salazar, e durante la costruzione, il Fella riporta
dei miracoli avvenuti: tre cavatori di arenaria caddero dal tetto del Ponte
nella vallata, rimanendo illesi, un paralitici di Campobasso fu posto davanti
l’altare con l’Immagine della Madonna e fu guarito, il falegname Ippolito de
Ninnis mentre montava una trave, cadde dalla chiesa, ma ne uscì illeso, il
deforme Antonio di Ortona, dormendo di notte dentro la chiesa, riuscì a
camminare. Nel 1492 l’arciprete Tommaso de Lippis unisce all’istituzione Santa
Casa del Ponte i benefici dell’ospedale di Santa Caterina di Lancianovecchia,
posto fuori le mura e di Sant’Angelo al Borgo, chiese ambedue oggi scomparse;
nel 1540 Ottaviano Grandeo è incaricato di ricostruire l’altare della Cona
votiva alla Madonna, il vescovo Giovanbattista D’Orta dona una croce con una
delle spine della Crocifissione; il papa Gregorio XIII nel 1529 accorda
ulteriori privilegi alla Basilica, nel 1682 l’arcivescovo Mons. Carafa
riconsacra il Tempio; da questa ultima data comprendiamo come anche in questo
capitolo ci siano state aggiunte postume al Fella, scritte in volgare anziché
in latino.
Nel successivo “De templo Divi Mauritii et sociorum martyrum”, Fella elenca
tutte le chiese di Lancianovecchio: San Lorenzo, San Giovanni, poi San Nicola
dei Ferrati con la confraternita di San Carlo Borromeo, corrispondente oggi
all’ex istituto professionale “P. De Giorgio” di via Finamore, poi la chiesa di
santa Maria Maggiore con 2 torri campanarie, sede della confraternita della
Concezione, le chiese di san Nicola di Bari e San Rocco con la confraternita
omonima, Santa Maria degli Angeli nella Sacca, e tre chiese distrutte già ai
tempi di Fella: Santa Caterina con ospedale, Sant’Angelo al Borgo, San
Pantaleone di Civitanova, nei pressi della chiesa di Santa Maria Nuova; e qui
vi erano anche le chiese di Santa Maddalena e Santa Croce, che ugualmente
furono distrutte quando fu eretta la chiesa di Santa Maria col monastero dei
Padri Rocchettini.
Fella annota: fuori le mura ci sono le chiese di Sant’Antonio abate col
convento, Santa Giusta, San Giacomo, Santa Venere, Santa Maria presso la Cona
di Mastro Tommaso Panetta, ossia la famosa chiesa dell’Iconicella, Santa Maria
delle Grazie alla Fiera, celebre per i miracoli, sede dei Carmelitani nel 1619,
e precedentemente sede dei Paolotti, Santa Maria de Visu, citata anche dal
Verlengia che è posta lungo l’antico tratturo dove passa il viale Cappuccini,
nel luogo dove fu eretta la nuova parrocchia di San Pietro, luogo di una
celebre processione delle verginelle nel mese di Maria, la chiesa di
Sant’Egidio nella contrada degli ortolani, dove il 1 settembre si svolge una
festa con diversi contadini, a seguire Fella cita la chiesa di Santa Maria in
Frisa, antica badia benedettina, la chiesetta di Santa Maria di Montevergine
che sorgeva in contrada Sciacquarelli, da cui i monaci agostiniani si
spostarono per fondare il monastero omonimo a Lancianovecchia, la cappella di
Santa Maria Liberatrice, famosa per i miracoli, restaurata ai tempi di Fella da
Fulvio Carlucci.
Parlando poi della chiesa di San Maurizio, la più antica della città,
Fella ricorda la leggenda della liberazione di Lanciano da parte dei Bizantini,
quando era sotto il controllo longobardo, per intercessione di San Maurizio e
dei suoi Tebani. Ricorda che Anxano, all’epoca, era in piano, rispetto alla
cittadella longobarda fortificata sul colle, e su questo presupposto,
dell’esistenza di una chiesa ancor più antica di quella demolita in largo dei
Frentani, di cui resterebbero ruderi presso le mura che guardano a nord,
concordarono anche Pollidori e Bocache. Quanto alla storia del miracolo di San
Maurizio, Fella dice di aver trovato tali notizie in un libricino in pergamena
presso la chiesa di santa Maria Maggiore, sicché i lancianesi eressero una
chiesa in onore del santo, e lui afferma di aver ammirato il pavimento antico
in mosaico, con altre opere pittoriche di valore, all’epoca del sacerdote
Venanzio Radice nel 1540.
Nel capitolo “De coenobio Divi Augustini”, Fella magnifica la chiesa come una delle più grandi della provincia Abruzzese, per la tipologia dell’ordine eremitano, elenca le reliquie di Sant’Innocenzo, Sant’Apollonia, tre spine della Corona, il capo e il braccio destro di san Simone apostolo e Giuda Taddeo, rubate dal frate Jacopo di Clemente a Venezia nel 1434, e cita due lettere indirizzate dal Vescovo di Chieti a Lanciano, e una copia della lettera del Doge di Venezia Francesco Foscari, che lamenta il furto, chiedendone restituzione; tale resoconto verrà inciso su pietra e murato nella cappella dei Santi Apostoli nella stessa chiesa, com’è possibile ammirarla ancora oggi. La lettera è del 12 settembre 1439, il Doge ricorda il furto del frate, mentre i lancianesi risposero con lettera di aver comprato a peso d’oro le reliquie, e chiamarono in aiuto re Alfonso d’Aragona come testimone, i veneziani vollero punire Lanciano devastando il porto di San Vito, ma sbagliarono meta e finirono a san Vito dei Normanni! Fella finisce il capitolo descrivendo un altro miracolo conservato nella chiesa, quello dell’ostia fritta da parte di Ricciarella, avendola presa da un libricino stampato a Venezia. Parla dell’arcivescovo Bolognino che ordina di erigere una chiesa nel luogo della stalla, dedicata a Santa Croce, e di erigervi la confraternita dei Santi Simone e Giuda.
Nel capitolo: “De coenobio Conventualium Divi Francisci”, Fella ripete
le notizie più o meno oggi abbastanza note e scritte in più libri circa la
storia del monastero di san Francesco: che in passato esisteva il cenobio
basiliano di San Legonziano dove avvenne il celebre Miracolo eucaristico,
qualche nota circa la vota di San Basilio Magno e sul suo ordine di eremiti,
fino a quando essi per infamia vennero cacciati dal convento, con bolla di
Innocenzo III nel 1204 il monastero diventa parrocchia del rione Borgo, nel
1252 una nuova concessione del vescovo di Chieti, porta la chiesa ad essere
controllata dai Frati Minori. Qui inizia una divertente storiella di Fella, che
fu duramente criticata da Corrado Marciani un suo scritto sulla chiesa di San
Francesco, a testimonianza di come, come le invenzioni, si sopperisse alla
mancanza di documenti, e su come, sempre grazie alle storie e ai miracoli e ai
panegirici, si riesca a costruire storie prive di fondamento, ancora oggi
citate e ricitate in articoli di storia. Fella parla di una controversia circa
l’espulsione dei Basiliani da Lanciano per infamia, un mercante molto influente
che veniva alle Fiere, manda un figlio con lettere di raccomandazione
all’abate, ma i monaci ciechi dalla cupidigia, decisero di uccidere il ragazzo
e di prendersi la lettera di cambio, e l’abate mentì a suo padre, dicendo che
il figlio se ne era ripartito dopo aver assolto il suo compito, invece essi lo
avevano prudentemente sepolto nell’ossario del convento. Il padrone decide di
partire per Lanciano, e vede che il suo cane si agita nella Piazza, e va a
mugolare presso una grande pietra vicino la chiesa di San Legonziano, il padre
la fa aprire e ci trova il figlio morto di morte violenta, allora l’uomo chiama
il magistrato, fa confessare i monaci, che ammettono il delitto, e li fa
impiccare in piazza presso la finestra della torre del monastero. Corrado
Marciani, nel commentare questa storia, fa delle allusioni a un dipinto che
ancora oggi si trova nella sala museo di San Francesco, che mostra il Miracolo
dell’ostia profanata, in cui un cane addenta il naso di un giocatore d’azzardo,
intendo a profanare l’ostia, dipinto realizzato ai tempi di Fella.
Fella inoltre torna alla questione del Miracolo conservato nella chiesa,
ne parlò il mons. Sebastiano Rinaldi lancianese vescovo di Calcedonia e
Guardialfiera, che scrisse una cronachetta nel 1611 dal titolo “De antiquitate
ac praestantiae Patriae”, in cui si ricordano alcuni fatti memorabili
lancianesi, e la presenza di antichi templi della romana Anxanum, tutte
invenzioni naturalmente riprese paro-paro dai successivi scrittori di cose
frentane. Nella cronachetta, citata da Fella, avviene questo episodio, che Marciani
considerò puramente inventato: nella metà del ‘500 due monaci misteriosi
dell’ordine basiliano, giunsero nel convento, e rubarono nella biblioteca un
codice membranaceo scritto in latino e greco, dove si ricordava il prodigio del
Miracolo, e Fella in prima persona interviene, sostenendo che per questo atto
riprovevole lui volle da magistrato far scrivere un pubblico documento in cui
si ricordava questo atto nefasto. In sostanza, sentenzia anche Marciani, non
essendoci purtroppo documentazione antica che testimoni il prodigio del
Miracolo eucaristico, se non due lapidi che ancora oggi sono conservate
all’interno della chiesa, rimontanti al XVI secolo, quale espediente migliore
se non inventarsi una bella storia del furto di un libro scritto in latino e
greco? Materiale per un giallo stile “Il nome della Rosa”!. Il capitolo si
conclude con un altro avvenimento prodigioso, che si sposa con quello
dell’affresco del Cristo miracoloso di Ortona che grondò sangue, e della nebbia
provvidenziale che avvolse il convento delle Celestine: quando nel 1566 i
Turchi assediarono le contrade di Lanciano, un francescano prese la reliquia
del Miracolo e corse lontano, ma anche se arrivò 200 stadi, per miracolo si
ritrovò a essere davanti l’altare della chiesa, nel momento stesso in cui i
turchi si erano dileguati per altri saccheggi.
Nel capitolo “De coenobio Sancti Angeli de Pace”, si ricorda il motivo per cui fu eretto nel 1430, per volere di frate Giovanni da Capestrano; in un istrumento si ricorda una prima tregua tra Lanciano e Ortona nel 1252, poi nel 1321, si ricordano alcune scaramucce avvenute con le triremi lancianesi e ortonesi per il controllo del porto di San Vito, fino ad arrivare al 1442, quando con re Alfonso, i Lancianesi ottengono in loro dominio la lingua costiera che va dalla foce del Moro a quella del Trigno; nonostante i privilegi che vietano agli Ortonesi di turbare le attività dei Lancianesi nell’erigere il porto, avvengono diversi tumulti e atti di sabotaggio, sicché i lancianesi nel 1451 prendono le armi e saccheggiano Ortona, uccidendo il sindaco Bartolomeo de Riccardis, inoltre re Alfonso con nuovo atto punisce la città di Ortona con una multa. Fella torna a parlare del convento eretto per pacificare le due città, ricorda 14 frati all’inizio, vi era sepolto il priore beato Girolamo Strinconio, infine è riportata in copia la carta del Lodo di Pace.
Nel capitolo “De coenobio Sancti Spiriti Caelestinorum”, si ricorda
brevemente la presenza a Lanciano, cosa messa però in dubbio da Marciani, di
frate Pietro da Morrone, il convento fu unito nel 1610 da Innocenzo X con
quello di Guardiagrele, Ortona e di Atessa per le rendite; il priore aveva un
feudo alla Bardella di Ortona, e delle rendite per ricostruire il monastero
dopo il sacco turco del 1566.
Nel cap.”De coenobio Sanctae Mariae Novae” si ricorda la fondazione del monastero dei Rocchettini dall’antica chiesa di Santa Maria in Frisa, Antonio Fella e Pietro de Monte mastrogiurati di Lanciano concordarono l’erezione del monastero, si optò per il sito dell’antica chiesa cadente di santa Maddalena, e il magnifico Denno Riccio fece testamento, lasciando tutti i suoi averi ai Lateranensi, morendo verrà sepolto inizialmente nella chiesa d Sant’Agostino, poi in Santa Maria Nuova nel 1556, come attesta l’iscrizione del sepolcro; i monaci nel 1504 ricevettero in eredità il castello di Fossacesia.
Nel cap. “De coenobio Cappuccinorum”, brevemente si parla del convento
dei Cappuccini eretto sopra la cappella di san Bartolomeo nel 1575 da frate
Antonio da San Michele, la chiesa fu consacrata dall’arcivescovo Mongiò nel
1617. Nel cap. “De coenobio Hospitaliorum” si parla della chiesa di Santa Maria
della Sanità della congrega dei Fatebenefratelli, voluto dall’arcivescovo Tasso
nel 1590, vi era annesso lo xenodochio e una farmacia per gli ammalati. Questo
era uno dei monasteri, scrive Fella, con ospedali della città, rasente le mura,
come Santa Caterina, San Nicola dei Ferrati, Sant’Antonio, fu consacrato da
Mons. Mongiò nel 1617.
Nel cap. “De coenobio Sanctae Clarae monalium”, si parla del convento delle Clarisse al Borgo, si possiede il corpo di Santa Cordula, oggi conservato nel Museo diocesano, mentre nella chiesa si conserva anjcora, nella cappella del Cristo morto, il quadro della Santa, opera di Filippo Palizzi. Le monache, dice Fella, avevano anche la giurisdizione presso un ospedale fuori Porta San Nicola, con la chiesa di Sant’Agata, presso le case di Camilla Lucida, ossia precisiamo noi, nell’area di via Finamore, il monastero di Santa Chiara povera per accogliere le derelitte.
Nel cap. “De coenobio Congregationis Oratorii Sancti Philippi”, si ricorda la costruzione dell’oratorio di San Giovanni a opera di Mons. Sebastiano Rinaldi nel 1598, poiché i padri Filippini non avevano fissa dimora, e stavano nella chiesa di Santa Maria degli Angeli alla Sacca; Fella ricorda la presenza dei Filippini a san Giovanni in Venere, ricorda le reliquie di San Filippo asportate dai lancianesi nel 1334, vi sono citazioni varie dalle lettere di Giovanna I per furti sacrileghi, e una citazione da Antonio Gallonio, infine nel 1623 la benedizione di Mons. Gervasio della chiesa di San Giuseppe nel Borgo, che ancora oggi vi si trova, benché sconsacrata, in via dei tribunali.
Nei capitoli finali dell’opera di Fella: “De privilegiis, donationibus
regiis et aliis”, sono ricordati i maggiori privilegi che hanno fatto grande
Lanciano: privilegio di di Carlo II nel 1303 che emancipa Lanciano dal potere
di Filippo di Fiandra signore di Chieti, quando le fu sottomessa nel 1289 da
Carlo I suo padre; vi è un privilegio di Federico II del 1212 probabilmente
falso, in cui si riconosce Lanciano città libera. Carlo II nel 1308 accorda
l’impunità a Lanciano quando i cittadini avevano scacciato Filippo di Fiandra;
nel 1259 re Manfredi concede a Lanciano il feudo di Buca vicino Vasto. Re
Roberto nel 1312 concede a Lanciano il castello di Paglieta. Re Ladislao nel
1405 conferma i privilegi di re Roberto; Giovanna I nel 1383 toglie a Lanciano i vettigali, nel
1372 aveva concesso a Lanciano di costruire castelli; nel 1395 re Ladislao
concede di costruire il porto di San Vito; nel 1453 e ’58 sono confermati da
Alfonso e Ferdinando d’Aragona diversi privilegi, compreso il porto di San
Vito; nel 1480 Lanciano ebbe la concessione di fare i pesi e le misure per la
Fiera; nel 1406 re Ladislao concesse i feudi di Castel nuovo, San Venanzio,
Crecchio, Sant’Amato, tolti a Napoleone Orsini signore di Manoppello per
ribellione. Qui si ricorda anche l’agguato dei lancianesi ai paesani di
Castelnuovo ossia Castelfrentano in contrada Valle Pagana, che fu chiamata per
la strage “Valle consumo”. Nel 1499 re Federico concede a Lanciano l’immunità
dalle tasse per dei danni di guerra ai castelli, conferma altri castelli come
Ari, Crecchio, Canosa, Treglio; nel 1391 re Ladislao concesse tutta la baronia
di Borrello con Civtaluparella, Sant’Angelo, Pietraferrazzana; tra i vari altri
privilegi, Lanciano poté convocare pubblicamente i parlamenti, eleggere il
mastrogiurato, fece emanare dei privilegi contro Chieti nel 1520 che voleva
svolgere una Fiera contro quella di Lanciano, che i mercanti diretti a Lanciano
non pagassero il fondaco a Ortona, nel 1502 ebbe la facoltà di nominare 4
magistrati l’anno; Ferdinando nel 1463 emanò proibizioni contro ortonesi,
sulmonesi e altri che volessero disturbare i commerci di Lanciano. In sostanza
una quarantina di privilegi, riprodotti in copia in latino e in italiano
volgare, però non inseriti, come si può vedere, secondo un ordine cronologico,
ma alla rinfusa. Un lavoro più certosino lo farà il Bocache, seppur nella
confusione in cui furono rilegati in volumi i suoi manoscritti, e un altro
lavoro più preciso lo farà Antonio Maranca, estraendo notizie dal Bocache, nel
suo volume della “Storia diplomatica di Lanciano”,. Presso la biblioteca comunale
di Lanciano.
Termina la cronaca con il capitolo degli uomini illustri: Simone Arcucci abate di Santo Stefano e poi Cardinale, anche se l’Antinori nella sua “Istoria critica di Lanciano”, sostiene che fu un abbaglio, e fu un altro Simone de Lancian, inglese; a seguire il vescovo Sebastiano Rinaldi, frate Lorenzo Palazzi cappuccino, Mastro Giovanni Hugone eremitano,, Maestro Andrea conventuale, Giacomo Mozanilla reverendo dei Minori, Oliviero da Lanciano poeta e umanista, residente nella Sacca, che commissionò un dipinto di San Francesco nella cappella del Rosario nel monastero francescano di Lanciano, con suoi distici latini, Ippolito Sabino organaro e madrigalista illustre, Berardino Crisci, madrigalista allievo di Ippolito, frate Sebastiano Cannella cavaliere gerosolimitano, Ascanio Realto conte palatino, Tuccio Ricci condottiero, Tommaso Ricci e Pietro Ricci nobili patrizi, Domenico, Denno Filippo “Pippo”, che tennero alto il pregio di Lanciano; poi Giovan Domenico detto 2Pigliaturchi” perché catturò in un colpo 13 turchi nel 1566, poi Giovanni Campezza di umili origini presso i Ricci, che divenne valente condottiero, Pietro Angelo, uno dei luogotenenti di Giorgio Skarderberg, il soldato Ossidio Oplaco frentano che cercò di uccidere Pirro d’Epiro, Polidoro di Mastro Renzo celebre pittore a Venezia, poi Ottaviano Grandeo architetto e scultore, Teodoro Nigrino celebre poeta, e infine il giurista Carlo Tapia, consigliere regio.
Qui termina la monografia di Fella, come possiamo rilevare, solo alcuni passi “di gusto liviano” come scrisse Marciani, erano noti e analizzati criticamente da questo dottore vissuto il secolo scorso, come il passo in cui parla dell’umanista Oliviero da Lanciano, dell’episodio dello scontro armato a Valle Consumo tra Castellini e Lancianesi, dell’invenzione del furto della pergamena del Miracolo eucaristico, ma diversi altri aspetti andavano osservati con criterio.
Nessun commento:
Posta un commento