Fiorentini, Lombardi, Veneti, Piemontesi e molti altri sulla “Via degli
Abruzzi”di Francesco Sabatini.
«Più là che
Abruzzi»: l’espressione proverbiale messa in bocca dal Boccaccio al semplicione
Calandrino nella celebre novella del Decameron (VIII, 3) ha
fatto a lungo testo nella nostra letteratura, come indicazione di una terra
lontana da ogni dove. Ancora una volta, in altra novella (VI, 10), la nostra
regione è evocata come luogo sperduto, quando ne accenna nella predica ai
villici di Certaldo l’affabulatore frate Cipolla, che racconta di un
interminabile viaggio cominciato a Venezia e proseguito a lungo nel
Mediterraneo e in altri Paesi fantastici, passando anche «in terra d’Abruzzi» e
in luoghi più lontani ancora. Ma anche Guido Guinizzelli, quasi un secolo
prima, si serve in poesia dell’espressione «e’ non è om de qui ‘n terra
d’Abruzzo» (sonetto Chi vedesse a Lucia un var cappuzzo) per
indicare una distanza notevolissima rispetto alla sua Bologna. Si tratta
veramente di un brutto scherzo giocato da un topos letterario. La sua notevole
ricorrenza è, però, carica di significato, addirittura ambivalente: l’Abruzzo
era sì una regione abbastanza lontana dai centri maggiori del Centro e del Nord
d’Italia, e per di più marcata dall’asprezza delle strade e del clima, ma era
anche terra di passaggio obbligato per tutti coloro che da quei luoghi si
recassero, per vie di terra, nelle regioni meridionali e più specificamente a
Napoli, il polo di maggiore attrazione nel Regno. Da area periferica o estrema,
l’Abruzzo appariva, dunque, nella memoria o nell’immaginario dei
viaggiatori, anche come regione strategica, inevitabile, e quindi, in qualche
modo, centrale.
La moderna
ricerca storica ha, infatti, dimostrato appieno il ruolo di area di primario
snodo stradale che l’Abruzzo ha assunto per secoli per tutto il flusso di
commerci, missioni diplomatiche, spedizioni militari, rapporti culturali che si
intrecciavano tra le regioni centrali e settentrionali da una parte e il
Mezzogiorno della penisola dall’altra. Questo dato fondamentale può apparire
oggi inconcepibile o esagerato a chi, vivendo mentalmente sull’asse stradale
peninsulare dell’Italia postunitaria, non abbia considerato una serie di dati
di geopolitica e di storia economica dell’Italia tra il VI secolo e la fine del
XIX secolo. I fatti da considerare sono, in estrema sintesi, i seguenti:
– la formazione dei domìni longobardi d’Italia (dal 568 in
poi), che non comprendevano il Lazio pontificio (area avversaria) e nel
Centro-Sud avevano le loro capitali in Spoleto e Benevento, collegate appunto
da itinerari appenninici che attraversavano l’Abruzzo seguendo i solchi tra le
catene montuose principali, toccando soprattutto Teramo, Penne, Chieti e
Sulmona, nei cui territori si documenta, infatti, un fitto insediamento di
fare;
– la formazione, in regime di frequente conflittualità con il papato, del Regno
normanno, che giunse (nel 1140-44) a comprendere tutto l’Abruzzo e ne fece
da allora (fino al 1860) la regione di frontiera con le Marche e l’Umbria
pontificie;
– la successione sveva (1194) al Regno normanno, con il
potenziamento demografico e urbano dell’area amiternina, dove sorse, a metà del
Duecento, la nuova e vivace città dell’Aquila, polo di forte confronto con il
potere pontificio;
– la successione angioina (1266) al Regno svevo, accompagnata
dal fortissimo legame dei nuovi regnanti con Firenze (finanziatrice della
spedizione di Carlo I d’Angiò): si attivarono allora intensi commerci di questa
città con L’Aquila e Sulmona, per i rifornimenti della lana, della seta e dello
zafferano che si producevano soprattutto in questi territori, e anche con i
porti abruzzesi che ricevevano e smistavano i prodotti pugliesi;
– la successione aragonese (1442) al Regno angioino, con
periodi di rinnovata intesa con Firenze e soprattutto, fatto decisamente nuovo,
l’instaurarsi di legami politici e persino familiari tra i sovrani di Napoli e
gli Sforza di Milano (che ebbero anche il Ducato di Bari) e di alleanze con le
città emiliane (Ferrara e Bologna);
– la successione spagnola (1503-1504) al Regno aragonese, che
diventò Viceregno, stretto per ben due secoli da legami con il dominio spagnolo
in Lombardia.
In tutto
questo tempo, e ancora nel secolo e mezzo successivo, gli itinerari più
frequentati tra il Centro-Nord e il Sud evitavano il più delle volte Roma, sia
per le possibili complicazioni politiche con il Papa, sia anche per
l’impraticabilità delle zone malariche della Campagna Romana (la Campania
romana) e la presenza in essa di un indomito brigantaggio (in parte a tratti debellato,
invece, nelle regioni del Regno). A queste condizioni avverse di varia natura,
esistenti sul versante tirrenico, si contrapponevano le seguenti condizioni
favorevoli sul percorso appenninico e su quello adriatico:
– la catena di collegamenti con centri appenninici e adriatici
molto attivi per produzioni e commerci (Perugia e le altre cittadine umbre;
Rieti; Urbino, Pesaro, Ancona, Ascoli e le altre città marchigiane) prima di
giungere alle montagne o ai porti abruzzesi, luoghi di rifornimento di quei
beni sopra ricordati;
-la maggiore rettilineità dei percorsi stradali, che
all’interno si svolgevano nei lunghi fondovalle compresi tra le grandi catene
montuose, sia pure separati da una serie di ardui valichi, e sul versante
adriatico correvano a breve distanza dal litorale, da Rimini fino alla foce del
Pescara, per risalire poi il corso di questo fiume e congiungersi con la via
interna a Popoli, e di qui proseguire unitariamente per Sulmona, Castel di
Sangro, Isernia, Venafro, Capua, fino a Napoli (avendo sfiorato anche
Montecassino).
L’area di
incrocio di questi itinerari era inconfondibilmente l’Abruzzo e si comprende
perché questa regione potesse dare anche nome all’intero sistema viario che in
essa aveva il punto nevralgico. In molte cronache e altri documenti dei secoli
passati ricorre infatti come ovvia, per l’itinerario seguito o da seguire da
chi viaggiava, l’indicazione «per la via degli Abruzzi» o altra simile.
A sostegno di quanto detto fin qui si può mettere insieme una lunghissima serie
di singoli eventi, ben certi almeno per le epoche dal basso medioevo all’Unità
d’Italia: movimenti di eserciti, missioni diplomatiche, cortei nuziali,
carovane di mercanti, viaggi di artisti, religiosi, podestà. Ne segnalo qui
solo alcuni più significativi.
Per l’età angioina, spicca la vicenda di Celestino V, la cui ascesa al
papato, proclamato a Perugia il 5 luglio 1294, si compì nell’agosto successivo
con l’intervento di Carlo II d’Angiò e con il suo viaggio, in compagnia
dell’eremita e di un foltissimo seguito, da Sulmona a L’Aquila a Napoli. Varie
volte Boccaccio in persona, nel suo peregrinare tra Firenze e Napoli, passò da
Sulmona e vi strinse amicizia con una cerchia di preumanisti che erano anche in
contatto con Petrarca residente ad Arquà. Non è un caso se la prima copia del
Decameron si segnala (nel 1360) tra le mani dei mercanti Acciaioli che facevano
sosta a L’Aquila e a Sulmona, città che pullulavano di sedi anche dei Bardi,
dei Peruzzi, degli Scali, degli Alberti, dei Bonaccorsi, degli Strozzi, ecc.,
stretti da legami con intraprendenti mercanti locali. Citiamo ancora Boccaccio
narratore, quando a personaggi del suo Filocolo fa compiere viaggi che toccano
«le fredde montagne, fra le quali Sulmona uberissima di chiare onde dimora»
e L’Aquila, la città «ove l’uccello di Dio, mutato in contrario pelo, da
rustica mano si dovea ancora portare in insegna» (V, 32; in III, 33 altra
descrizione dello stesso itinerario, con particolare esaltazione della patria
di Ovidio, è in III, 33).
Per il Quattrocento si
ricordano, oltre ai numerosi passaggi di eserciti e di cortei principeschi
(come quello degli accompagnatori di Ippolita Sforza che tornarono da Napoli a
Milano nel novembre del 1465), i viaggi di San Bernardino da Siena a Napoli
(con passaggio da Roccaraso) e la sua tappa finale a L’Aquila (dove morì il 20
maggio 1444).
Per il Cinquecento,
sappiamo delle comitive che su questa strada riconducevano a Napoli Isabella
d’Aragona, duchessa di Milano, nel 1500, e Beatrice d’Aragona, moglie ripudiata
di Mattia Corvino, re d’Ungheria, nel 1501; dei movimenti di eserciti, con
truppe francesi e tedesche negli anni 1528 e 1529; di un viaggio di Torquato
Tasso da Ferrara a Sorrento nel 1578, compiuto per «la strada de Abruzzo, in
pessima stagione, senza compagnia, con tutti i disagi e con molti pericoli»,
come ricordava in una sua lettera, un’esperienza legata anche all’ospitalità
dei conti Cantelmo, a Popoli, e dei conti Belprato, ad Anversa, e riecheggiata
in alcuni versi della sua Gerusalemme Conquistata (l. 1, 93, vv. 5-8).
I moti
rivoluzionari della fine del Settecento, gli anni del Regno
murattiano e poi i primi moti risorgimentali del 1820 e 1821 riportarono grandi
movimenti di truppe – francesi, napoletane repubblicane, borboniche,
napoleoniche, austriache, di estrazione popolare abruzzese – sulle solite
direttrici di penetrazione o di controllo del Regno sulle vie dell’Abruzzo.
Finché proprio questi tracciati entrarono nello scenario della fase conclusiva
delle campagne risorgimentali.
Vinti gli Austriaci in Lombardia nel 1859, ottenuta l’adesione
dell’Emilia-Romagna e della Toscana, occupata l’Umbria e le Marche, ribellatesi
al potere pontificio, l’esercito piemontese era entrato ad Ancona il 29
settembre 1860. Il re Vittorio Emanuele II nei primi di ottobre era in questa
città, in attesa che evolvesse positivamente la situazione più a Sud: con il
consolidamento di Garibaldi a Napoli, un pronunciamento favorevole alla causa
liberal-monarchica e un tamponamento della spinta repubblicana in Abruzzo e
Molise. Quel pronunciamento, promosso vivacemente dai liberali abruzzesi
(guidati dal grande scienziato Salvatore Tommasi e dai fratelli Bertrando e
Silvio Spaventa), avvenne ai primi di ottobre e l’esercito sabaudo dalle Marche
si mosse verso l’Abruzzo, sulle tradizionali due vie di accesso: con il grosso
della truppa lungo la costa adriatica e una colonna minore attraverso i valichi
a nord dell’Aquila. Il re varcò lo storico confine del Tronto il 15 ottobre, il
16 era a Giulianova e la sera a Castellammare, sulla sponda sinistra del
Pescara; il 17 mattina, alle 8, attraversò anche questo fiume ed entrò nella
fortezza della cittadina, già da qualche giorno espugnata ai borbonici dalla
Guardia nazionale comandata dai liberali abruzzesi. Il 18 era a Chieti, il 19
sera a Popoli, il 20 a Sulmona, il 21 a Castel di Sangro, dove ricevette già le
prime notizie dell’andamento dei plebisciti di adesione delle province
meridionali. I reparti avanzati, guidati dal generale Cialdini, stavano intanto
ingaggiando e vincendo sulle montagne d’Isernia (sul monte Macerone) l’ultima
battaglia del nostro Risorgimento (in attesa della campagna per il Veneto, del
’66, e della conquista di Roma nel ’70). Si aprì così, su quest’ultimo tratto
della “Via degli Abruzzi” tra Molise e Campania, il varco per il
celebratissimo incontro cosiddetto di Teano (in realtà in territorio di
Caianello) del 26 ottobre, tra il Savoia e Garibaldi.
Ma ancora altro peso della storia risorgimentale sarebbe
spettato alla nostra via: nel novembre successivo, fuggendo da Napoli, con
mandato di cattura per la manifesta avversione alla soluzione monarchica,
Giuseppe Mazzini raggiunse L’Aquila, dove fu alloggiato dal suo fraterno amico
Pietro Marrelli, avviandosi così all’espatrio verso Lugano e poi Londra. Negli
ultimi giorni dell’anno ripassò per Sulmona e Pescara il re Vittorio, diretto
in Piemonte.
Con la
raggiunta Unità d’Italia, alla storia delle strade subentrava
quella delle ferrovie. All’antico itinerario emiliano-adriatico che da Bologna
si spingeva fino a Pescara e oltre, si era affiancata subito la ferrovia
litoranea adriatica che il 13 maggio 1863 da Ancona raggiungeva già Pescara e
il 15 settembre Ortona; nel 1870 i binari raggiunsero addirittura Otranto.
Verso l’interno, nel 1873 Pescara venne collegata con Sulmona; che a sua volta
nel ‘75 fu allacciata con L’Aquila e poi con Terni, nel 1888 con Roma, nel 1897
con Isernia, già collegata con Napoli. L’Abruzzo era di nuovo un crocevia
di linee, che ricalcavano in sostanza l’antica rete degli assi portanti,
con in più il forte collegamento tra Roma e l’Adriatico, ben più significativo,
con il nuovo potente mezzo di locomozione e con capolinea la capitale d’Italia
e l’esordiente Pescara, di quanto fosse stata l’antica
Tiburtina-Valeria-Claudia. Ma tutto stava cambiando nelle correnti di traffico,
non solo perché Roma era rientrata pienamente nel contesto della vita italiana,
ma perché l’economia tradizionale e l’assetto sociale dell’intero Abruzzo
venivano sconvolti dalle tendenze evolutive della modernità, che si affermava
con la formazione del nuovo Stato.
Non ho
voluto interrompere il filo della narrazione degli eventi esterni, evocandoli
di secolo in secolo quasi come si sarebbero osservati mettendosi ai bordi delle
strade, lasciando indietro l’indicazione degli effetti che quegli eventi
producevano nel tessuto sociale e urbano e nella vita culturale delle nostre
città e dei nostri paesi. Ne tratto ora prendendo solo qualche esempio
da L’Aquila e Sulmona e loro territori e velocemente da altre località.
È un dato di prima grandezza il fatto che il poeta aquilano Buccio di Ranallo
(1290/95-1363), cantore delle origini della città e delle fiere imprese dei
suoi concittadini, nei suoi componimenti (che si datano dal 1330 in poi)
echeggi più volte versi della Commedia dantesca. Sono molti i pittori e
scultori aquilani del Quattrocento (cito solo Andrea dell’Aquila, Silvestro di
Giacomo, sulmonese di origine, Saturnino Gatti, Cola dell’Amatrice) le cui
opere riflettono pienamente gli ambienti della grande arte toscana e umbra. Si
deve certo ai commerci del prezioso zafferano, che collegavano stabilmente
L’Aquila con Venezia (e anche direttamente con la Germania), se nel 1481 alcuni
aquilani fecero società con un allievo diretto di Gutenberg, Adamo di Rottweil,
che aveva operato fino ad allora a Venezia e da quell’anno si trasferì nella
loro città e vi introdusse l’arte della stampa. Nel 1579 la Baronia di
Carapelle, che comprendeva vari comuni a Sud del capoluogo, passò in mano a
Francesco I de’ Medici, Granduca di Toscana: fino al 1743 questo territorio fu
una base dei commerci della lana gestiti dalla famiglia granducale, il cui
stemma è ancora visibile su una delle porte della cinta muraria di Santo
Stefano di Sessanio.
Se molto
intensa era stata, dalla fine del Duecento al pieno Quattrocento, l’influenza
toscana e umbra su L’Aquila e il suo territorio (attraverso il braccio
appenninico direttamente orientato verso quelle regioni), nonché, come abbiamo
già visto, su Sulmona, non meno profonda e prolungata fu, nei tre secoli successivi, l’influenza
specifica delle regioni settentrionali sull’Abruzzo meridionale e
costiero, attraverso l’immissione di una folta componente di maestranze
“lombarde” portatrici di tecniche raffinate nell’edilizia e nelle attività
connesse: lavorazione della pietra, dei marmi, del legno, del ferro battuto.
A Sulmona un Mastro Petri da Como firmò un portale del palazzo Tabassi nel
1449; nel 1478 viveva in città un Simone architetto veneziano, che forse
edificò, sei anni dopo, il palazzo del Maestro Giovanni dalle Palle Viniziano
di Sermona; nel 1508 la natio dei maestri lombardi residenti a Sulmona fondò
una propria cappella nella chiesa di San Francesco (e i loro discendenti la
restaurarono nel 1709); nel 1710 Pietro Fantoni milanese progettò la ricostruzione
della chiesa dell’Annunziata. Il caso di massima concentrazione di questa
influenza ci è offerto da Pescocostanzo, dove dalla metà del Cinquecento alla
prima metà del Settecento si ebbe una piena fioritura di tutte le arti
dell’edilizia e dell’arredo urbano, e dove addirittura fu introdotto il
battesimo di rito ambrosiano (per immersione), tuttora praticato, e alcune
famiglie di muratori hanno conservato fino agli anni più recenti l’uso di un
gergo di mestiere detto lingua lombardesca, che trova riscontro nei gerghi
analoghi delle valli alpine dal Comasco al Bergamasco. Non è un caso se lo
stesso gergo è affiorato tra i muratori di Vasto, situata sul ramo costiero
della “Via degli Abruzzi” e in stretto contatto con Milano quando uno dei
D’Avalos, marchesi della cittadina abruzzese, divenne capitano di Carlo V in
Lombardia. A Pescocostanzo nel 1555 insegnava “grammatica” (latina o volgare?)
un Giovanni Maria veneziano e, a metà del Seicento, operava un non identificato
pittore veneto di nome Diodato. Nel 1614 vi giunse, commissionata da una ricca
pescolana, una grande tela del caravaggesco Tanzio da Varallo.
Anche
altri centri della regione abruzzese furono poli di attrazione
di correnti esterne di provenienza centrale o settentrionale. Fin dall’inizio del
Trecento Lanciano, prossima al ramo costiero della «Via degli Abruzzi» e ai
porti di Ortona e Vasto, era luogo di fiere a cui affluivano mercanti da tutta
l’Italia, dall’altra sponda dell’Adriatico e da altri Paesi d’Europa: le sue
fiere duravano per più mesi, tanto che a Firenze era diffuso il detto, rivolto
a persona lenta nelle sue azioni, «Tu non faresti a tempo alla fiera a
Lanciano, che dura un anno e tre dì» (riportato nel Vocabolario delle
Crusca, già nell’edizione del 1612, s.v. fiera). Sul versante opposto, nella
Marsica, si faceva sentire anche l’influenza di Roma e, mediata da questa
città, ancora quella di alcuni centri toscani. La Contea di Celano appartenne
ai senesi Piccolomini dal 1463 al 1591; Tagliacozzo, centro ben noto a Dante
per la storica battaglia (1268) che decise il prevalere del dominio francese
(angioino) su quello tedesco (svevo) nell’Italia meridionale e rafforzò per
secoli il potere papale in Italia, sotto il dominio degli Orsini vide, nel
Quattrocento, realizzarsi un ricco patrimonio d’arte.
Ho mirato a rendere evidenti piuttosto le correnti “discendenti” dal Centro e
dal Nord verso l’Abruzzo, perché è certamente questo il dato ignoto ai più. Ma
non vanno affatto dimenticate le correnti che percorsero lo
stesso tracciato provenendo dal Sud: intendo qui, chiaramente, da Napoli, luogo
secolare di formazione della massa dei professionisti e dei veri e propri
intellettuali abruzzesi (da Marino da Caramanico e Luca da Penne agli Spaventa,
a Tommasi e a Benedetto Croce); ma anche, nell’età barocca, centro di
irradiazione di modelli artistici soprattutto nell’architettura (dominata dal
bergamasco-napoletano Cosimo Fanzago), con importanti episodi anche nel campo
della pittura (Stanzione; Solimena). Per non parlare della letteratura, della
pittura e della musica dell’Ottocento. Si dà per risaputo che l’Abruzzo abbia
avuto un continuo e fortissimo dare e avere sociale e culturale con l’antica
capitale del Regno, ma si finisce per dimenticare la funzione che ha avuto,
fino a tutto il secolo XIX, quel battuto e ribattuto asse stradale. Percorso
fino all’ultimo, in ostinata concorrenza con il vapore, dalla famosissima
diligenza dei Fiocca, sulla quale montavano schiere di studenti avviati allo
Studio di Napoli, che con lo stesso mezzo tornavano addottorati nei loro Paesi.
Il quadro
storico che si delinea percorrendo, lungo i secoli dal XIII al XIX, la
storia delle comunicazioni della regione abruzzese con l’esterno mostra
chiaramente che questa non era affatto una regione “isolata” nel contesto
italiano, non solo per effetto della sua posizione geografica, di cerniera tra
due grandi ambiti politico-economici, ma soprattutto perché alle sollecitazioni
esterne, portate dai grandi assi stradali, la società locale rispondeva
vivacemente: era detentrice di una sicura ricchezza (la produzione e il
commercio della lana), che gestiva ampiamente in proprio, ed era capace di
aggiornamento culturale e quindi anche di farsi conoscere al di fuori.
Chiunque voglia oggi riflettere sulle condizioni e le prospettive di
vita dell’Abruzzo del nostro tempo e dell’immediato futuro dovrebbe
prendere le mosse proprio da un confronto tra quel quadro e l’immagine che al
presente la regione trasmette di sé al mondo esterno. Un’immagine che appare
debole, per mancanza di rappresentazione proveniente dalla parte interna. (Un
caso emblematico: nella cognizione generale degli abitanti del nostro Paese è
pressoché assente la nozione, pochissimo elaborata dai soggetti interessati,
dell’intera campagna di guerra che si svolse per nove mesi dal settembre 1943
al giugno 1944 lungo la Linea Gustav, che seminò immense distruzioni e stragi
nell’Abruzzo meridionale). Eppure oggi una robusta rete autostradale,
intrecciata con altri percorsi anche di alta prestazione, rende pienamente raggiungibile
e conoscibile l’intera regione, con facilità nettamente superiore, in
proporzione, a quella offerta per secoli dai vari bracci della gloriosa “Via
degli Abruzzi”. I risultati però non sono comparabili e bisogna indagarne le
cause. Le risorse odierne di tipo diffuso (legate ai valori dell’ambiente e del
patrimonio culturale) non sono paragonabili a quella secolare della lana? O
manca il concorso delle forze interne (chiaramente rarefatte) paragonabile a
quello dei mercanti e artisti aquilani, sulmonesi e lancianesi del passato?
Francesco
Sabatini
Leggi l’articolo“Sulle tracce della Lombardesca”.
Riferimenti
bibliografici essenziali
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Lanciano 1977.
Paola Gasparinetti, La “via degli Abruzzi” e l’attività commerciale di
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Abruzzese di
Storia Patria”, LIV-LVI, 1964-1966, pp. 5-103.
Hidetoshi Hoshino, I rapporti economici tra l’Abruzzo aquilano e
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Ezio Mattiocco e Giuseppe Papponetti (curr.) Sulmona, città d’arte e
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Francesco Sabatini, La Regione degli Altipiani maggiori d’Abruzzo.
Storia di Roccaraso e Pescocostanzo, Genova, Sigle Effe, 1960.
ID. (cur.), L’Aquila e la Provincia Aquilana. Economia, società e
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ID. (cur.), Pescocostanzo, città d’arte sugli Appennini, Pescara Carsa, 1997
(1a ediz. 1992).
ID., Abruzzo. Una civiltà diffusa e le sue capitali, in Guglielmo
Ardito (cur.), Scanno. Storia di gente di montagna. Bisturi e tramonti sul
lago, Pescara, ESA Edizioni Scientifiche Abruzzesi, 2004, pp. 19-60.
Da: newsletter.rotaryitalia.it
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