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28 gennaio 2023

Amelio Pezzetta, La Chiesa in Abruzzo dall’inizio della dominazione borbonica (1734) alla Repubblica Partenopea (1799).

Abruzzo Ulteriore e Citeriore, Rizzi Zannoni, 1783.

 di Amelio Pezzetta 

 1. Introduzione

Nel 1734 Carlo III di Borbone, a capo di un esercito spagnolo fece il suo ingresso trionfale a Napoli e nel 1735 conquistò anche la Sicilia e fu incoronato re a Palermo. Il riconoscimento internazionale e definitivo del potere della dinastia borbonica e del suo primo esponente sull’Italia Meridionale avvenne nel 1738, quando si concluse la guerra di successione polacca e a Vienna fu firmato il trattato di pace.

Uno dei primi problemi che il nuovo re dovette affrontare fu il rapporto con le istituzioni ecclesiastiche e in particolare con la Santa Sede per chiarire una volta per tutte alcune questioni reciproche ancora irrisolte tra cui il controllo degli enti ecclesiastici, l’inquisizione, il potere degli ordinari diocesani, l’investitura pontificia, l’omaggio della chinea, i privilegi fiscali dei chierici e della chiesa.

All’epoca nel Regno di Napoli la Chiesa aveva un’importantissima influenza religiosa ed economica poiché: considerava il Regno di Napoli uno stato vassallo della Santa Sede, vantava il possesso di feudi e vasti beni immobilizzati in modo improduttivo; non corrispondeva nessuna imposta allo Stato ma addirittura una notevole parte delle sue rendite usciva dallo Stato stesso e prendeva le valigie per la Curia pontificia; il clero era molto numeroso e godeva di ampi privilegi fiscali e giudiziari.

In questo periodo la presenza di uno o più sacerdoti in famiglia era un mezzo abbastanza generalizzato che si utilizzava per rafforzare il proprio prestigio economico-sociale o ottenere un avanzamento di status. Nel 1911 Salvemini, riguardo all’elevato numero della componente clericale nel Regno di Napoli, scrisse: «Prima del 1860 e negli anni immediatamente successivi, la grande ambizione delle famiglie che avessero un po' di terra al sole o che aspiravano ad elevarsi socialmente era di avere un figlio prete. Nella famiglia che otteneva questa grazia dal Signore, l'avito fondicello ritrovava ben presto un fratellino. E se la seconda generazione riusciva a produrre un altro prete, la famiglia entrava addirittura tra le case notabili del paese. La terza generazione arrivava finalmente al canonico, con cui cominciava quasi la nobiltà»[1].

Le scelte politiche delle autorità statali dell’epoca nei confronti della Chiesa furono ispirate dal giurisdizionalismo, una dottrina filosofico-giuridica che in diversi paesi europei si affermò tra la fine del XVII e il XVIII secolo, attecchì anche nell’ambiente napoletano e con la sua applicazione si assistette a profondi cambiamenti nel rapporto Stato-Chiesa.

 La dottrina giurisdizionalista considera la Chiesa e lo Stato due soggetti distinti e non fusi insieme come nei sistemi teocratici; alle autorità civili riserva particolari diritti e poteri tra cui la facoltà di controllare l’attività degli enti ecclesiastici e di trasformarli in “istrumentum regni” finalizzandoli a perseguire obiettivi non solo religiosi.

I diritti che in base al giurisdizionalismo possono essere vantati dalla Chiesa nei confronti dello Stato sono: lo "jus reformandi" con cui lo Stato tutela la Chiesa da scismi ed eresie consentendole di perseguire le sue finalità; lo“jus advocatiae” o “protectionis” ossia il diritto riconosciuto alla Chiesa di esercitare controllo sull'amministrazione ecclesiastica, l'insegnamento religioso, i chierici, ecc. A loro volta i diritti che lo Stato può vantare sulla Chiesa sono: lo "jus dominii eminentis" in base al quale lo Stato può vantare alcuni particolari diritti sui beni ecclesiastici, assoggettarli a tributi e ad altre forme di controllo; lo "jus cavendi", lo "jus exclusivae" e lo “jus inspectionis”, con i quali le autorità civili si riservano la vigilanza sugli atti di quelle ecclesiastiche e accettano alle sue cariche solo persone non ostili allo Stato e alle sue istituzioni. Lo jus cavendi in passato trovava applicazione concreta attraverso l'exequatur" e il ”placet", due formule giuridiche utilizzate dalle autorità statali per controllare e sindacare le leggi della Chiesa, impedire che la stessa conferisse cariche a persone politicamente sospette, autorizzare o meno la diffusione di atti e deliberazioni delle autorità ecclesiastiche, evitare la divulgazione di documenti pontifici e pubblicazioni contenenti forti critiche alle autorità civili e capaci di turbare l'ordine pubblico.

Il giurisdizionalismo settecentesco sostanzialmente mirava al consolidamento dello Stato assoluto e pertanto la limitazione delle prerogative della Chiesa erano finalizzate a rafforzare l'autorità e il potere statale attraverso l'eliminazione di ogni fonte di possibile opposizione e resistenza.

Durante il XVIII secolo nel Regno di Napoli il principale esponente teorico del giurisdizionalismo napoletano fu Pietro Giannone che proponeva la separazione tra Chiesa e Stato, negava la natura divina del potere temporale dei papi ed evidenziava i difetti della Chiesa dell’epoca.

Nonostante la persecuzione che subì Giannone e la condanna delle nuove dottrine filosofico-giuridiche da parte delle autorità ecclesiastiche, esse riuscirono ad attecchire e ad essere applicate dalle autorità di vari stati europei.

Nel Regno di Napoli, i primi provvedimenti borbonici di stampo giurisdizionalista sono costituiti da vari rescritti regi emanati tra il 1737 e il 1740 che ad avviso di Tucci “proibirono ai prelati alcuni esercizi giudiziari come i diritti sulle compravendite nelle fiere e nei mercati, i poteri nelle piazze di città e terre del Regno, chiarirono la confusione di prerogative baronali con quelle vescovili, ma soprattutto vietarono la prassi dei testamenti dell’anima ad pias causas[2].

Dopo questi iniziali provvedimenti, il maggior esponente politico, fautore e interprete della dottrina giurisdizionalista nel Regno di Napoli fu il ministro Bernardo Tanucci che al servizio dei re Carlo III e Ferdinando IV occupò varie cariche amministrative. In particolare il ministro Tanucci diede un’applicazione concreta al giurisdizionalismo napoletano fondato sullo Stato confessionale che vanta prerogative sulla Chiesa, ma al tempo stesso ai fini “Ad Dei atque Regni majorem gloriam” ossia per una migliore gloria di Dio e dello Stato, protegge la Chiesa stessa attraverso la concessione di diritti che le consentono di esercitare la sua missione evangelizzatrice.

Durante il suo mandato il ministro Tanucci s’impegnò per estendere la giurisdizione statale sulle istituzioni ecclesiastiche, abolire i privilegi feudali e fiscali del clero, limitare la giurisdizione dei vescovi, ridurre le imposte che lo Stato doveva corrispondere alla Curia romana, la mano morta e altro[3].

 2. Il Concordato del 1741.

Una concreta e chiara applicazione delle dottrine giurisdizionaliste con conseguente nuova definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa nel Regno di Napoli si ebbe nel 1741 quando, dopo un lungo periodo di trattative, il papa Benedetto XIV e il re Carlo III di Borbone approvarono e firmarono un concordato tra le due parti che fu definito “Trattato di accomodamento tra la Santa Sede e la Corte di Napoli”.

L’importante documento suddiviso in dieci parti pose termine a varie controversie definendo questioni d’interesse reciproco e con la sua ratifica si ebbero profonde innovazioni in materia d’immunità degli ecclesiastici e degli edifici di culto, esecuzione delle visite pastorali, rendiconti dei luoghi pii laicali, requisiti dei promuovendi agli ordini sacri, cause miste, stampa e materie beneficiarie.

Nei primi capitoli del Concordato fu affrontata la questione delle immunità ecclesiastiche che furono ridimensionate e del diritto di asilo che fu limitato alle chiese consacrate e solo per alcuni reati. In particolare nel capitolo II si decise l'abolizione del diritto di asilo in chiesa per i seguenti soggetti: i ladri di pubbliche strade, gli incendiari, i ricattatori, i grassatori, i fabbricatori di cedole (falsari), i venditori e propinatori di sostanze tossiche mortali, i mercanti fraudolenti, i delinquenti, coloro che di notte aprivano con chiavi false, grimaldelli o altri strumenti botteghe, fondaci e magazzini e infine per gli autori di omicidi nei luoghi immuni tra cui le chiese stesse e i cimiteri.

Nel capitolo IV si posero dei limiti alle ordinazioni sacerdotali e si definirono i requisiti degli aspiranti chierici. A tal proposito si stabilì che nessuno poteva essere ammesso alla prima tonsura se le rendite famigliari dell’aspirante sacerdote ammontavano alla metà della tassa stabilita per la costituzione del patrimonio sacro (art. I)[4]. Con successivi provvedimenti legislativi si posero altre limitazioni. Infatti, un dispaccio reale (decreto legislativo) del 15 marzo 1742 vietò che in una famiglia fosse ordinato sacerdote il figlio unico e/o più di un membro per volta e se l'intero patrimonio famigliare diviso tra tutti i membri risultava inferiore a quello richiesto per la costituzione del patrimonio sacro[5]. In seguito Ferdinando IV, nel rispetto delle norme concordatarie ordinò che il numero degli ecclesiastici del Regno non doveva essere superiore a uno ogni cento abitanti. Nel loro complesso le norme sulle ordinazioni sacerdotali perseguivano le seguenti finalità: 1) ridurre l'evasione fiscale che garantiva la costituzione del patrimonio sacro e anche il numero totale di ecclesiastici presenti in tutte le province del Regno; 2) assicurare a tutti i chierici la possibilità di vivere in modo decoroso dopo l'ordinazione senza che fossero costretti a fare altri mestieri umili e servili se privi di privilegi; 3) promuovere un rinnovamento del decoro sacerdotale conferendo i sacri ordini solo a soggetti che ne potevano essere degni in quanto animati da sincera vocazione religiosa.

Poiché una delle finalità del Concordato era di garantire “una più giusta distribuzione de’ pubblici pesi”, iniziarono ad essere tassati anche i beni ecclesiastici. In particolare, le parrocchie, gli ospedali e i seminari continuarono a essere esenti da qualsiasi tributo statale, mentre tutti gli altri beni delle chiese, di enti e persone ecclesiastiche se acquistati prima del Concordato, avevano un'esenzione parziale poiché corrispondevano solo la metà delle tasse previste. Se, invece, i beni si acquistavano dopo il Concordato, l'aliquota fiscale doveva essere pagata integralmente e quindi era pari a quella corrisposta dai laici per beni di uguale valore.

I chierici minori non avevano alcuna esenzione fiscale, mentre gli ordinati erano esenti solo per i beni formanti il patrimonio sacro, il cui valore era stabilito dalla diocesi d’origine e comunque non poteva essere inferiore a ventiquattro ducati e superiore a quaranta.

Nel capitolo V si posero dei limiti all'esercizio del governo pastorale da parte dei vescovi. In particolare si dispose che durante le visite pastorali gli ordinari diocesani potevano intervenire tanto nelle questioni spirituali che in quelle materiali di parrocchie ed enti ecclesiastici.

Ai titoli uno e cinque di tale capitolo si riconobbe che le Confraternite dovevano considerarsi enti laicali sottoposti alla vigilanza e giurisdizione delle autorità civili. Di conseguenza su di esse e tutti i luoghi pii amministrati dai laici tra cui le cappelle laicali, gli ospedali, i monti frumentari e di pietà, i vescovi erano autorizzati a visitarli ed imporre la loro autorità esclusivamente per le questioni di carattere spirituale.

Nel capitolo VII fu affrontata l'annosa questione riguardante le pubblicazioni di qualsiasi genere. Le due parti si accordarono per fissare la doppia censura delle autorità statali ed ecclesiastiche sulle pubblicazioni provenienti da altri Stati e su quelle del Regno. In particolare si stabilì che qualsiasi testo o opuscolo stampato nel Regno di Napoli non poteva essere divulgato senza l'approvazione degli ordinari diocesani. In realtà la censura ecclesiastica anziché dai vescovi fu esercitata dall'Inquisizione Romana e dalla Congregazione dell'Indice. Il papa al fine di evitare troppe contestazioni e controversie, invitò a più riprese i censori a usare prudenza nell'esercizio delle loro funzioni. Inoltre, per ovvi e giustificati motivi si concedeva l'autorizzazione alla lettura di libri proibiti su richiesta scritta e motivata. Un piccolo esempio in tal senso è fornito dalla seguente lettera che il 13 aprile 1755 l'avvocato Camillo Carosi di Chieti scrisse alla Congregazione dell'Indice: "L'avvocato Camillo Carosi nativo della città di Chieti, oratore umilissimo dell'EE.VV. con tutto l'ossequio riverentemente espone come fra lo strepito de' giudizi e le difese delle cause ed anche per sua maggiore erudizione, bisognandogli spesso leggere e riscontrare libri ed autori proibiti tanto in legge civile e canonica che filologici, filosofici, teologici, morali, istorici, sacri e profani e di qualsiasi altra scienza arte e facultà; supplica perciò la bontà di aggraziare l'oratore di potere li detti libri proibiti leggere, e ritenere presentando a tal fine l'attestato del Vicario capitulare di Chieti che la grazia vostra"[6].

Il capitolo VIII si occupava di materia beneficiaria.

Con il capitolo IX s’istituiva il Tribunale Misto composto da tre ecclesiastici (di cui due di nomina papale) e due laici che restavano in carica per tre anni, dopodiché si sostituivano. L'obbligo del loro mantenimento doveva essere ripartito tra la Santa Sede e le autorità civili del Regno. Alcuni suoi compiti erano: il controllo dell'amministrazione degli ospedali, confraternite e altri luoghi pii laicali amministrati da laici; dirimere annose controversie giuridiche e vertenze di carattere ecclesiastico; decidere quali cause erano di competenza vescovile, in materia d’immunità locale e sulle pretese di franchigie degli ecclesiastici.

I rimarchevoli risultati e concessioni ottenuti dalla monarchia borbonica con il Concordato furono dovuti anche all'atteggiamento collaborativo e costruttivo del papa Benedetto XIV che era considerato un uomo di ampie vedute e un innovatore aperto al dialogo, tant'é vero che nella sua biografia si ricorda uno scambio epistolare e un regalo da lui corrisposto all’illuminista francese Voltaire che sosteneva il deismo, la concezione che considera Dio autore dell'universo e varie tesi in opposizione alla dottrina cattolica.

 3.  La politica ecclesiastica governativa dopo il Concordato.

L’attività governativa, nel rispetto delle norme concordatarie seguì la filosofia giurisdizionalista e fu caratterizzata da altre iniziative tese a ridurre le decime, i privilegi, il patrimonio ecclesiastico e l'influenza del clero nella società civile. Nel prosieguo di tale paragrafo, seguendo un ordine cronologico si elencheranno alcuni tra i più importanti provvedimenti legislativi in tal senso.

Nel corso del XVIII secolo, i Borboni introdussero nella legislazione del Regno il principio dello "jus appellationis" che consentiva ai sudditi di ricorrere alle autorità civili contro le decisioni di quelle ecclesiastiche.

Il 29 dicembre Carlo III di Borbone con un editto limitò l’autonomia del foro ecclesiastico.

Nel 1759 con un decreto riconfermato ed esteso in tutto il Regno dal regio dispaccio del 25 luglio 1772, il re Ferdinando IV ordinò l'abolizione delle decime sacramentali e impose l'obbligo a ogni Università del Regno di corrispondere ai parroci la congrua conciliare di 100 ducati annui con l'aggiunta di un'altra somma per il mantenimento della chiesa. Un altro dispaccio del 14 agosto 1787 autorizzava le Università del Regno a dotare le parrocchie di un supplemento di congrua in base ai fabbisogni[7].

Nel 1767 il re Ferdinando IV con una prammatica del 31 ottobre decretò l’espulsione dei Gesuiti da tutto il Regno di Napoli poiché fonte di danni, abusi e fini avversi agli interessi dello Stato. Altre prammatiche successive dettarono le norme attuative sulla loro espulsione e la confisca dell’ingente patrimonio che avevano acquisito.

Nel 1769, in armonia con le disposizioni concordatarie e altre a esso successive si riconosceva che le confraternite laicali svolgevano una rilevante azione economica e pertanto esse rientravano nelle competenze delle autorità civili da cui dovevano ottenere l'autorizzazione per l'erezione e lo statuto. L’ingerenza ecclesiastica in tali organizzazioni fu limitata solo agli aspetti spirituali. Di conseguenza durante il XVIII secolo, a causa della politica riformista dei Borboni sanzionata dai Regi Assensi, esse assunsero un carattere più secolarizzato.

Tra il 1769 e il 1771 furono promulgate alcune leggi che vietarono le vendite, le donazioni e le intestazioni ereditarie ai luoghi pii, ciononostante continuarono a sussistere per diversi anni.

Queste norme, insieme ad altre precedenti tra cui quella che ordinò l’espulsione dei gesuiti, contribuirono a ridurre il cospicuo patrimonio della Chiesa nel Regno di Napoli. Ad avviso di Placanica (1975) queste leggi insieme ad altre che abolivano le immunità fiscali dei chierici, contribuirono alla riduzione anche della popolazione ecclesiastica[8].

Nel 1781 il re Ferdinando IV decise che le rendite degli spogli dovevano essere assegnate ai Monti Frumentari.

Nel 1788 il marchese Caracciolo abolì l'omaggio della chinea, ovvero il tributo annuale che i re di Napoli, dall’epoca normanna versavano al pontefice come segno dimostrativo del loro rapporto di vassallaggio. Il fatto di per sé è significativo poiché pose fine alle pretese feudali di dominio diretto del pontefice nel Regno di Napoli. A tal proposito Brancaccio fa presente che: “Alla fine dell’ancien régime venne, dunque, meno il punto di forza del sistema feudale pontificio, che nei secoli precedenti si era fondato sulla amalgama del potere spirituale con quello temporale. Con l’anomalia del rapporto feudale tra i due Stati, furono spazzati via gli elementi gerarchici, che a lungo erano prevalsi nel sistema europeo degli Stati moderni”.[9]

Nello stesso anno fu decisa la soppressione delle decime e l’abolizione del foro ecclesiastico, due istituti che continuavano ad assicurare al clero prerogative e privilegi non goduti dai cittadini comuni.

Nel 1791 il re Ferdinando IV ottenne dal papa il diritto di nominare i vescovi delle diocesi del Regno. Il pontefice a sua volta riservò per se stesso il diritto di consacrarli o di esonerarli.

Nel 1796 Ferdinando IV ordinò che le decime ecclesiastiche soppresse anni prima fossero devolute alla monarchia, quale tributo straordinario per acquisire i mezzi necessari a difendere la religione, lo Stato e la vita dei suoi "amatissimi" sudditi.

Esaminata la panoramica delle più importanti norme di carattere ecclesiastico promulgate nel Regno di Napoli durante il XVIII secolo, sorge spontanea una domanda: nel loro complesso cosa dimostrano? Una risposta a tale quesito l’ha fornita De Rosa, facendo presente che tutte le disposizioni legislative in materia ecclesiastica del Settecento napoletano denunciano un anticlericalismo utilizzato dalla borghesia quale copertura ideologica per giustificare il suo assalto ai beni della Chiesa. A tal proposito l’eminente studioso scrisse: “la borghesia meridionale era non irreligiosa ma antiepiscopale ed antiromana, perchè i vescovi, in quanto nutriti di pastoralità tridentina, erano i primi nemici da combattere dentro e fuori la Chiesa. Dentro la Chiesa, perchè la borghesia insieme alla nobiltà si era servita delle ordinazioni per conquistare i suoi beni. Fuori, perchè il popolo ammalato di superstizione e magia era facilmente manovrabile contro il vescovo religioso antimagico"[10]. L'ultima espressione usata da De Rosa nella citazione è indicativa anche di un aspetto della religiosità popolare nell'epoca considerata. Infatti, stregoneria diffusa, superstizioni pagane e fascino della magia cerimoniale erano aspetti molto comuni nella religiosità dell'Italia meridionale settecentesca. Su questo particolare aspetto De Rosa precisa il suo pensiero affermando che: La religiosità popolare era anche un mondo dove il tempo naturale, il cielo e la terra erano oggetto di un simbolismo divinatorio e dove Dio lottava per uscir fuori natura, con sospiri e lamenti coperto di peccati e perciò sempre in pericolo di ricadere nella natura"[11].

Il sentimento religioso, le forme di culto, la funzione dei parroci subirono nel XVIII secolo una trasformazione, a causa  delle nuove disposizioni legislative emanate dal governo borbonico  e dei modelli culturali che si diffusero durante il secolo. Ad influenzarli contribuirono anche le missioni popolari condotte da vari ordini religiosi tra cui i redentoristi fondati nel corso del secolo da Alfonso de’ Liquori. La loro attività di predicazione era rivolta ai ceti più umili per liberarli da antiche superstizioni e credenze pagane. Esse spesso si svolgevano in “toscano”, come tra l’altro succedeva anche in chiesa durante le messe. In questo modo il personale ecclesiastico contribuì a diffondere una lingua che poi diverrà quella nazionale.

4. Le parrocchie, i parroci, i preti e le funzioni della religione nel Regno di Napoli durante la dominazione borbonica del XVIII secolo.

Le istituzioni ecclesiastiche (parrocchie, monasteri, etc.) nell’epoca in esame: erano importanti punti di riferimento economici e religiosi poiché: offrivano il conforto materiale e spirituale a poveri e diseredati; erogavano prestiti di capitali; concedevano in affitto beni immobili vari (abitazioni, terreni agricoli e altro); contribuivano alla diffusione di valori morali e religiosi; esercitavano forme di controllo della vita comunitaria. In particolare nell’Italia Meridionale, durante tutta l’Età Moderna sino al decennio napoleonico, ad avviso di Cestaro la parrocchia “era uno dei pochi centri di aggregazione sociale sia sul piano religioso che civile ed economico[12]. Essa assolveva a funzioni d'anagrafe civile; esercitava il controllo sociale attraverso gli obblighi di partecipazione alle messe festive, la confessione e la predicazione domenicale; ritmava la vita quotidiana fissando i giorni lavorativi e quelli di riposo da dedicare non all'ozio ma all'osservanza delle pratiche di culto; sacralizzava i momenti più importanti dell'esistenza umana con la somministrazione dei sacramenti; spesso era il luogo in cui si radunavano le assemblee comunitarie, si eleggevano i rappresentanti delle Università, rogavano gli atti notarili e leggevano gli annunci sia civili che religiosi. In molti ambiti delle regioni meridionali le funzioni parrocchiali erano esercitate anche da altri centri religiosi che assunsero le seguenti denominazioni: arcipreture, chiese ricettizie e collegiate.

Erano definite arcipreture le parrocchie rette da un sacerdote definito arciprete che spesso era anche il capo religioso locale. In alcuni casi il titolo di arcipretura fu assegnato alle chiese matrici che sostituirono le pievi di origine medioevale. A sua volta il titolo di arciprete, in diversi casi si assegnava anche ai rettori di chiese ricettizie.

Le chiese ricettizie, molto diffuse in alcune Regioni del Regno, erano caratterizzate da: 1) una notevole autonomia amministrativa e corporativa; 2) un proprio patrimonio di beni definito massa comune; 3) una struttura collegiale formata da più sacerdoti che godevano di tutti i benefici annessi alla chiesa, attendevano alle impellenze dell'attività pastorale e conducevano vita comune. All’epoca, la fondazione di una chiesa ricettizia assicurava i seguenti vantaggi: 1) assegnava le funzioni parrocchiali non a un singolo sacerdote ma all’intero corpo collegiale e di conseguenza aumentava la componente clericale disponibile per le attività pastorali; 2) riuniva tutti i benefici e le rendite ecclesiastiche utili per il sostentamento del clero ricettizio; 3) rendeva possibile l’acquisizione di una maggiore autonomia sull’ordinario diocesano che aveva il diritto d’intervenire nelle questioni spirituali, ma non poteva richiedere tasse per la Curia. Di solito il clero ricettizio dell'Italia meridionale era formato da membri delle stesse famiglie che partecipavano alla gestione della massa comune e all'utilizzazione dei suoi benefici. In questo modo aumentava il prestigio economico-sociale delle famiglie a cui appartenevano le dinastie sacerdotali che avevano concorso a fondarle, ma si escludevano dai benefici e rendite i sacerdoti di altre origini famigliari.

Le collegiate per certi aspetti sono assimilabili alle chiese ricettizie poiché sono caratterizzate da una struttura collegiale di sacerdoti. Infatti, in ognuna di esse è istituito un capitolo o collegio di sacerdoti definiti canonici che gestiscono le funzioni sacre e il patrimonio comune. Di solito anche quando il capitolo cessa di esistere, tali chiese conservano il titolo originario.

Nella stessa epoca il clero dell'Italia meridionale si poteva suddividere nelle seguenti categorie: una frazione molto numerosa che non aveva cura d'anime e sopravviveva percependo i diritti per la celebrazione di messe e le rendite che assicurava il patrimonio sacro; il clero ricettizio che viveva con i proventi della massa comune di beni assegnati in dotazione alla propria chiesa; il clero che in generale si può definire fortemente tridentino e viveva nelle curie arcivescovili; i parroci delle chiese di libera collazione vescovile e di patronato che vivevano con proventi vari derivanti dall'esercizio delle funzioni sacre, la somministrazione dei sacramenti, la raccolta delle decime, la riscossione della congrua, le libere offerte e le donazioni.

All’epoca la componente clericale dell’Italia Meridionale assommava alle competenze culturali religiose, altre strettamente civili riguardanti le norme sui vari tipi di contratti, le loro modalità di stesura, l'usura e altri atti pubblici.

La professione di parroco e la carriera ecclesiastica erano ambite poiché non esistevano molte possibilità di scelte professionali, la maggior parte della popolazione viveva a livelli di pura sussistenza e l’accesso al sacerdozio consentiva di migliorare il tenore di vita.

Come si è potuto osservare nei capitoli precedenti, la nuova legislazione regnicola facilitava l'accesso agli ordini sacri a chi poteva avere un ingente patrimonio sacro e quindi ai soggetti che provenivano dalle classi agiate: i rampolli dei baroni, della borghesia e dei ricchi proprietari terrieri. Erano esclusi dalla carriera ecclesiastica i rappresentanti delle classi più povere che, nei casi più fortunati, potevano sperare solo che un proprio membro entrasse in qualche monastero per diventare chierico minore o regolare. Questo particolare fatto dimostra che la Chiesa, con la selezione di classe dei propri ministri di culto, perse un certo ruolo che in piccola misura aveva ricoperto nel passato: offrire alle classi più diseredate la possibilità di aspirare al riscatto sociale ed economico attraverso le ordinazioni sacerdotali.

In questo periodo storico ad avviso di Placanica, in generale il prete "Saldandosi alle sorti di una borghesia in ascesa si presentava come una sorte di funzionario o membro autorevole della nuova intelligentia, ma sempre in funzione anticontadina"[13].

Per quanto riguarda la figura dei parroci del Regno di Napoli, si può sostanzialmente dire che essi erano membri della classe dominante a cui erano assegnate molteplici funzioni civili e religiose. Di conseguenza erano protetti dallo Stato e dalla Chiesa che assicuravano loro un adeguato sostegno economico. Sia per la Chiesa che per lo Stato il parroco era un burocrate che faceva rispettare alcune loro finalità. In particolare per la Chiesa era un agente di trasmissione di valori religiosi e un mediatore culturale tra la gerarchia ecclesiastica e il popolo dei fedeli. Nell’ideologia dello Stato il parroco doveva essere civilmente utile, assurgere a ruolo dirigente, dedicarsi all'istruzione della plebe, assolvere funzioni di anagrafe civile, fornire i dati utili per le imposizioni fiscali e l’amministrazione della giustizia. Il modo in cui nel XVIII secolo il parroco delle campagne meridionali interpretava il proprio ruolo di membro della classe dirigente era molto particolare. Da un lato avvertiva questo ruolo per la provenienza sociale, per i compiti che doveva assolvere e per il proprio livello d'istruzione rispetto alla massa, dall'altra, invece, si sentiva parte integrante della società contadina condividendone molti interessi, aspirazioni materiali, valori e modelli culturali, partecipando talvolta direttamente al lavoro dei campi e curando l'assistenza materiale dei contadini stessi. Tra l'altro, se voleva essere accettato, il parroco doveva parlare il linguaggio dei suoi parrocchiani, essere loro vicino con la benedizione dei campi e degli animali e con le preghiere intercedere presso Dio e i santi per qualche grazia. Il parroco "tridentino", severo custode della fede e contrario a ogni forma di superstizione e religiosità pagana, restava un sogno a causa della complessa situazione economica e culturale in cui era costretto a operare.

Nonostante la provenienza dalle classi e ceti più abbienti, nel XVIII secolo i parroci e preti dell'Italia meridionale erano sempre molto legati all'agricoltura e alla terra. Infatti, grazie alle rendite dei terreni formanti il patrimonio sacro potevano aspirare al sacerdozio; sempre grazie alla terra potevano vivere dopo aver ricevuto gli ordini sacri ed era ancora la terra donata alla chiesa dopo la morte che permetteva di celebrare messe in suffragio della propria anima per aspirare alla felicità e salvezza eterna.

In quest’epoca la religione cristiana continuava a permeare fortemente la vita quotidiana, favoriva l’aggregazione sociale, era fonte ispiratrice di comportamenti, atteggiamenti e valori che toccavano i rappresentanti di tutte le classi sociali e anche lo strumento ideologico che giustificando l’ordine esistente e l’origine divina di certe forme di potere, si utilizzava per dominare gli uomini.

I ceti dominanti dell’epoca (nobili, feudatari, proprietari terrieri, membri della borghesia, amministratori locali, etc.) rafforzavano il potere e prestigio comunitario di cui godevano: manifestando pubblicamente l’adesione ai valori religiosi dominanti; avendo all’interno delle chiese proprie insegne, posti riservati e sepolcri famigliari; annoverando figure e cariche ecclesiastiche tra i congiunti.

 

5.   Le feste civili e religiose.


Durante il XVIII secolo, in continuità con quelli precedenti e successivi si celebravano: feste civili legate a importanti eventi locali, statali e della monarchia (imprese militari, nascite, nozze e morti dei membri della casa reale, etc.) e le feste religiose di precetto che a loro volta celebravano i santi considerati più importanti e i momenti più salienti del ciclo liturgico annuale.

Nel Regno di Napoli le celebrazioni festive ricorrevano in tutti i mesi dell’anno, ma erano più concentrate tra aprile e novembre. Quelle del Santo Patrono erano considerate le più importanti, potevano durare più giorni e in esse la processione solenne e altri riti religiosi erano accompagnati da fiere, bande musicali, accensione di luminarie, fuochi pirotecnici, alberi della cuccagna e altri divertimenti popolari che nel loro insieme rompevano il ritmo angusto della quotidianità e creavano l’illusione dell’esistenza di un mondo in cui la felicità, l’abbondanza e il benessere alimentare erano alla portata di tutti.

Se in base all’oggetto da celebrare si possono separare le feste religiose da quelle civili, invece in base alle modalità celebrative si osservano delle affinità notevoli tra i due soggetti poiché: da un lato anche le feste civili erano caratterizzate da riti religiosi che avevano il fine sacralizzare lo Stato e i suoi rappresentanti; dall’altro anche molte feste religiose erano caratterizzate da divertimenti popolari, riti di trasgressione e sfarzo che non avevano nulla a che fare con la religione e il cristianesimo. Ad avviso di D’Antonio, dal 1738 il re Carlo III riconosceva esplicitamente il carattere politico anche delle feste religiose e di conseguenza se ne riservò in via esclusiva la gestione[14].

Nel corso del secolo il calendario festivo fu oggetto di variazioni poiché registrò cancellazioni e nuove introduzioni. Nel loro insieme le occasioni festive religiose e civili erano molto numerose e dai secoli precedenti furono oggetto di discussioni e normative tendenti a ridurle. Una di esse fu adottata il 17 marzo 1476, quando il re Ferrrante d'Aragona rese pubblica una prammatica che ordinava la riduzione dei giorni festivi nel Regno di Napoli.

I tentativi di ridurre le feste religiose ripresero vigore durante il Settecento Borbonico sia da parte delle autorità civili sia di quelle ecclesiastiche. Una delle più importanti in tal senso si ebbe il 12 dicembre 1748, quando il papa Benedetto XIV con un breve indirizzato a tutti i prelati del Regno ordinò che oltre alle domeniche si osservasse il precetto festivo durante le seguenti ricorrenze: la Pasqua di Resurrezione, la Pentecoste, la Circoncisione, l'Epifania, l'Ascensione, il Corpus Domini, il Natale, la Purificazione, l'Annunziata, l'Assunta, la Natività e Concezione della Vergine, S. Pietro e Paolo, Ognissanti, il protettore del luogo e della diocesi. La direttiva papale prevedeva anche che nei giorni di precetto festivo si doveva osservare il riposo assoluto, mentre in occasione di altre feste era consentito lavorare purchè si ascoltasse la messa.

Accettando la bolla pontificia, il re Carlo III con una prammatica promulgata il 3 gennaio 1749 ordinò che nei giorni festivi fossero chiuse le botteghe, mentre le autorità locali dovevano vigilare sull'insegnamento ai fanciulli della dottrina cristiana.

Durante il secolo, ad avviso di D’Antonio, la celebrazione del Carnevale ebbe un notevole impulso al fine di contrapporlo con la sua immagine di abbondanza e libertà all’austerità quaresimale, affermare l’indipendenza dello Stato rispetto alla Chiesa e al papato e dare visibilità al processo di accentramento statale in corso[15].

L’organizzazione e la celebrazione delle festività locali da osservare e celebrare molto spesso erano delegate alle confraternite e ai procuratori delle cappelle laicali erette nelle singole chiese. Questi ultimi in particolare avevano il compito di celebrare la festa del santo a cui la cappella era dedicata attingendo alle risorse patrimoniali che erano state assegnate alle stesse con l’atto di fondazione.

Spesso tra le confraternite sorgevano rivalità riguardanti le celebrazioni festive, il posto da occupare durante le processioni e altri motivi.

 6. La situazione abruzzese.

Durante il XVIII secolo la Regione continuò a essere suddivisa tra due Province, mentre la popolazione registrò una crescita e a fine secolo raggiunse la cifra di oltre 630000 abitanti.

Nello stesso periodo il notevole incremento demografico che ebbero alcuni casali permise loro di acquisire il diritto a un’autonomia amministrativa e ad eleggere proprie cariche pubbliche rappresentative. Di conseguenza aumentò anche il numero delle Università abruzzesi, ossia dei Comuni che ad avviso di Brancaccio da 267 del 1501 passò a 491 nel 1732[16].

Nell’epoca in esame l’Abruzzo attraversava una fase di stagnazione che rallentava lo sviluppo e Nigro individua nei “soprusi di organismi fiscali e doganali” le principali cause che a suo avviso “bloccavano il naturale sviluppo economico e produttivo[17].

Il delicato contesto regionale dell’epoca era evidenziato da varie personalità tra cui Giuseppe Maria Galanti, un importante esponente dell’illuminismo napoletano che fece vari viaggi in Regione e il ministro Tanucci il quale a sua volta fece presente che la difficile congiuntura economica osservabile in Abruzzo era la conseguenza del contrabbando con lo Stato Pontificio che consentiva il traffico illegale di vari prodotti tra cui il grano, la lana, il riso, il sale e il tabacco[18].

All’epoca, anche in Abruzzo continuava a persistere il regime feudale che condizionava fortemente la realtà economica-sociale e nel Regno di Napoli fu definitivamente abolito solo durante il decennio napoleonico (1806-1815). A causa di ciò la gran parte delle Università o Comuni abruzzesi erano infeudati a importanti signorie che possedevano vasti territori comprendenti numerose località o a piccoli feudatari che possedevano solo un paese. Nel suo complesso circa l’80% della popolazione abruzzese era sottoposta al regime feudale e dipendeva da qualche barone, mentre poche erano le Università cosiddette demaniali che non erano infeudate e dipendevano direttamente dalla corona.

Nelle località sottomesse alla giurisdizione feudale, le varie signorie cercavano di trarre i maggiori profitti possibili, mentre gli investimenti per migliorare l’economia e le strutture produttive erano praticamente inesistenti. Di solito alla giurisdizione feudale era annesso il possesso dei seguenti privilegi e diritti da parte dei baroni: il diritto d’imporre tasse di qualsiasi natura su beni e servizi; diritti di privative sulle attività commerciali e produttive (forni, mulini, valchiere, etc.); il diritto di nominare il governatore baronale, ovvero un rappresentante del barone di turno che partecipava alle assemblee pubbliche comunali e presiedeva la corte feudale[19].

Oltre ai feudi laici nella Regione esistevano anche quelli ecclesiastici e quindi anche la Chiesa e le sue istituzioni entravano come componenti attive nei giochi e meccanismi feudali assecondandone le regole[20]. A dimostrazione di questa tesi concorrono i numeri che seguono. Ad avviso di Novi Chavarria nelle provincie dell’Abruzzo Citra e Ultra tra il XV e il XVIII secolo esistevano 58 feudi ecclesiastici che erano posseduti da: i vescovi di Chieti, Ortona, Teramo e Sulmona-Valva; le abbazie e monasteri di Montecassino, Montesanto, San Bartolomeo e Santa Maria in Trigulti, San Clemente a Casauria, San Giovanni di Collimento, San Giovanni di Scorzone, San Quirico di Roma, San Francesco di Tocco, Santa Maria di Casanova, Santo Spirito del Morrone, Santa Chiara di Sulmona e dei Padri Celestini de L’Aquila; l’Oratorio di San Filippo Neri di Roma; la Chiesa di Santo Spirito di Avezzano; il Capitolo di San Pietro di Roma[21].

Ai beni sottoposti alla giurisdizione feudale ecclesiastica, la chiesa abruzzese aggiungeva i beni allodiali o di piena proprietà che erano posseduti in tutte le località della Regione dalle curie vescovili, le parrocchie, le chiese, i monasteri, gli oratori, i luoghi pii, etc. Per questi motivi la Chiesa abruzzese settecentesca aggiungeva alla notevolissima influenza religiosa anche quella economica dovuta a: il possesso di animali domestici, terreni agricoli, pascoli, abitazioni e strutture produttive (mulini, forni, valchiere, etc.); la capacità di tutte le istituzioni ecclesiastiche di concedere in prestito somme di denaro e di affittare i propri beni con contratti di vario tipo.

Ad avviso di Brancaccio la larga fetta di proprietà fondiaria e l’attività creditizia nel loro insieme costituivano gli assi portanti delle entrate della chiesa abruzzese [22].

 6.1 Le sedi vescovili e gli ordinari diocesani abruzzesi durante il Settecento borbonico.

All’epoca in esame i Comuni che ora appartengono all’Abruzzo, nel loro complesso erano ripartiti tra nove circoscrizioni diocesane che furono rette dai seguenti presuli:

1)   Arcidiocesi di Chieti-Vasto: Filippo Valignani (1722-1737), Michele Palma (6 maggio 1737 - 23 marzo 1755), Nicola Sánchez de Luna (21 luglio 1755 - 9 aprile 1764), Francesco Brancia (9 aprile 1764 - 7 gennaio 1770), Luigi del Giudice, (12 marzo 1770 - 1790), Ambrogio Mirelli (27 febbraio 1792 - 22 luglio 1795), Francesco Saverio Bassi (18 dicembre 1797 - 26 marzo 1821).

2)   Diocesi di Lanciano: Arcangelo Maria Ciccarelli (dal 1731 al 19 dicembre 1738), Domenico De Pace (26 gennaio 1739 - marzo 1745), Anton Ludovico Antinori (21 giugno 1745 - 22 aprile 1754), Giacomo Leto (20 maggio 1754 – 5 febbraio 1769), Domenico Gervasoni (20 novembre 1769 - novembre 1784), Francesco Saverio De Vivo (18 dicembre 1786 - 27 febbraio 1792), Francesco Amoroso (27 febbraio 1792 - 8 luglio 1807).

3)   Arcidiocesi de L’Aquila: Domenico Taglialatela 8 giugno 1718- 18 marzo 1742), Giuseppe Coppola (25 maggio 1742 - 1 dicembre 1749), Ludovico Sabatini d'Anfora (23 febbraio 1750 - 6 luglio 1776), Benedetto Cervone (23 giugno 1777 - 31 marzo 1788), sede vacante (1788-1792), Francesco Saverio Gualtieri (26 marzo 1792 - 6 aprile 1818).

4)   Diocesi di Avezzano: Giuseppe Barone (5 marzo 1731 - 29 maggio 1741), Domenico Antonio Brizi (29 maggio 1741 - 6 settembre 1760), Benedetto Mattei (15 dicembre 1760 - 23 giugno 1776), Francesco Vincenzo Lajezza (16 dicembre 1776 - 31 ottobre 1792), sede vacante (1792-1797),Giuseppe Bolognese (18 dicembre 1797 - 17 marzo 1803).

5)   Diocesi di Sulmona-Valva: Matteo Odierna (17 marzo 1727 - 26 giugno 1738), Pietro Antonio Corsignani (23 luglio 1738 - 17 ottobre 1751), Carlo De Ciocchis (24 gennaio 1752 - 10 settembre 1762), Filippo Paini (22 novembre 1762 - 1799).

6)   Diocesi di Teramo: Tommaso Alessio de' Rossi (9 aprile 1731 - 6 gennaio 1749), Tommaso Panfilo Antonio Mazzara (21 aprile 1749 - 30 agosto 1766), Ignazio Andrea Sambiase (16 febbraio 1767 - 16 dicembre 1776), Luigi Maria Pirelli (17 febbraio 1777 - 29 ottobre 1804).

7)   Diocesi di Ortona-Campli: Giovanni Vespoli-Casanatte Giovanni Romano (11 settembre 1730 - 26 settembre 1735), Giovanni Romano (11 settembre 1730 - 26 settembre 1735), Marcantonio Amalfitani (26 settembre 1735 - 11 novembre 1765), Domenico de Dominicis (27 gennaio 1766 - 8 marzo 1791), Antonio Cresi (26 marzo 1792 - 22 settembre 1804).

8)   Diocesi di Penne e Atri: Francesco Antonio Bussolini (27 settembre 1723 - 20 marzo 1746), Innocenzo Gorgoni, (2 maggio 1746 - 13 febbraio 1755), Gennaro Perrelli (21 luglio 1755 - 27 maggio 1761), Giuseppe Maria de Leone (25 gennaio 1762 - 7 aprile 1779), Bonaventura Calcagnini (12 luglio 1779 - 1797), 1797 - 1805 sede vacante.

9)   Diocesi di Trivento: Fortunato Palumbo (18 dicembre 1730 - 19 luglio 1753), Giuseppe Maria Carafa Spinola (22 luglio 1754 - 19 luglio 1756), Giuseppe Pitocco (19 luglio 1756 - 30 maggio 1771), Gioacchino Paglione (23 settembre 1771 - dicembre 1790), Luca Nicola De Luca (26 marzo 1792 - 7 giugno 1819)[23].


6.2  La cura d’anime.

Durante il XVIII secolo in Abruzzo le organizzazioni ecclesiastiche addette alla cura d’anime erano inquadrabili nelle seguenti categorie: le arcipreture, le collegiate, le semplici parrocchie e le chiese ricettizie.

Le semplici parrocchie erano presenti in quasi tutte le Università o Comuni e potevano avere alle loro dipendenze altre chiese. A dirigerle c’era un rettore curato che talvolta era definito abate. In base a chi competeva la scelta dei rettori, esse potevano essere di libera collazione vescovile o di patronato regio, baronale, delle Università, di abbazie e monasteri.

Nelle parrocchie di libera collazione vescovile, i rettori erano scelti dagli ordinari diocesani, mentre negli altri casi la scelta competeva ai seguenti soggetti: i feudatari locali laici ed ecclesiastici (tra questi gli abati dei monasteri), i rappresentanti delle Università e il re.

Quando una parrocchia era di patronato e contemporaneamente sottoposta anche alla giurisdizione vescovile, la scelta dei rettori competeva inizialmente al legittimo patrono e poi riceveva la conferma canonica dell’ordinario diocesano. Di solito la scelta cadeva su personaggi di fiducia dei baroni che in questo modo rafforzavano il loro potere.

Molte parrocchie non avevano confini geografici precisi ed erano ripartite in famiglie. Questa particolare organizzazione si scontrava con le prescrizioni tridentine che prevedevano la ripartizione geografica in aree distinte e aveva ragioni sostanzialmente economiche poiché evitava che a qualche parrocchia appartenessero solo famiglie ricche e ad altre quelle povere.

Di solito erano definite arcipreture, le sedi di parrocchie abruzzesi dell’epoca che erano rette da un arciprete a cui era assegnato il ruolo di capo religioso del luogo. La loro maggioranza era di patronato feudale e in questo modo il barone locale controllava anche la vita religiosa.

Le collegiate in genere erano diffuse nei centri sedi delle diocesi e nei comuni più grossi.

Non si hanno dati precisi riguardanti la distribuzione delle varie tipologie di organizzazioni ecclesiastiche addette alla cura d’anime in Abruzzo nel periodo in esame. Per un piccolo raffronto si considereranno i dati riguardanti le parrocchie dell’Italia Meridionale del 1820. A tal proposito Rosa ha scritto che nell’Italia Meridionale c’erano 3734 parrocchie di cui 1087 erano ricettizie[24]. Nella Provincia d’Abruzzo Ultra, l’autore ingloba nel compito delle chiese ricettizie anche le collegiate e precisa che esse nel loro insieme costituivano il 9% del totale delle parrocchie del Regno. Di conseguenza raggiungevano la cifra di circa 98 unità. Non si riportano dati per l’Abruzzo Citra in cui ad avviso di Rosa il numero delle chiese ricettizie doveva essere tra i più bassi di tutto il Regno di Napoli.

 6.3 I sacerdoti abruzzesi durante il Settecento borbonico.

Nell’epoca in considerazione il numero dei sacerdoti era molto alto per i motivi socio-economici precedentemente accennati e per quelli socio-religiosi legati alla necessità di soddisfare i numerosi legati pii e le richieste di celebrazione di messe delle confraternite, connesse alla fondazione di cappelle laicali e disposte nei lasciti testamentari.

Tuttavia in Abruzzo Brancaccio sottolinea che: “vi erano alcune aree provinciali periferiche e montuose, frammentate dal punto di vista socio-economico e finanche orografico e geologico, in cui la presenza del clero, in particolare quello secolare, era inadeguato alle esigenze della popolazione dei fedeli[25].

Le ricerche effettuate dallo scrivente in alcune località della Provincia di Chieti hanno dimostrato che esistevano famiglie in cui si annoveravano vere e proprie dinastie sacerdotali che hanno portato ad avere in tutto il Settecento oltre quattro ordinazioni per ognuna di esse. Ciò dimostra che con molta probabilità tanti giovani non seguivano una vocazione personale ma erano indirizzati a scegliere la carriera ecclesiastica al fine di soddisfare ambizioni e interessi famigliari finalizzati a ottenere privilegi fiscali, prestigio e potere comunitario.

Alla formazione dei sacerdoti regionali, durante il XVIII secolo provvedevano dieci seminari distribuiti nelle varie diocesi e quattro collegi gesuitici presenti ad Atri, Chieti, L’Aquila e Sulmona[26].  Con la soppressione dell’ordine gesuitico, i collegi furono destinati ad altre finalità.

Alcuni sacerdoti abruzzesi acquisirono una notevole importanza culturale e seguirono le correnti filosofiche e letterarie che caratterizzarono il secolo. Il primo di essi fu Antonio Ludovico Antinori (1707-1778) che nacque e morì a L’Aquila, fu nominato vescovo di Lanciano e durante la sua vita raccolse notizie storiche sull’Abruzzo e le sue località, recando un originale e importantissimo contributo alla storia regionale.

Il secondo importante chierico abruzzese vissuto durante il XVIII secolo fu Ferdinando Galiani (1728 –1787) che è considerato un importante economista, nacque a Chieti e morì a Napoli. Durante la sua vita soggiornò a Parigi come segretario d’ambasciata, oltre che d’economia si occupò di linguistica e scrisse anche opuscoli umoristici.

Il terzo di essi fu il frate cappuccino Bernardo Valere (1712-1783) che nacque a Giuliano Teatino (Ch) ed è considerato uno dei più grandi esponenti della letteratura araldica abruzzese.

Un altro importante chierico fu Domenico Romanelli che nacque a Fossacesia nel 1728 e morì a Chieti nel 1819. Durante la sua vita si occupò di storia regionale, partecipò a scavi archeologici a Pompei e Paestum, insegnò al seminario di Chieti e fu membro dell’Accademia Pontaniana di Napoli.

6.4  Le confraternite.

Le confraternite sono associazioni di fedeli della Chiesa Cattolica con finalità d’impegno liturgico, caritativo e assistenziale di soccorso a poveri e moribondi. Esse nell’epoca in esame erano tra le poche associazioni legittimate a svolgere attività assistenziali, sociali, economiche e religiose.

In generale dalla fondazione in poi furono oggetto di donazioni varie che permisero di accrescere il patrimonio e organizzare le attività previste dai loro statuti.

Le funzioni e le attività che le confraternite settecentesche svolsero anche in Abruzzo furono molteplici. Innanzitutto furono una scuola di democrazia per gli iscritti attraverso le modalità d'elezione delle proprie cariche di governo, un centro per rafforzare la solidarietà sociale tra i soci con la vita associativa e una scuola per l'esercizio e lo sviluppo di virtù morali. Inoltre esse possono essere considerate istituzioni collaterali delle parrocchie che condizionarono l’attività parrocchiale imponendo culti particolari, la celebrazione di feste religiose, nuove forme di religiosità popolare, devozione, pietà e carità cristiana. Con il loro contributo nel corso del secolo aumentò anche la partecipazione popolare alle attività religiose. Infatti, gli iscritti erano tenuti a partecipare a varie pratiche di culto e attività caritative tra cui: recitare un certo numero di preghiere nel corso della settimana, partecipare alle messe, accompagnare i defunti durante i funerali e impegnarsi in opere di carità cristiana.

Le confraternite contribuirono alla diffusione d’istituzioni e opere pie tra cui gli ospedali e i monti frumentari, assolsero a funzioni ricreative con l’organizzazione delle feste religiose ed economiche con la concessione a terzi di beni immobili, denaro e bestiame. Infatti, da iniziali centri di aggregazione religiosa ampliarono i propri compiti con la manutenzione delle chiese in cui furono fondate, la beneficienza e la concessione di capitali e beni immobili a modico interesse a contadini e braccianti. Spesso i loro procuratori prestavano denaro contante a tassi agevolati che, nel rispetto di una bolla del papa Niccolò V dovevano oscillare tra il 7 e il 10%. Chi riceveva il denaro, ipotecava un proprio bene e s’impegnava a versare annualmente un canone corrispondente alla quota d’interesse pattuita. I pagamenti potevano durare molti anni ed essere trasmessi agli eredi. La loro estinzione avveniva nel momento in cui il beneficiario del prestito restituiva tutta la cifra ricevuta. In questo modo, nel contesto economico di mera e pura sussistenza con frequenti carestie in cui la maggioranza della popolazione abruzzese dell’epoca in esame era costretta a vivere, le associazioni confraternali tentavano di dare una risposta che consentisse di superare le difficili e precarie condizioni esistenziali.

Alla gestione delle risorse economiche confraternali dell’epoca provvedeva un procuratore che in base alle ricerche dello scrivente poteva essere un chierico o un laico alfabetizzato che generalmente proveniva dalla classe media ossia la borghesia dell’epoca. Alla luce di questi fatti, si può ammettere che anche attraverso tali associazioni, i rappresentanti dei proprietari terrieri e della borghesia abruzzese assecondavano le ambizioni di potere e di arrampicata sociale.

Ad avviso di Bigi (2017) durante il XVIII secolo, in Abruzzo le confraternite raggiunsero il loro massimo storico. Tuttavia se si disegna una linea curva che registra il loro andamento numerico, si osserva che l’ultimo periodo del secolo essa assume un carattere discendente. Infatti, tali associazioni si ridussero in quanto molte tra quelle fondate sino alla prima metà del XVIII secolo si sciolsero poiché non richiesero o ottennero il regio assenso sulla fondazione o lo statuto. Sommando i dati riportati nell’elenco pubblicato da Bigi (2017) risulta che nel corso del XVIII secolo nei vari Comuni e località che attualmente appartengono alle diocesi abruzzesi erano erette le seguenti confraternite: L’Aquila 180, Sulmona circa 110, Avezzano circa 140, Pescara-Penne circa 70, Teramo-Atri 109, Chieti 96, Lanciano-Ortona circa 40 e Comuni abruzzesi della diocesi di Trivento 12.

6.5 Le feste religiose abruzzesi nel XVIII secolo.

Durante il XVIII secolo si celebravano vari tipi di feste religiose che erano considerate di precetto e quindi era richiesta la partecipazione alle funzioni religiose. Volendo tentare un’iniziale loro classificazione e ripartizione, esse possono essere cosi suddivise: 1) feste di precetto domenicali che si celebravano ogni fine settimana; 2) feste di precetto ordinate dai sinodi diocesani e dalle bolle pontificie con cui si celebravano importanti santi (gli apostoli, i santi patroni delle diocesi e delle singole località) e particolari momenti del calendario liturgico (Natale, Pasqua, Corpus Domini, Ascensione, etc.).

Anche in Abruzzo il numero di feste religiose da celebrare variò a causa delle scelte e indirizzi delle autorità ecclesiastiche, della volontà delle autorità locali e dei nuovi culti che si svilupparono. La loro casistica molto numerosa ha diverse cause e motivazioni. Una di esse va ricercata nel fatto che nel XVIII secolo le varie comunità scelsero nuovi santi patroni e fondarono edifici di culto dedicati a santi coperti da aloni leggendari e a cui si attribuivano grandi poteri taumaturgici[27]. Di conseguenza in coincidenza con le nuove costruzioni di chiese e le scelte dei nuovi patroni celesti si fissarono anche nuove giornate festive religiose che variarono da località a località.



Note

[1] De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud: ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, pp. 201-203.

[2] Tucci V. A., Osservazioni sul trattato di accomodamento tra la Santa Sede e il Regno di Napoli (1741), pag. 4.

[3] Con l’espressione  “mano morta” si designa l’estesa proprietà ecclesiastica improduttiva che esisteva nel Regno di Napoli.

[4] La tonsura era un rito che è stato abolito e in passato segnava l'ingresso nello stato clericale. Durante il suo svolgimento il vescovo tagliava cinque ciocche di capelli, per simboleggiare la rinuncia al mondo da parte del nuovo chierico.

[5] Scaduto G., Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, vol. I, pagg. 104-105. [5] Il “patrimonio sacro” era la dotazione economica che si assegnava a un aspirante al sacerdozio al fine di garantirgli un decorso sostentamento autonomo. I beni che lo costituivano erano inalienabili, insequestrabili e alla morte del sacerdote tornavano alla famiglia d’origine. Durante il concilio di Trento si ordinò che ogni aspirante chierico per accedere ai sacri ordini doveva dimostrare di avere i mezzi per mantenersi autonomamente senza i frutti di qualche beneficio ecclesiastico. A quanto doveva ammontare il suo valore non fu stabilito. L’assegnazione del patrimonio sacro da un lato consentiva di ordinare sacerdoti solo chi proveniva da famiglie benestanti e nello stesso tempo assicurava che ogni chierico fosse in grado di condurre una vita dignitosa anche se non riusciva a ottenere qualche beneficio ecclesiastico.

[6] L’originale della lettera è conservato nell’archivio privato della famiglia Tabassi di Lama dei Peligni.

[7] Si ricorda che nel Regno di Napoli sino all’epoca napoleonica i Comuni erano chiamati Università.

[8] Placanica A., Chiesa e società nel Settecento meridionale: Vecchio e nuovo clero nel quadro della legislazione riformatrice, pag. 135.

[9] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno moderno, pag. 70.              [10]De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud, pag. 243.

[11] De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud, op. cit., pag. 243.

[12] CESTARO A., Per una definizione tipologica e funzionale della parrocchia nel Mezzogiorno nell’età moderna e contemporanea, pag. 166.

[13] Placanica A., Chiesa e società nel Settecento meridionale, pag. 11.

[14] D’ANTONIO R., L’effimero necessario divertimento. Feste e scenografie della Corte Borbonica. Il Carnevale del Febbraio 1854, pag.2.

[15] D’ANTONIO R., L’effimero necessario divertimento…., op. cit. pag. 2.

[16] BRANCACCIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno moderno, pag. 268.

[17] Nigro P., Fiumi, corsi d'acqua e costumi nel Regno di Napoli: l'Abruzzo e le sue popolazioni al tramonto del XVIII secolo, pagg. 61-62.

[18] INCARNATO G., In margine all‟elevato dibattito sull‟eversione della feudalità nel Regno di Napoli: prassi e realtà dell‟amministrazione degli allodiali d‟Atri alla vigilia della devoluzione della feudalità, Centro abruzzese ricerche storiche, pp. 66-71.

[19] La corte baronale o feudale era un organismo giudiziario con competenze civili e penali che era presieduto da un governatore o capitano di giustizia assistito da uno o due mastrodatti. Nella corte feudale si giudicavano alcuni reati e si stipulavano atti di procura, compravendite, transazioni, dichiarazioni, e contratti vari. Il governatore che la presiedeva rappresentava il feudatario del luogo e nelle cause fungeva da arbitro tra le parti, aveva anche altri poteri poiché poteva convocare e presiedere i pubblici parlamenti comprendenti i rappresentanti delle comunità liberamente eletti, controllare le finanze locali, costringere al pagamento dei pesi fiscali, etc.

[20] A rinforzare la convinzione che in Abruzzo la Chiesa entrava nei meccanismi feudali concorre il fatto che Nel XVIII secolo l’ordinario diocesano teatino, in ossequio a un’antica tradizione continuava a essere definito Conte di Chieti.

[21] Novi Chavarria E., I feudi ecclesiastici nel Regno di Napoli: spazi, confini e dimensioni (secoli XV-XVIII), pagg. 369-371. L’elenco riportato comprende anche i possedimenti ecclesiastici di località che all’epoca appartenevano alle due province abruzzesi e ora fanno parte della Regione Lazio.

[22] BRANCAGGIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno moderno, pag.124.

[23] La diocesi di Trivento ha la sede vescovile in Provincia di Campobasso e all’epoca in esame comprendeva i seguenti comuni abruzzesi: Alfedena, BorrelloCastel di Sangro, CastelguidoneCastiglione Messer MarinoCelenza sul TrignoRoio del SangroRoselloSan Giovanni LipioniSchiavi di Abruzzo e Torrebruna.

[24] ROSA M., Storia socio-religiosa del Mezzogiorno, Quaderni storici, pag. 256.

[25] BRANCAGGIO G., Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno moderno, pag. 114,

[26] Marino A., Condizioni economiche e riformismo borbonico nel Settecento, pag. 34.

[27] Per la conoscenza delle chiese abruzzesi fondate o ricostruite nell’epoca in considerazione si veda il seguente saggio: BARTOLINI SALIMBENI L., Delle tipologie religiose nell’architettura abruzzese fra XI e XIX secolo, in Abruzzo, rivista dell’Istituto di Studi abruzzesi, vol. I, 2000, SIGRAF Ed, (Pe), pagg. 205-306.


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