Abruzzo Ulteriore e Citeriore, Rizzi Zannoni, 1783. |
1. Introduzione
Nel
1734 Carlo III di Borbone, a capo di un esercito spagnolo fece il suo ingresso
trionfale a Napoli e nel 1735 conquistò anche la Sicilia e fu incoronato re a
Palermo. Il riconoscimento internazionale e definitivo del potere della
dinastia borbonica e del suo primo esponente sull’Italia Meridionale avvenne
nel 1738, quando si concluse la guerra di successione polacca e a Vienna fu
firmato il trattato di pace.
Uno
dei primi problemi che il nuovo re dovette affrontare fu il rapporto con le
istituzioni ecclesiastiche e in particolare con la Santa Sede per chiarire una
volta per tutte alcune questioni reciproche ancora irrisolte tra cui il
controllo degli enti ecclesiastici, l’inquisizione, il potere degli ordinari
diocesani, l’investitura pontificia, l’omaggio della chinea, i privilegi
fiscali dei chierici e della chiesa.
All’epoca nel Regno di Napoli la Chiesa
aveva un’importantissima influenza religiosa ed economica poiché: considerava
il Regno di Napoli uno stato vassallo della Santa Sede, vantava il possesso di feudi
e vasti beni immobilizzati in modo improduttivo; non corrispondeva nessuna
imposta allo Stato ma addirittura una notevole parte delle sue rendite usciva
dallo Stato stesso e prendeva le valigie per la Curia pontificia; il clero era
molto numeroso e godeva di ampi privilegi fiscali e giudiziari.
In questo periodo la presenza di uno o
più sacerdoti in famiglia era un mezzo abbastanza generalizzato che si utilizzava
per rafforzare il proprio prestigio economico-sociale o ottenere un avanzamento
di status. Nel 1911 Salvemini, riguardo
all’elevato numero della componente clericale nel Regno di Napoli, scrisse: «Prima
del 1860 e negli anni immediatamente successivi, la grande ambizione delle
famiglie che avessero un po' di terra al sole o che aspiravano ad elevarsi
socialmente era di avere un figlio prete. Nella famiglia che otteneva questa
grazia dal Signore, l'avito fondicello ritrovava ben presto un fratellino. E se
la seconda generazione riusciva a produrre un altro prete, la famiglia entrava
addirittura tra le case notabili del paese. La terza generazione arrivava
finalmente al canonico, con cui cominciava quasi la nobiltà»[1].
Le
scelte politiche delle autorità statali dell’epoca nei confronti della Chiesa
furono ispirate dal giurisdizionalismo, una dottrina filosofico-giuridica che
in diversi paesi europei si affermò tra la fine del XVII e il XVIII secolo, attecchì
anche nell’ambiente napoletano e con la sua applicazione si assistette a
profondi cambiamenti nel rapporto Stato-Chiesa.
La dottrina giurisdizionalista considera la
Chiesa e lo Stato due soggetti distinti e non fusi insieme come nei sistemi
teocratici; alle autorità civili riserva particolari diritti e poteri tra cui
la facoltà di controllare l’attività degli enti ecclesiastici e di trasformarli
in “istrumentum regni” finalizzandoli
a perseguire obiettivi non solo religiosi.
I
diritti che in base al giurisdizionalismo possono essere vantati dalla Chiesa
nei confronti dello Stato sono: lo "jus
reformandi" con cui lo Stato tutela la Chiesa da scismi ed eresie
consentendole di perseguire le sue finalità; lo“jus advocatiae” o “protectionis”
ossia il diritto riconosciuto alla Chiesa di esercitare controllo sull'amministrazione
ecclesiastica, l'insegnamento religioso, i chierici, ecc. A loro volta i diritti
che lo Stato può vantare sulla Chiesa sono: lo "jus dominii eminentis" in base al quale lo Stato può vantare
alcuni particolari diritti sui beni ecclesiastici, assoggettarli a tributi e ad
altre forme di controllo; lo "jus
cavendi", lo "jus
exclusivae" e lo “jus
inspectionis”, con i quali le autorità civili si riservano la vigilanza
sugli atti di quelle ecclesiastiche e accettano alle sue cariche solo persone
non ostili allo Stato e alle sue istituzioni. Lo jus cavendi in passato trovava applicazione concreta attraverso l'exequatur" e il ”placet", due formule giuridiche
utilizzate dalle autorità statali per controllare e sindacare le leggi della
Chiesa, impedire che la stessa conferisse cariche a persone politicamente
sospette, autorizzare o meno la diffusione di atti e deliberazioni delle
autorità ecclesiastiche, evitare la divulgazione di documenti pontifici e
pubblicazioni contenenti forti critiche alle autorità civili e capaci di
turbare l'ordine pubblico.
Il
giurisdizionalismo settecentesco sostanzialmente mirava al consolidamento dello
Stato assoluto e pertanto la limitazione delle prerogative della Chiesa erano
finalizzate a rafforzare l'autorità e il potere statale attraverso l'eliminazione
di ogni fonte di possibile opposizione e resistenza.
Durante
il XVIII secolo nel Regno di Napoli il principale esponente teorico del
giurisdizionalismo napoletano fu Pietro Giannone che proponeva la separazione
tra Chiesa e Stato, negava la natura divina del potere temporale dei papi ed
evidenziava i difetti della Chiesa dell’epoca.
Nonostante la persecuzione che subì Giannone e la condanna delle nuove dottrine filosofico-giuridiche da parte delle autorità ecclesiastiche, esse riuscirono ad attecchire e ad essere applicate dalle autorità di vari stati europei.
Nel
Regno di Napoli, i primi provvedimenti borbonici di stampo giurisdizionalista sono
costituiti da vari rescritti regi emanati tra il 1737 e il 1740 che ad avviso
di Tucci “proibirono ai prelati alcuni
esercizi giudiziari come i diritti sulle compravendite nelle fiere e nei
mercati, i poteri nelle piazze di città e terre del Regno, chiarirono la
confusione di prerogative baronali con quelle vescovili, ma soprattutto
vietarono la prassi dei testamenti dell’anima ad pias causas”[2].
Dopo
questi iniziali provvedimenti, il maggior esponente politico, fautore e
interprete della dottrina giurisdizionalista nel Regno di Napoli fu il ministro
Bernardo Tanucci che al servizio dei re Carlo III e Ferdinando IV occupò varie
cariche amministrative. In particolare il ministro Tanucci diede un’applicazione
concreta al giurisdizionalismo napoletano fondato sullo Stato confessionale che
vanta prerogative sulla Chiesa, ma al tempo stesso ai fini “Ad Dei atque Regni majorem gloriam”
ossia per una migliore gloria di Dio e dello Stato, protegge la Chiesa stessa attraverso
la concessione di diritti che le consentono di esercitare la sua missione
evangelizzatrice.
Durante
il suo mandato il ministro Tanucci s’impegnò per
estendere la giurisdizione statale sulle istituzioni ecclesiastiche, abolire
i privilegi feudali e fiscali
del clero, limitare la
giurisdizione dei vescovi, ridurre le imposte che lo Stato doveva corrispondere
alla Curia romana, la mano morta e altro[3].
2. Il Concordato del 1741.
Una
concreta e chiara applicazione delle dottrine giurisdizionaliste con
conseguente nuova definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa nel Regno di
Napoli si ebbe nel 1741 quando, dopo un lungo periodo di trattative, il papa
Benedetto XIV e il re Carlo III di Borbone approvarono e firmarono un
concordato tra le due parti che fu definito “Trattato di accomodamento tra la Santa Sede e la Corte di Napoli”.
L’importante
documento suddiviso in dieci parti pose termine a varie controversie definendo
questioni d’interesse reciproco e con la sua ratifica si ebbero profonde
innovazioni in materia d’immunità degli ecclesiastici e degli edifici di culto,
esecuzione delle visite pastorali, rendiconti dei luoghi pii laicali, requisiti
dei promuovendi agli ordini sacri, cause miste, stampa e materie beneficiarie.
Nei
primi capitoli del Concordato fu affrontata la questione delle immunità
ecclesiastiche che furono ridimensionate e del diritto
di asilo che fu limitato alle chiese consacrate e solo per alcuni reati.
In particolare nel capitolo II si decise l'abolizione del diritto di asilo in chiesa
per i seguenti soggetti: i ladri di pubbliche strade, gli incendiari, i
ricattatori, i grassatori, i fabbricatori di cedole (falsari), i venditori e
propinatori di sostanze tossiche mortali, i mercanti fraudolenti, i
delinquenti, coloro che di notte aprivano con chiavi false, grimaldelli o altri
strumenti botteghe, fondaci e magazzini e infine per gli autori di omicidi nei
luoghi immuni tra cui le chiese stesse e i cimiteri.
Nel
capitolo IV si posero dei limiti alle ordinazioni sacerdotali e si definirono i
requisiti degli aspiranti chierici. A tal proposito si stabilì che nessuno
poteva essere ammesso alla prima tonsura se le rendite famigliari dell’aspirante
sacerdote ammontavano alla metà della tassa stabilita per la costituzione del
patrimonio sacro (art. I)[4].
Con successivi provvedimenti legislativi si posero altre limitazioni. Infatti, un
dispaccio reale (decreto legislativo) del 15 marzo 1742 vietò che in una
famiglia fosse ordinato sacerdote il figlio unico e/o più di un membro per
volta e se l'intero patrimonio famigliare diviso tra tutti i membri risultava
inferiore a quello richiesto per la costituzione del patrimonio sacro[5]. In
seguito Ferdinando IV, nel rispetto delle norme concordatarie ordinò che il
numero degli ecclesiastici del Regno non doveva essere superiore a uno ogni
cento abitanti. Nel loro complesso le norme sulle ordinazioni sacerdotali
perseguivano le seguenti finalità: 1) ridurre l'evasione fiscale che garantiva
la costituzione del patrimonio sacro e anche il numero totale di ecclesiastici
presenti in tutte le province del Regno; 2) assicurare a tutti i chierici la
possibilità di vivere in modo decoroso dopo l'ordinazione senza che fossero
costretti a fare altri mestieri umili e servili se privi di privilegi; 3)
promuovere un rinnovamento del decoro sacerdotale conferendo i sacri ordini
solo a soggetti che ne potevano essere degni in quanto animati da sincera
vocazione religiosa.
Poiché una delle finalità del Concordato era di garantire
“una più giusta distribuzione de’ pubblici pesi”, iniziarono ad essere
tassati anche i beni ecclesiastici. In particolare, le parrocchie, gli
ospedali e i seminari continuarono a essere esenti da qualsiasi tributo statale,
mentre tutti gli altri beni delle chiese, di enti e persone ecclesiastiche se
acquistati prima del Concordato, avevano un'esenzione parziale poiché
corrispondevano solo la metà delle tasse previste. Se, invece, i beni si acquistavano
dopo il Concordato, l'aliquota fiscale doveva essere pagata integralmente e
quindi era pari a quella corrisposta dai laici per beni di uguale valore.
I
chierici minori non avevano alcuna esenzione fiscale, mentre gli ordinati erano
esenti solo per i beni formanti il patrimonio sacro, il cui valore era stabilito
dalla diocesi d’origine e comunque non poteva essere inferiore a ventiquattro
ducati e superiore a quaranta.
Nel
capitolo V si posero dei limiti all'esercizio del governo pastorale da parte
dei vescovi. In particolare si dispose che durante le visite pastorali gli
ordinari diocesani potevano intervenire tanto nelle questioni spirituali che in
quelle materiali di parrocchie ed enti ecclesiastici.
Ai
titoli uno e cinque di tale capitolo si riconobbe che le Confraternite dovevano
considerarsi enti laicali sottoposti alla vigilanza e giurisdizione delle
autorità civili. Di conseguenza su di esse e tutti i luoghi pii amministrati dai
laici tra cui le cappelle laicali, gli ospedali, i monti frumentari e di pietà,
i vescovi erano autorizzati a visitarli ed imporre la loro autorità
esclusivamente per le questioni di carattere spirituale.
Nel
capitolo VII fu affrontata l'annosa questione riguardante le pubblicazioni di
qualsiasi genere. Le due parti si accordarono per fissare la doppia censura
delle autorità statali ed ecclesiastiche sulle pubblicazioni provenienti da
altri Stati e su quelle del Regno. In particolare si stabilì che qualsiasi
testo o opuscolo stampato nel Regno di Napoli non poteva essere divulgato senza
l'approvazione degli ordinari diocesani. In realtà la censura ecclesiastica anziché
dai vescovi fu esercitata dall'Inquisizione Romana e dalla Congregazione
dell'Indice. Il papa al fine di evitare troppe contestazioni e controversie,
invitò a più riprese i censori a usare prudenza nell'esercizio delle loro
funzioni. Inoltre, per ovvi e giustificati motivi si concedeva l'autorizzazione
alla lettura di libri proibiti su richiesta scritta e motivata. Un piccolo
esempio in tal senso è fornito dalla seguente lettera che il 13 aprile 1755
l'avvocato Camillo Carosi di Chieti scrisse alla Congregazione dell'Indice:
"L'avvocato Camillo Carosi nativo
della città di Chieti, oratore umilissimo dell'EE.VV. con tutto l'ossequio
riverentemente espone come fra lo strepito de' giudizi e le difese delle cause
ed anche per sua maggiore erudizione, bisognandogli spesso leggere e
riscontrare libri ed autori proibiti tanto in legge civile e canonica che
filologici, filosofici, teologici, morali, istorici, sacri e profani e di
qualsiasi altra scienza arte e facultà; supplica perciò la bontà di aggraziare
l'oratore di potere li detti libri proibiti leggere, e ritenere presentando a
tal fine l'attestato del Vicario capitulare di Chieti che la grazia vostra"[6].
Il
capitolo VIII si occupava di materia beneficiaria.
Con
il capitolo IX s’istituiva il Tribunale Misto composto da tre ecclesiastici (di
cui due di nomina papale) e due laici che restavano in carica per tre anni, dopodiché
si sostituivano. L'obbligo del loro mantenimento doveva essere ripartito tra la
Santa Sede e le autorità civili del Regno. Alcuni suoi compiti erano: il
controllo dell'amministrazione degli ospedali, confraternite e altri luoghi pii
laicali amministrati da laici; dirimere annose controversie giuridiche e
vertenze di carattere ecclesiastico; decidere quali cause erano di competenza vescovile, in materia d’immunità locale e sulle
pretese di franchigie degli ecclesiastici.
I
rimarchevoli risultati e concessioni ottenuti dalla monarchia borbonica con il
Concordato furono dovuti anche all'atteggiamento collaborativo e costruttivo del
papa Benedetto XIV che era considerato un uomo di ampie vedute e un innovatore
aperto al dialogo, tant'é vero che nella sua biografia si ricorda uno scambio
epistolare e un regalo da lui corrisposto all’illuminista francese Voltaire che
sosteneva il deismo, la concezione
che considera Dio autore dell'universo e varie tesi in opposizione alla
dottrina cattolica.
3. La politica ecclesiastica governativa dopo il Concordato.
L’attività
governativa, nel rispetto delle norme concordatarie seguì la filosofia giurisdizionalista
e fu caratterizzata da altre iniziative tese a ridurre le decime, i privilegi,
il patrimonio ecclesiastico e l'influenza del clero nella società civile. Nel
prosieguo di tale paragrafo, seguendo un ordine cronologico si elencheranno alcuni
tra i più importanti provvedimenti legislativi in tal senso.
Nel
corso del XVIII secolo, i Borboni introdussero nella legislazione del Regno il
principio dello "jus appellationis"
che consentiva ai sudditi di ricorrere alle
autorità civili contro le decisioni di quelle ecclesiastiche.
Il 29 dicembre Carlo III di Borbone con un
editto limitò l’autonomia del foro ecclesiastico.
Nel
1759 con un decreto riconfermato ed esteso in tutto il Regno dal regio
dispaccio del 25 luglio 1772, il re Ferdinando IV ordinò l'abolizione delle
decime sacramentali e impose l'obbligo a ogni Università del Regno di
corrispondere ai parroci la congrua conciliare di 100 ducati annui con
l'aggiunta di un'altra somma per il mantenimento della chiesa. Un altro dispaccio
del 14 agosto 1787 autorizzava le Università del Regno a dotare le parrocchie
di un supplemento di congrua in base ai fabbisogni[7].
Nel 1767 il re Ferdinando IV con una prammatica del 31
ottobre decretò l’espulsione dei Gesuiti da tutto il Regno di Napoli poiché
fonte di danni, abusi e fini avversi agli interessi dello Stato. Altre prammatiche successive dettarono le norme
attuative sulla loro espulsione e la confisca dell’ingente patrimonio che
avevano acquisito.
Nel
1769, in armonia con le disposizioni concordatarie e
altre a esso successive si riconosceva che le confraternite laicali svolgevano una rilevante azione economica e
pertanto esse rientravano nelle competenze delle autorità civili da cui
dovevano ottenere l'autorizzazione per l'erezione e lo statuto. L’ingerenza
ecclesiastica in tali organizzazioni fu limitata solo agli aspetti spirituali.
Di conseguenza durante il XVIII secolo, a causa
della politica riformista dei Borboni sanzionata dai Regi Assensi, esse
assunsero un carattere più secolarizzato.
Tra
il 1769 e il 1771 furono promulgate alcune leggi che vietarono le vendite, le
donazioni e le intestazioni ereditarie ai luoghi pii, ciononostante
continuarono a sussistere per diversi anni.
Queste
norme, insieme ad altre precedenti tra cui quella che ordinò l’espulsione dei
gesuiti, contribuirono a ridurre il cospicuo patrimonio della Chiesa nel Regno
di Napoli. Ad avviso di Placanica (1975) queste leggi insieme ad altre che
abolivano le immunità fiscali dei chierici, contribuirono alla riduzione anche
della popolazione ecclesiastica[8].
Nel 1781 il re Ferdinando IV decise che le rendite degli spogli dovevano essere assegnate ai Monti Frumentari.
Nel
1788 il marchese Caracciolo abolì l'omaggio della chinea, ovvero il tributo annuale che i re di Napoli, dall’epoca
normanna versavano al pontefice come segno dimostrativo del loro rapporto
di vassallaggio. Il fatto di per
sé è significativo poiché pose fine alle pretese feudali di dominio diretto del
pontefice nel Regno di Napoli. A tal proposito Brancaccio fa presente che: “Alla fine dell’ancien régime venne, dunque,
meno il punto di forza del sistema feudale pontificio, che nei secoli
precedenti si era fondato sulla amalgama del potere spirituale con quello
temporale. Con l’anomalia del rapporto feudale tra i due Stati, furono spazzati
via gli elementi gerarchici, che a lungo erano prevalsi nel sistema europeo
degli Stati moderni”.[9]
Nello
stesso anno fu decisa la soppressione delle decime e l’abolizione del foro
ecclesiastico, due istituti che continuavano ad assicurare al clero prerogative
e privilegi non goduti dai cittadini comuni.
Nel
1791 il re Ferdinando IV ottenne dal papa il diritto di nominare i vescovi
delle diocesi del Regno. Il pontefice a sua volta riservò per se stesso il
diritto di consacrarli o di esonerarli.
Nel
1796 Ferdinando IV ordinò che le decime ecclesiastiche soppresse anni prima fossero
devolute alla monarchia, quale tributo straordinario per acquisire i mezzi
necessari a difendere la religione, lo Stato e la vita dei suoi "amatissimi"
sudditi.
Esaminata
la panoramica delle più importanti norme di carattere ecclesiastico promulgate
nel Regno di Napoli durante il XVIII secolo, sorge spontanea una domanda: nel
loro complesso cosa dimostrano? Una risposta a tale quesito l’ha fornita De
Rosa, facendo presente che tutte le disposizioni legislative in materia
ecclesiastica del Settecento napoletano denunciano un anticlericalismo
utilizzato dalla borghesia quale copertura ideologica per giustificare il suo
assalto ai beni della Chiesa. A tal proposito l’eminente studioso scrisse: “la borghesia meridionale era non irreligiosa
ma antiepiscopale ed antiromana, perchè i vescovi, in quanto nutriti di
pastoralità tridentina, erano i primi nemici da combattere dentro e fuori la Chiesa.
Dentro la Chiesa, perchè la borghesia insieme alla nobiltà si era servita delle
ordinazioni per conquistare i suoi beni. Fuori, perchè il popolo ammalato di superstizione
e magia era facilmente manovrabile contro il vescovo religioso antimagico"[10]. L'ultima
espressione usata da De Rosa nella citazione è indicativa anche di un aspetto
della religiosità popolare nell'epoca considerata. Infatti, stregoneria
diffusa, superstizioni pagane e fascino della magia cerimoniale erano aspetti
molto comuni nella religiosità dell'Italia meridionale settecentesca. Su questo
particolare aspetto De Rosa precisa il suo pensiero affermando che: La religiosità popolare era anche un mondo
dove il tempo naturale, il cielo e la terra erano oggetto di un simbolismo
divinatorio e dove Dio lottava per uscir fuori natura, con sospiri e lamenti
coperto di peccati e perciò sempre in pericolo di ricadere nella natura"[11].
Il sentimento religioso, le forme di culto, la funzione dei parroci subirono nel XVIII secolo una trasformazione, a causa delle nuove disposizioni legislative emanate dal governo borbonico e dei modelli culturali che si diffusero durante il secolo. Ad influenzarli contribuirono anche le missioni popolari condotte da vari ordini religiosi tra cui i redentoristi fondati nel corso del secolo da Alfonso de’ Liquori. La loro attività di predicazione era rivolta ai ceti più umili per liberarli da antiche superstizioni e credenze pagane. Esse spesso si svolgevano in “toscano”, come tra l’altro succedeva anche in chiesa durante le messe. In questo modo il personale ecclesiastico contribuì a diffondere una lingua che poi diverrà quella nazionale.
4. Le parrocchie, i parroci, i preti e le funzioni della religione nel Regno di Napoli durante la dominazione borbonica del XVIII secolo.
Le istituzioni ecclesiastiche (parrocchie, monasteri, etc.) nell’epoca in esame: erano importanti punti di riferimento economici e religiosi poiché: offrivano il conforto materiale e spirituale a poveri e diseredati; erogavano prestiti di capitali; concedevano in affitto beni immobili vari (abitazioni, terreni agricoli e altro); contribuivano alla diffusione di valori morali e religiosi; esercitavano forme di controllo della vita comunitaria. In particolare nell’Italia Meridionale, durante tutta l’Età Moderna sino al decennio napoleonico, ad avviso di Cestaro la parrocchia “era uno dei pochi centri di aggregazione sociale sia sul piano religioso che civile ed economico”[12]. Essa assolveva a funzioni d'anagrafe civile; esercitava il controllo sociale attraverso gli obblighi di partecipazione alle messe festive, la confessione e la predicazione domenicale; ritmava la vita quotidiana fissando i giorni lavorativi e quelli di riposo da dedicare non all'ozio ma all'osservanza delle pratiche di culto; sacralizzava i momenti più importanti dell'esistenza umana con la somministrazione dei sacramenti; spesso era il luogo in cui si radunavano le assemblee comunitarie, si eleggevano i rappresentanti delle Università, rogavano gli atti notarili e leggevano gli annunci sia civili che religiosi. In molti ambiti delle regioni meridionali le funzioni parrocchiali erano esercitate anche da altri centri religiosi che assunsero le seguenti denominazioni: arcipreture, chiese ricettizie e collegiate.
Erano definite arcipreture le parrocchie rette da un sacerdote
definito arciprete che spesso era anche il capo religioso locale. In alcuni
casi il titolo di arcipretura fu assegnato alle chiese matrici che sostituirono
le pievi di origine medioevale. A sua volta il titolo di arciprete, in diversi
casi si assegnava anche ai rettori di chiese ricettizie.
Le
chiese ricettizie, molto diffuse in alcune Regioni del Regno, erano
caratterizzate da: 1) una notevole autonomia amministrativa e corporativa; 2)
un proprio patrimonio di beni definito massa comune; 3) una struttura
collegiale formata da più sacerdoti che godevano di tutti i benefici annessi
alla chiesa, attendevano alle impellenze dell'attività pastorale e conducevano
vita comune. All’epoca, la fondazione
di una chiesa ricettizia assicurava i seguenti vantaggi: 1) assegnava le funzioni parrocchiali non a un singolo sacerdote ma
all’intero corpo collegiale e di conseguenza aumentava la componente
clericale disponibile per le attività pastorali; 2) riuniva tutti i benefici e
le rendite ecclesiastiche utili per il sostentamento del clero ricettizio; 3) rendeva
possibile l’acquisizione di una maggiore autonomia sull’ordinario diocesano che
aveva il diritto d’intervenire nelle questioni spirituali, ma non poteva
richiedere tasse per la Curia. Di solito il clero ricettizio dell'Italia
meridionale era formato da membri delle stesse famiglie che partecipavano alla
gestione della massa comune e all'utilizzazione dei suoi benefici. In questo
modo aumentava il prestigio economico-sociale delle famiglie a cui
appartenevano le dinastie sacerdotali che avevano concorso a fondarle, ma si
escludevano dai benefici e rendite i sacerdoti di altre origini famigliari.
Le collegiate per certi aspetti
sono assimilabili alle chiese ricettizie poiché sono caratterizzate da una struttura
collegiale di sacerdoti. Infatti, in ognuna di esse è istituito un capitolo o
collegio di sacerdoti definiti canonici che gestiscono le funzioni sacre e il
patrimonio comune. Di solito anche quando il capitolo cessa di esistere, tali
chiese conservano il titolo originario.
Nella stessa epoca il clero dell'Italia meridionale si
poteva suddividere nelle seguenti categorie: una frazione molto numerosa che
non aveva cura d'anime e sopravviveva percependo i diritti per la celebrazione
di messe e le rendite che assicurava il patrimonio sacro; il clero ricettizio
che viveva con i proventi della massa comune di beni assegnati in dotazione
alla propria chiesa; il clero che in generale si può definire fortemente
tridentino e viveva nelle curie arcivescovili; i parroci delle chiese di libera
collazione vescovile e di patronato che vivevano con proventi vari derivanti
dall'esercizio delle funzioni sacre, la somministrazione dei sacramenti, la
raccolta delle decime, la riscossione della congrua, le libere offerte e le
donazioni.
All’epoca
la componente clericale dell’Italia Meridionale assommava alle competenze
culturali religiose, altre strettamente civili riguardanti le norme sui vari
tipi di contratti, le loro modalità di stesura, l'usura e altri atti pubblici.
La
professione di parroco e la carriera ecclesiastica erano ambite poiché non
esistevano molte possibilità di scelte professionali, la maggior parte della
popolazione viveva a livelli di pura sussistenza e l’accesso al sacerdozio consentiva
di migliorare il tenore di vita.
Come
si è potuto osservare nei capitoli precedenti, la nuova legislazione regnicola
facilitava l'accesso agli ordini sacri a chi poteva avere un ingente patrimonio
sacro e quindi ai soggetti che provenivano dalle classi agiate: i rampolli dei
baroni, della borghesia e dei ricchi proprietari terrieri. Erano esclusi dalla
carriera ecclesiastica i rappresentanti delle classi più povere che, nei casi
più fortunati, potevano sperare solo che un proprio membro entrasse in qualche
monastero per diventare chierico minore o regolare. Questo particolare fatto
dimostra che la Chiesa, con la selezione di classe dei propri ministri di
culto, perse un certo ruolo che in piccola misura aveva ricoperto nel passato:
offrire alle classi più diseredate la possibilità di aspirare al riscatto
sociale ed economico attraverso le ordinazioni sacerdotali.
In
questo periodo storico ad avviso di Placanica, in generale il prete "Saldandosi alle sorti di una borghesia in
ascesa si presentava come una sorte di funzionario o membro autorevole della
nuova intelligentia, ma sempre in funzione anticontadina"[13].
Per
quanto riguarda la figura dei parroci del Regno di Napoli, si può
sostanzialmente dire che essi erano membri della classe dominante a cui erano
assegnate molteplici funzioni civili e religiose. Di conseguenza erano protetti
dallo Stato e dalla Chiesa che assicuravano loro un adeguato sostegno
economico. Sia per la Chiesa che per lo Stato il parroco era un burocrate che
faceva rispettare alcune loro finalità. In particolare per la Chiesa era un
agente di trasmissione di valori religiosi e un mediatore
culturale tra la gerarchia ecclesiastica e il popolo dei fedeli. Nell’ideologia
dello Stato il parroco doveva essere civilmente utile, assurgere a ruolo
dirigente, dedicarsi all'istruzione della plebe, assolvere funzioni di anagrafe
civile, fornire i dati utili per le imposizioni
fiscali e l’amministrazione della giustizia. Il modo in cui nel XVIII
secolo il parroco delle campagne meridionali interpretava il proprio ruolo di
membro della classe dirigente era molto particolare. Da un lato avvertiva
questo ruolo per la provenienza sociale, per i compiti che doveva assolvere e
per il proprio livello d'istruzione rispetto alla massa, dall'altra, invece, si
sentiva parte integrante della società contadina condividendone molti
interessi, aspirazioni materiali, valori e modelli culturali, partecipando talvolta
direttamente al lavoro dei campi e curando l'assistenza materiale dei contadini
stessi. Tra l'altro, se voleva essere accettato, il parroco doveva parlare il
linguaggio dei suoi parrocchiani, essere loro vicino con la benedizione dei
campi e degli animali e con le preghiere intercedere presso Dio e i santi per
qualche grazia. Il parroco "tridentino", severo custode della fede e
contrario a ogni forma di superstizione e religiosità pagana, restava un sogno
a causa della complessa situazione economica e culturale in cui era costretto a
operare.
Nonostante
la provenienza dalle classi e ceti più abbienti, nel XVIII secolo i parroci e
preti dell'Italia meridionale erano sempre molto legati all'agricoltura e alla
terra. Infatti, grazie alle rendite dei terreni formanti il patrimonio sacro
potevano aspirare al sacerdozio; sempre grazie alla terra potevano vivere dopo
aver ricevuto gli ordini sacri ed era ancora la terra donata alla chiesa dopo
la morte che permetteva di celebrare messe in suffragio della propria anima per
aspirare alla felicità e salvezza eterna.
In
quest’epoca la religione cristiana continuava a permeare fortemente la vita
quotidiana, favoriva l’aggregazione sociale, era fonte ispiratrice di
comportamenti, atteggiamenti e valori che toccavano i rappresentanti di tutte
le classi sociali e anche lo strumento ideologico che giustificando l’ordine
esistente e l’origine divina di certe forme di potere, si utilizzava per dominare gli uomini.
I
ceti dominanti dell’epoca (nobili, feudatari, proprietari terrieri, membri
della borghesia, amministratori locali, etc.) rafforzavano il potere e prestigio
comunitario di cui godevano: manifestando pubblicamente l’adesione ai valori
religiosi dominanti; avendo all’interno delle chiese proprie insegne, posti
riservati e sepolcri famigliari; annoverando figure e cariche ecclesiastiche
tra i congiunti.
5. Le feste civili e religiose.
Durante il XVIII secolo, in continuità con quelli
precedenti e successivi si celebravano: feste civili legate a importanti eventi
locali, statali e della monarchia (imprese militari, nascite, nozze e morti dei
membri della casa reale, etc.) e le feste religiose di precetto che a loro volta
celebravano i santi considerati più importanti e i momenti più salienti del ciclo
liturgico annuale.
Nel
Regno di Napoli le celebrazioni festive ricorrevano in tutti i mesi dell’anno,
ma erano più concentrate tra aprile e novembre. Quelle del Santo Patrono erano
considerate le più importanti, potevano durare più giorni e in esse la
processione solenne e altri riti religiosi erano accompagnati da fiere, bande
musicali, accensione di luminarie, fuochi pirotecnici, alberi della cuccagna e
altri divertimenti popolari che nel loro insieme rompevano il ritmo angusto
della quotidianità e creavano l’illusione dell’esistenza di un mondo in cui la
felicità, l’abbondanza e il benessere alimentare erano alla portata di tutti.
Se
in base all’oggetto da celebrare si possono separare le feste religiose da
quelle civili, invece in base alle modalità celebrative si osservano delle affinità
notevoli tra i due soggetti poiché: da un lato anche le feste civili erano
caratterizzate da riti religiosi che avevano il fine sacralizzare lo Stato e i
suoi rappresentanti; dall’altro anche molte feste religiose erano
caratterizzate da divertimenti popolari, riti di trasgressione e sfarzo che non
avevano nulla a che fare con la religione e il cristianesimo. Ad avviso di D’Antonio,
dal 1738 il re Carlo III riconosceva esplicitamente il carattere politico anche
delle feste religiose e di conseguenza se ne riservò in via esclusiva la
gestione[14].
Nel corso del secolo il calendario festivo fu oggetto di
variazioni poiché registrò cancellazioni e nuove introduzioni. Nel loro insieme le occasioni
festive religiose e civili erano molto numerose e dai secoli precedenti furono
oggetto di discussioni e normative tendenti a ridurle. Una di esse fu adottata
il 17 marzo 1476, quando il re Ferrrante d'Aragona rese pubblica una prammatica
che ordinava la riduzione dei giorni festivi nel Regno di Napoli.
I
tentativi di ridurre le feste religiose ripresero vigore durante il Settecento
Borbonico sia da parte delle autorità civili sia di quelle ecclesiastiche. Una
delle più importanti in tal senso si ebbe il 12 dicembre 1748, quando il papa Benedetto
XIV con un breve indirizzato a tutti i prelati del Regno ordinò che oltre alle
domeniche si osservasse il precetto festivo durante le seguenti ricorrenze: la
Pasqua di Resurrezione, la Pentecoste, la Circoncisione, l'Epifania,
l'Ascensione, il Corpus Domini, il Natale, la Purificazione, l'Annunziata,
l'Assunta, la Natività e Concezione della Vergine, S. Pietro e Paolo,
Ognissanti, il protettore del luogo e della diocesi. La direttiva papale
prevedeva anche che nei giorni di precetto festivo si doveva osservare il riposo
assoluto, mentre in occasione di altre feste era consentito lavorare purchè si
ascoltasse la messa.
Accettando
la bolla pontificia, il re Carlo III con una prammatica promulgata il 3 gennaio
1749 ordinò che nei giorni festivi fossero chiuse le botteghe, mentre le
autorità locali dovevano vigilare sull'insegnamento ai fanciulli della dottrina
cristiana.
Durante
il secolo, ad avviso di D’Antonio, la celebrazione del Carnevale ebbe un
notevole impulso al fine di contrapporlo con la sua immagine di abbondanza e
libertà all’austerità quaresimale, affermare l’indipendenza dello Stato rispetto
alla Chiesa e al papato e dare visibilità al processo di accentramento statale
in corso[15].
L’organizzazione
e la celebrazione delle festività locali da osservare e celebrare molto spesso erano
delegate alle confraternite e ai procuratori delle cappelle laicali erette
nelle singole chiese. Questi ultimi in particolare avevano il compito di
celebrare la festa del santo a cui la cappella era dedicata attingendo alle
risorse patrimoniali che erano state assegnate alle stesse con l’atto di
fondazione.
Spesso
tra le confraternite sorgevano rivalità riguardanti le celebrazioni festive, il
posto da occupare durante le processioni e altri motivi.
6. La situazione abruzzese.
Durante
il XVIII secolo la Regione continuò a essere suddivisa tra due Province, mentre
la popolazione registrò una crescita e a fine secolo raggiunse la cifra di oltre
630000 abitanti.
Nello
stesso periodo il notevole incremento demografico che ebbero alcuni casali
permise loro di acquisire il diritto a un’autonomia amministrativa e ad eleggere
proprie cariche pubbliche rappresentative. Di conseguenza aumentò anche il
numero delle Università abruzzesi, ossia dei Comuni che ad avviso di Brancaccio
da 267 del 1501 passò a 491 nel 1732[16].
Nell’epoca
in esame l’Abruzzo attraversava una fase di stagnazione che rallentava lo
sviluppo e Nigro individua nei “soprusi
di organismi fiscali e doganali” le principali cause che a suo avviso “bloccavano il naturale sviluppo economico e
produttivo”[17].
Il
delicato contesto regionale dell’epoca era evidenziato da varie personalità tra
cui Giuseppe
Maria Galanti, un importante esponente dell’illuminismo napoletano che
fece vari viaggi in Regione e il ministro Tanucci il quale a sua volta fece
presente che la difficile congiuntura economica osservabile in Abruzzo era la
conseguenza del contrabbando con lo Stato Pontificio che consentiva il traffico
illegale di vari prodotti tra cui il grano, la lana, il riso, il sale e il
tabacco[18].
All’epoca,
anche in Abruzzo continuava a persistere il regime feudale che condizionava
fortemente la realtà economica-sociale e nel Regno di Napoli fu definitivamente
abolito solo durante il decennio napoleonico (1806-1815). A causa di ciò la
gran parte delle Università o Comuni abruzzesi erano infeudati a importanti
signorie che possedevano vasti territori comprendenti numerose località o a piccoli
feudatari che possedevano solo un paese. Nel suo complesso circa l’80% della
popolazione abruzzese era sottoposta al regime feudale e dipendeva da qualche
barone, mentre poche erano le Università cosiddette demaniali che non erano
infeudate e dipendevano direttamente dalla corona.
Nelle
località sottomesse alla giurisdizione feudale, le varie signorie cercavano di
trarre i maggiori profitti possibili, mentre gli investimenti per migliorare
l’economia e le strutture produttive erano praticamente inesistenti. Di solito
alla giurisdizione feudale era annesso il possesso dei seguenti privilegi e
diritti da parte dei baroni: il diritto d’imporre tasse di qualsiasi natura su
beni e servizi; diritti di privative sulle attività commerciali e produttive
(forni, mulini, valchiere, etc.); il diritto di nominare il governatore
baronale, ovvero un rappresentante del barone di turno che partecipava alle
assemblee pubbliche comunali e presiedeva la corte feudale[19].
Oltre
ai feudi laici nella Regione esistevano anche quelli ecclesiastici e quindi
anche la Chiesa e le sue istituzioni entravano come componenti attive nei
giochi e meccanismi feudali assecondandone le regole[20].
A dimostrazione di questa tesi concorrono i numeri che seguono. Ad avviso di
Novi Chavarria nelle provincie dell’Abruzzo Citra e Ultra tra il XV e il XVIII
secolo esistevano 58 feudi ecclesiastici che erano posseduti da: i vescovi di
Chieti, Ortona, Teramo e Sulmona-Valva; le abbazie e monasteri di Montecassino,
Montesanto, San Bartolomeo e Santa Maria in Trigulti, San Clemente a Casauria, San
Giovanni di Collimento, San Giovanni di Scorzone, San Quirico di Roma, San
Francesco di Tocco, Santa Maria di Casanova, Santo Spirito del Morrone, Santa Chiara
di Sulmona e dei Padri Celestini de L’Aquila; l’Oratorio di San Filippo Neri di
Roma; la Chiesa di Santo Spirito di Avezzano; il Capitolo di San Pietro di Roma[21].
Ai
beni sottoposti alla giurisdizione feudale ecclesiastica, la chiesa abruzzese
aggiungeva i beni allodiali o di piena proprietà che erano posseduti in tutte
le località della Regione dalle curie vescovili, le parrocchie, le chiese, i monasteri,
gli oratori, i luoghi pii, etc. Per questi motivi la Chiesa abruzzese
settecentesca aggiungeva alla notevolissima influenza religiosa anche quella
economica dovuta a: il possesso di animali domestici, terreni agricoli,
pascoli, abitazioni e strutture produttive (mulini, forni, valchiere, etc.); la
capacità di tutte le istituzioni ecclesiastiche di concedere in prestito somme
di denaro e di affittare i propri beni con contratti di vario tipo.
Ad avviso di Brancaccio la larga fetta di proprietà fondiaria e l’attività creditizia nel loro insieme costituivano gli assi portanti delle entrate della chiesa abruzzese [22].
6.1
Le sedi vescovili e gli ordinari diocesani abruzzesi durante il Settecento borbonico.
All’epoca
in esame i Comuni che ora appartengono all’Abruzzo, nel loro complesso erano
ripartiti tra nove circoscrizioni diocesane che furono rette dai seguenti
presuli:
1)
Arcidiocesi
di Chieti-Vasto: Filippo Valignani (1722-1737), Michele Palma (6 maggio 1737 - 23
marzo 1755), Nicola
Sánchez de Luna (21
luglio 1755 - 9
aprile 1764), Francesco
Brancia (9
aprile 1764 - 7
gennaio 1770), Luigi del
Giudice,
(12 marzo 1770 - 1790), Ambrogio Mirelli (27
febbraio 1792 - 22
luglio 1795), Francesco
Saverio Bassi
(18 dicembre 1797 - 26
marzo 1821).
2)
Diocesi
di Lanciano: Arcangelo Maria Ciccarelli (dal 1731 al
19 dicembre 1738), Domenico De Pace (26 gennaio 1739 -
marzo 1745), Anton
Ludovico Antinori
(21 giugno 1745 - 22
aprile 1754), Giacomo Leto
(20 maggio 1754 – 5
febbraio 1769), Domenico
Gervasoni (20 novembre 1769 -
novembre 1784), Francesco
Saverio De Vivo (18 dicembre 1786 - 27
febbraio 1792), Francesco Amoroso (27 febbraio 1792 -
8 luglio 1807).
3)
Arcidiocesi
de L’Aquila: Domenico
Taglialatela
8 giugno 1718- 18 marzo 1742), Giuseppe Coppola (25
maggio 1742 - 1 dicembre 1749), Ludovico Sabatini d'Anfora (23
febbraio 1750 - 6
luglio 1776), Benedetto
Cervone (23
giugno 1777 - 31
marzo 1788), sede vacante (1788-1792), Francesco Saverio Gualtieri (26
marzo 1792 - 6
aprile 1818).
4)
Diocesi
di Avezzano: Giuseppe Barone (5
marzo 1731 - 29
maggio 1741), Domenico Antonio Brizi (29 maggio 1741 - 6
settembre 1760), Benedetto
Mattei (15 dicembre 1760 - 23
giugno 1776), Francesco
Vincenzo Lajezza (16 dicembre 1776 - 31
ottobre 1792), sede vacante (1792-1797),Giuseppe
Bolognese (18 dicembre 1797 - 17
marzo 1803).
5)
Diocesi
di Sulmona-Valva: Matteo Odierna (17 marzo 1727 -
26 giugno 1738), Pietro Antonio
Corsignani (23
luglio 1738 - 17
ottobre 1751), Carlo De
Ciocchis (24 gennaio 1752 - 10 settembre 1762), Filippo Paini
(22 novembre 1762 - 1799).
6)
Diocesi
di Teramo: Tommaso Alessio de' Rossi (9
aprile 1731 - 6 gennaio 1749), Tommaso Panfilo
Antonio Mazzara
(21 aprile 1749 - 30
agosto 1766), Ignazio
Andrea Sambiase (16 febbraio 1767 - 16
dicembre 1776), Luigi Maria
Pirelli (17 febbraio 1777 - 29
ottobre 1804).
7)
Diocesi
di Ortona-Campli: Giovanni Vespoli-Casanatte Giovanni
Romano (11 settembre 1730
- 26 settembre 1735), Giovanni Romano (11 settembre 1730 - 26
settembre 1735), Marcantonio
Amalfitani (26 settembre 1735 - 11
novembre 1765), Domenico de
Dominicis (27 gennaio 1766 - 8
marzo 1791), Antonio Cresi (26
marzo 1792 - 22
settembre 1804).
8)
Diocesi di Penne e Atri: Francesco
Antonio Bussolini (27 settembre 1723 - 20 marzo
1746), Innocenzo Gorgoni, (2 maggio 1746 - 13
febbraio 1755), Gennaro Perrelli (21 luglio 1755 - 27
maggio 1761), Giuseppe Maria de Leone (25 gennaio 1762 - 7
aprile 1779), Bonaventura Calcagnini (12 luglio 1779 - 1797), 1797 - 1805 sede vacante.
9) Diocesi di Trivento: Fortunato Palumbo (18 dicembre 1730 - 19 luglio 1753), Giuseppe Maria Carafa Spinola (22 luglio 1754 - 19 luglio 1756), Giuseppe Pitocco (19 luglio 1756 - 30 maggio 1771), Gioacchino Paglione (23 settembre 1771 - dicembre 1790), Luca Nicola De Luca (26 marzo 1792 - 7 giugno 1819)[23].
6.2 La cura d’anime.
Durante il XVIII secolo in Abruzzo le organizzazioni
ecclesiastiche addette alla cura d’anime erano inquadrabili nelle
seguenti categorie: le arcipreture, le collegiate, le semplici parrocchie e le
chiese ricettizie.
Le semplici parrocchie erano presenti in quasi tutte le
Università o Comuni e potevano avere alle loro dipendenze altre chiese. A
dirigerle c’era
un rettore curato che talvolta era definito abate. In base a chi competeva la
scelta dei rettori, esse potevano essere di libera collazione vescovile o di
patronato regio, baronale, delle Università, di abbazie e monasteri.
Nelle parrocchie di libera collazione vescovile, i rettori
erano scelti dagli ordinari diocesani, mentre negli altri casi la scelta
competeva ai seguenti soggetti: i feudatari locali laici ed ecclesiastici (tra
questi gli abati dei monasteri), i rappresentanti delle Università e il re.
Quando una parrocchia era di patronato e contemporaneamente
sottoposta anche alla giurisdizione vescovile, la scelta dei rettori competeva inizialmente
al legittimo patrono e poi riceveva la conferma canonica dell’ordinario
diocesano. Di solito la scelta cadeva su personaggi di fiducia dei baroni che in
questo modo rafforzavano il loro potere.
Molte parrocchie non avevano confini geografici precisi ed
erano ripartite in famiglie. Questa particolare organizzazione si scontrava con
le prescrizioni tridentine che prevedevano la ripartizione geografica in aree
distinte e aveva ragioni sostanzialmente economiche poiché evitava che a
qualche parrocchia appartenessero solo famiglie ricche e ad altre quelle
povere.
Di
solito erano definite arcipreture, le sedi di parrocchie abruzzesi dell’epoca
che erano rette da un arciprete a cui era assegnato il ruolo di capo religioso
del luogo. La loro maggioranza era di patronato feudale e in questo modo il
barone locale controllava anche la vita religiosa.
Le collegiate in
genere erano diffuse nei centri sedi delle diocesi e nei comuni più grossi.
Non si hanno dati precisi riguardanti la distribuzione delle
varie tipologie di organizzazioni ecclesiastiche addette alla cura d’anime in
Abruzzo nel periodo in esame. Per un piccolo raffronto si considereranno i dati
riguardanti le parrocchie dell’Italia Meridionale del 1820. A tal proposito
Rosa ha scritto che nell’Italia Meridionale
c’erano 3734 parrocchie di cui 1087 erano ricettizie[24].
Nella Provincia d’Abruzzo Ultra, l’autore ingloba nel compito delle chiese
ricettizie anche le collegiate e precisa che esse nel loro insieme costituivano
il 9% del totale delle parrocchie del Regno. Di conseguenza raggiungevano la
cifra di circa 98 unità. Non si riportano dati per l’Abruzzo Citra in cui ad
avviso di Rosa il numero delle chiese ricettizie doveva essere tra i più bassi
di tutto il Regno di Napoli.
Nell’epoca
in considerazione il numero dei sacerdoti era molto alto per i motivi socio-economici
precedentemente accennati e per quelli socio-religiosi legati alla necessità di
soddisfare i numerosi legati pii e le richieste di celebrazione di messe delle
confraternite, connesse alla fondazione di cappelle laicali e disposte nei lasciti
testamentari.
Tuttavia
in Abruzzo Brancaccio sottolinea che: “vi
erano alcune aree provinciali periferiche e montuose, frammentate dal punto di
vista socio-economico e finanche orografico e geologico, in cui la presenza del
clero, in particolare quello secolare, era inadeguato alle esigenze della
popolazione dei fedeli”[25].
Le
ricerche effettuate dallo scrivente in alcune località della Provincia di
Chieti hanno dimostrato che esistevano famiglie in cui si annoveravano vere e
proprie dinastie sacerdotali che hanno portato ad avere in tutto il Settecento
oltre quattro ordinazioni per ognuna di esse. Ciò dimostra che con molta
probabilità tanti giovani non seguivano una vocazione personale ma erano
indirizzati a scegliere la carriera ecclesiastica al fine di soddisfare ambizioni
e interessi famigliari finalizzati a ottenere privilegi fiscali, prestigio e
potere comunitario.
Alla
formazione dei sacerdoti regionali, durante il XVIII
secolo provvedevano dieci seminari distribuiti nelle varie diocesi e quattro
collegi gesuitici presenti ad Atri, Chieti, L’Aquila e Sulmona[26].
Con la soppressione dell’ordine
gesuitico, i collegi furono destinati ad altre finalità.
Alcuni sacerdoti abruzzesi acquisirono una notevole importanza
culturale e seguirono le correnti filosofiche e letterarie che caratterizzarono
il secolo. Il primo di essi fu Antonio Ludovico Antinori (1707-1778) che nacque
e morì a L’Aquila, fu nominato vescovo di Lanciano e durante la sua vita
raccolse notizie storiche sull’Abruzzo e le sue
località, recando un originale e importantissimo contributo alla storia regionale.
Il secondo importante chierico abruzzese vissuto durante il
XVIII secolo fu Ferdinando Galiani (1728 –1787) che è considerato un importante
economista, nacque a Chieti e morì a Napoli. Durante la sua vita soggiornò a
Parigi come segretario d’ambasciata, oltre che d’economia si occupò di linguistica
e scrisse anche opuscoli umoristici.
Il terzo di essi fu il frate cappuccino Bernardo Valere
(1712-1783) che nacque a Giuliano Teatino (Ch) ed è considerato uno dei più
grandi esponenti della letteratura araldica abruzzese.
Un altro importante chierico fu Domenico Romanelli che nacque
a Fossacesia nel 1728 e morì a Chieti nel 1819. Durante la sua vita si occupò
di storia regionale, partecipò a scavi archeologici a Pompei e Paestum, insegnò
al seminario di Chieti e fu membro dell’Accademia Pontaniana di Napoli.
6.4 Le confraternite.
Le confraternite sono associazioni
di fedeli della Chiesa Cattolica con finalità d’impegno liturgico, caritativo e
assistenziale di soccorso a poveri e moribondi. Esse nell’epoca
in esame erano tra le poche associazioni legittimate a svolgere attività assistenziali,
sociali, economiche e religiose.
In
generale dalla fondazione in poi furono oggetto di donazioni varie che
permisero di accrescere il patrimonio e organizzare le attività previste dai
loro statuti.
Le
funzioni e le attività che le confraternite settecentesche svolsero anche in
Abruzzo furono molteplici. Innanzitutto furono una scuola di democrazia per gli
iscritti attraverso le modalità d'elezione delle proprie cariche di governo, un
centro per rafforzare la solidarietà sociale tra i soci con la vita associativa
e una scuola per l'esercizio e lo sviluppo di virtù morali. Inoltre esse possono
essere considerate istituzioni collaterali delle parrocchie che condizionarono
l’attività parrocchiale imponendo culti particolari, la celebrazione di feste
religiose, nuove forme di religiosità popolare, devozione, pietà e carità
cristiana. Con il loro contributo nel corso del secolo aumentò anche la
partecipazione popolare alle attività religiose. Infatti, gli iscritti erano
tenuti a partecipare a varie pratiche di culto e attività caritative tra cui:
recitare un certo numero di preghiere nel corso della settimana, partecipare
alle messe, accompagnare i defunti durante i funerali e impegnarsi in opere di
carità cristiana.
Le
confraternite contribuirono alla diffusione d’istituzioni e opere pie tra cui
gli ospedali e i monti frumentari, assolsero a funzioni ricreative con
l’organizzazione delle feste religiose ed economiche con la concessione a terzi
di beni immobili, denaro e bestiame. Infatti, da iniziali centri di
aggregazione religiosa ampliarono i propri compiti con la manutenzione delle
chiese in cui furono fondate, la beneficienza e la concessione di capitali e
beni immobili a modico interesse a contadini e braccianti. Spesso i loro
procuratori prestavano denaro contante a tassi agevolati che, nel rispetto di
una bolla del papa Niccolò V dovevano oscillare tra il 7 e il 10%. Chi riceveva
il denaro, ipotecava un proprio bene e s’impegnava a versare annualmente un
canone corrispondente alla quota d’interesse pattuita. I pagamenti potevano
durare molti anni ed essere trasmessi agli eredi. La loro estinzione avveniva
nel momento in cui il beneficiario del prestito restituiva tutta la cifra
ricevuta. In questo modo, nel contesto economico di mera e pura sussistenza con
frequenti carestie in cui la maggioranza della popolazione abruzzese dell’epoca
in esame era costretta a vivere, le associazioni confraternali tentavano di
dare una risposta che consentisse di superare le difficili e precarie condizioni
esistenziali.
Alla
gestione delle risorse economiche confraternali dell’epoca provvedeva un
procuratore che in base alle ricerche dello scrivente poteva essere un chierico
o un laico alfabetizzato che generalmente proveniva dalla classe media ossia la
borghesia dell’epoca. Alla luce di questi fatti, si può ammettere che anche
attraverso tali associazioni, i rappresentanti dei proprietari terrieri e della
borghesia abruzzese assecondavano le ambizioni di potere e di arrampicata
sociale.
Ad avviso di Bigi (2017) durante il XVIII secolo, in Abruzzo
le confraternite raggiunsero il loro massimo storico. Tuttavia se si disegna
una linea curva che registra il loro andamento numerico, si osserva che
l’ultimo periodo del secolo essa assume un carattere discendente. Infatti, tali
associazioni si ridussero in quanto molte tra quelle fondate sino alla prima
metà del XVIII secolo si sciolsero poiché non richiesero o ottennero il regio assenso
sulla fondazione o lo statuto. Sommando i dati riportati nell’elenco pubblicato
da Bigi (2017) risulta che nel corso del XVIII secolo nei vari Comuni e
località che attualmente appartengono alle diocesi abruzzesi erano erette le
seguenti confraternite: L’Aquila 180, Sulmona circa 110, Avezzano circa 140, Pescara-Penne
circa 70, Teramo-Atri 109, Chieti 96, Lanciano-Ortona circa 40 e Comuni abruzzesi
della diocesi di Trivento 12.
6.5 Le feste religiose abruzzesi nel XVIII secolo.
Durante il XVIII secolo
si celebravano vari tipi di feste religiose che erano considerate di precetto e
quindi era richiesta la partecipazione alle funzioni religiose. Volendo tentare
un’iniziale loro classificazione e ripartizione, esse possono essere cosi
suddivise: 1) feste di precetto domenicali che si celebravano ogni fine
settimana; 2) feste di precetto ordinate dai sinodi diocesani e dalle bolle
pontificie con cui si celebravano importanti santi (gli apostoli, i santi
patroni delle diocesi e delle singole località) e particolari momenti del
calendario liturgico (Natale, Pasqua, Corpus Domini, Ascensione, etc.).
Anche in Abruzzo il numero di feste religiose da celebrare
variò a causa delle scelte e indirizzi delle autorità ecclesiastiche, della
volontà delle autorità locali e dei nuovi culti che si svilupparono. La loro
casistica molto numerosa ha diverse cause e motivazioni. Una di esse va
ricercata nel fatto che nel XVIII secolo le varie comunità scelsero nuovi santi
patroni e fondarono edifici di culto dedicati a santi coperti da aloni
leggendari e a cui si attribuivano grandi poteri taumaturgici[27].
Di conseguenza in coincidenza con le nuove costruzioni di chiese e le scelte
dei nuovi patroni celesti si fissarono anche nuove giornate festive religiose
che variarono da località a località.
[1] De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud: ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, pp.
201-203.
[2] Tucci V. A., Osservazioni sul
trattato di accomodamento tra la Santa Sede e il Regno di Napoli (1741), pag. 4.
[3] Con l’espressione “mano
morta” si designa l’estesa proprietà ecclesiastica improduttiva che
esisteva nel Regno di Napoli.
[4] La tonsura era un rito che è stato abolito e in passato segnava
l'ingresso nello stato clericale. Durante il suo svolgimento il vescovo
tagliava cinque ciocche di capelli, per simboleggiare la rinuncia al mondo da
parte del nuovo chierico.
[5] Scaduto G., Stato e
Chiesa nelle Due Sicilie, vol. I, pagg. 104-105. [5] Il
“patrimonio sacro” era la dotazione economica che si
assegnava a un aspirante al sacerdozio al fine di garantirgli un decorso
sostentamento autonomo. I beni che lo
costituivano erano inalienabili, insequestrabili e alla morte del sacerdote
tornavano alla famiglia d’origine. Durante il concilio di Trento si
ordinò che ogni aspirante chierico per accedere ai sacri ordini doveva
dimostrare di avere i mezzi per mantenersi autonomamente senza i frutti di
qualche beneficio ecclesiastico. A quanto doveva ammontare il suo valore non fu
stabilito. L’assegnazione del patrimonio sacro da un lato consentiva di
ordinare sacerdoti solo chi proveniva da famiglie benestanti e nello stesso
tempo assicurava che ogni chierico fosse in grado di condurre una vita
dignitosa anche se non riusciva a ottenere qualche beneficio ecclesiastico.
[6] L’originale della lettera è conservato
nell’archivio privato della famiglia Tabassi di Lama dei Peligni.
[7] Si ricorda che nel Regno di
Napoli sino all’epoca napoleonica i Comuni erano chiamati Università.
[8] Placanica A., Chiesa e società nel Settecento meridionale: Vecchio e nuovo clero nel
quadro della legislazione riformatrice, pag. 135.
[9] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno moderno, pag. 70. [10]De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud, pag. 243.
[11] De Rosa G., Vescovi,
popoli e magia nel sud, op. cit., pag. 243.
[12] CESTARO A., Per una definizione tipologica e funzionale della parrocchia nel
Mezzogiorno nell’età moderna e contemporanea, pag. 166.
[13] Placanica A., Chiesa e
società nel Settecento meridionale, pag. 11.
[14] D’ANTONIO R., L’effimero necessario divertimento. Feste e
scenografie della Corte Borbonica. Il Carnevale del Febbraio 1854, pag.2.
[15] D’ANTONIO R., L’effimero necessario divertimento….,
op. cit. pag. 2.
[16] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
moderno, pag. 268.
[17] Nigro P., Fiumi, corsi
d'acqua e costumi nel Regno di Napoli: l'Abruzzo e le sue popolazioni al
tramonto del XVIII secolo, pagg. 61-62.
[18] INCARNATO G., In margine all‟elevato dibattito
sull‟eversione della feudalità nel Regno di Napoli: prassi e realtà
dell‟amministrazione degli allodiali d‟Atri alla vigilia della devoluzione
della feudalità, Centro abruzzese ricerche storiche, pp. 66-71.
[19] La corte
baronale o feudale era un organismo giudiziario con competenze civili e penali
che era presieduto da un governatore o capitano di giustizia assistito da uno o
due mastrodatti. Nella corte feudale si giudicavano alcuni reati e si
stipulavano atti di procura, compravendite, transazioni, dichiarazioni, e
contratti vari. Il governatore che la presiedeva rappresentava il feudatario del
luogo e nelle cause fungeva da arbitro tra le parti, aveva anche altri poteri
poiché poteva convocare e presiedere i pubblici parlamenti comprendenti i
rappresentanti delle comunità liberamente eletti, controllare le finanze
locali, costringere al pagamento dei pesi fiscali, etc.
[20] A rinforzare la convinzione che
in Abruzzo la Chiesa entrava nei meccanismi feudali concorre il fatto che Nel
XVIII secolo l’ordinario diocesano teatino, in ossequio a un’antica tradizione
continuava a essere definito Conte di Chieti.
[21] Novi Chavarria E., I feudi ecclesiastici nel Regno di Napoli:
spazi, confini e dimensioni (secoli XV-XVIII), pagg. 369-371. L’elenco riportato comprende anche i possedimenti
ecclesiastici di località che all’epoca appartenevano alle due province abruzzesi
e ora fanno parte della Regione Lazio.
[22] BRANCAGGIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
moderno, pag.124.
[23] La diocesi di Trivento ha la
sede vescovile in Provincia di Campobasso e all’epoca in esame comprendeva i
seguenti comuni abruzzesi: Alfedena, Borrello, Castel di Sangro, Castelguidone, Castiglione Messer Marino, Celenza sul Trigno, Roio del Sangro, Rosello, San Giovanni Lipioni, Schiavi di Abruzzo e Torrebruna.
[24] ROSA M., Storia socio-religiosa del Mezzogiorno, Quaderni storici, pag.
256.
[25] BRANCAGGIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno
moderno, pag. 114,
[26] Marino A., Condizioni economiche e riformismo borbonico nel Settecento, pag. 34.
[27] Per la conoscenza delle chiese abruzzesi fondate o ricostruite nell’epoca in considerazione si veda il seguente saggio: BARTOLINI SALIMBENI L., Delle tipologie religiose nell’architettura abruzzese fra XI e XIX secolo, in Abruzzo, rivista dell’Istituto di Studi abruzzesi, vol. I, 2000, SIGRAF Ed, (Pe), pagg. 205-306.
Bibliografia
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