di Angelo Iocco
La tradizione delle Feste Lancianesi di Settembre, dopo lo sparo di mezzogiorno del 1 Settembre, continua con le giagulatorie e gli inni a Maria come “Tota pulchra est Maria” o “Salve Regina”, recitati nella Cattedrale sino al termine della Novena il 7 settembre. L’8 settembre, sicuramente tradizione partita dopo l’arrivo delle Corone alla Beata Vergine Maria del 14 settembre 1833, di cui si parlerà nell’ultima puntata, e iniziata ad essere documentata presso i manoscritti dell’ingegnere Nicola Maria Talli e l’architetto Filippo Sargiacomo di Lanciano, è la festa della Natività della Vergine Maria. Occorre non fare confusione con il giorno dell’8 dicembre in cui ricorre l’Immacolata Concezione, ovvero l’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele a Maria della nascita di Gesù, e l’8 settembre in cui ricorre la Natività di Maria, che a Lanciano rappresenta la gioia per la nascita della Madre dei Cieli, che porta ai contadini fertilità e prosperità nel raccolto dei campi. Questo sottolineavano i folkloristi Antonio De Nino e Gennaro Finamore parlando della festa lancianese dell’8 settembre, detta in dialetto “Lu Done”, in cui le 33 contrade della città, in testa Marcianese, Santa Maria dei Mesi, Santa Liberata, Villa Stanazzo, Sant’Egidio, Santa Giusta, seguite infine dalla contrada Sant’Antonio col Carro del convento, di buon mattino, prima della istituzione della festa vera e propria, le contradaiole e i contradaioli con i loro carri, risalivano le viuzze strette delle gole per arrivare alla piazza della Verdura, e poi la piazza del Mercato oggi del Plebiscito, per omaggiare la Madonna con le loro primizie. Era uno spettacolo solenne, molto semplice e raccolto, i doni venivano affidati alla Santa Casa del Ponte, oppure battuti all’asta nella pubblica piazza, così come ancora oggi si fa la sera dell’8 settembre. Alcune orchestrine e bande improvvisate accompagnavano con canti e lazzi, e inni alla Madonna la processione dei contadini umili verso la loro Mamma.
Le contadine di una volta portavano in testa delle conche con dei fiori oppure delle primizie, pizzelle, pani e canditi, dolci, tarallini, oppure peperoni arrosto in omaggio alla Madonna, procedevano a schiere di due fila lungo il Corso. Ciascun carro porta il nome della contrada di appartenenza e una Sacra Immagine della Madonna del Ponte a segno di eterna protezione. Molte contadine recano mazzi di spighe di grano o di fiori di ogni sorta, che stringono tra le braccia sorridenti, quasi fossero uscite da un quadro di Michetti o Cascella, tutte ben vestite e coperte ai capelli da fazzoletti ricamati, per virgineo pudore, anche se oggi come si può immaginare, la cosa sa quasi di mera rievocazione, senza più l’antico significato.
Ancora oggi questa processione si
ripete partendo dal piazzale Sant’Antonio, risalendo la villa comunale, per poi
scendere dal Corso Trento e Trieste fino alla Cattedrale, fermandosi nella
piazza Garibaldi coi carri e i trattori che trasportano alcuni figuranti di
ciascuna contrada, che minano scene di vita quotidiana, della mietitura, del
lavoro nei campi o delle faccende domestiche. Oggi però appare più una
rievocazione di una vita ormai passata, alcuni carri offrono agli spettatori
delle pizze all’olio o al prosciutto, pane e olio, oppure un bicchiere di vino,
altri carri dall’aspetto più variopinto, con musiche a palla e sguaiate cercano
di attirare l’attenzione; inframmezzano la processione dei gruppi folkloristici
che inscenano danze, spallate o saltarelli; alcuni sono locali, spesso in
passato si univa anche la “cumpagnie” della Madonna dell’Assunta di
Castelfrentano, da qualche anno invece si è aggiunto il Gruppo CATA (Compagnia
di Tradizioni Teatine Abruzzesi) del prof. Francesco Maria Stoppa. Ma per chi
ama le tradizioni e gli abiti caratteristici, spesso nota oggi, vedendo la
processione, che molti gruppi non hanno più nulla di folkloristico, ci sono molte contaminazioni e confusioni nel
riprodurre l’abito tipico, o nell’eseguire le saltarelle, generando una cattiva
ed errata immagine dell’antico folklore abruzzese presso il pubblico ignaro.
Mentre i carri a uno a uno si
fermano qualche minuto in piazza davanti la Cattedrale, per proseguire
successivamente il percorso nella sottostante piazza Garibaldi, dove inscenare
altre danze, e anche il ballo del laccio, l’arcivescovo benedice ciascuna
contrada lancianese, e invita i fedeli ad entrare in chiesa per la Santa Messa
in onore della Madonna. Così, tra canti, balli e feste, riprodotte in
bellissimi versi anche dai poeti nostrani quali Alfonso Fagiani, Francesco
Brasile e Mario Bosco, il corteo lentamente si scioglie, ciascuna contrada a
mezzogiorno inoltrato riparte per la propria zona di appartenenza nel contado
lancianese, e ci si prepara, col banditore della festa, alla vendita all’asta
serale nella piazza centrale.
Un’altra figura, di cui non si è
parlato nella prima puntata di questa rassegna di tradizioni settembrine, è
quella del “tamurraro” o “tammorraro” lancianese. Ossia il suonatore di
tamburo; ricordano gli storici etnologici di cose frentane, che quando
iniziavano le Feste di Settembre, un banditore pubblico, quando non ancora
esistevano gli avvisi stampati, i cellulari, le televisioni, le radio, il
banditore comunale provvisto i buona voce e di tamburo, faceva il giro delle
principali vie della città, suonando delle melodie a marcetta, per richiamare
l’attenzione, e urlando a squarciagola l’avvio delle feste. Il suo stile però
era originale, come si è potuto anche constatare visionando un filmato in
super8 girato da Antonio Falconio storico primario presso l’ospedale Renzetti
di Lanciano, negli anni ’60, inquadrando uno degli ultimi storici tamorrari di
Lanciano: don Gennaro. Il tamorraro pare avere origine dai banditori francesi
che occuparono Lanciano nel 1799, e negli anni a seguire, un tempo membro della
banda civica dell’esercito, divenne una figura dell’organigramma delle
amministrazioni comunali, e oltre ad avere la carica di banditore, era occupato
anche nelle mansioni varie di lampionaio o custode del cimitero. La veste del
tamorraro a Lanciano sino agli anni ’60, era semplice, giacchetta nera
attillata, camicia bianca, pantaloni lunghi, cappello enorme a cilindro, che si
usava nell’800, di derivazione francese, il tamburo della banda, e una voce
bella potente da farsi ascoltare a metri di distanza. Nel video di Falconio che
è stato girato presso una casa privata dove il tammorraro era stato invitato,
notiamo la marcetta iniziale per richiamare l’attenzione, e poi l’annuncio
recitato in versi distici, con fare cantilenante, dove si allude alle bellezze
e alle caratteristiche peculiari di ideale di Castità e Purità della Madonna,
di cui si vanno a decantare le lodi per l’annuncio della festa. All’annuncio
della festa, il tamorraro compie un’altra parte della marcetta col tamburo, e
poi inizia una danza goffa ma simpatica, cantando un inno a Maria in dialetto,
raccomandandole la protezione e la prosperità della famiglia che lo ha
ospitato, chiedendo infine un po’ di companatico e un bicchiere di vino per il
servizio.
In sostanza il tamorraro
lancianese si immette in quella rosa di tradizioni abruzzesi che anni fa si celebravano
con l’ausilio di un gruppo di “compagnie”, di questuanti, di allegre brigate
insomma che si riunivano nelle feste di Sant’Antonio abate, nel giorno
dell’Epifania (la Pasquetta), e della Settimana Santa (Giovedì Santo, e Venerdì
Santo) per cantare le lodi del santo, o per raccontare la storia della cattura,
flagellazione e Crocifissione di Gesù, chiedendo infine al pubblico un po’ da
mangiare per ringraziamento.
Questa tradizione del tamorraro a
Lanciano, come detto, non esiste più, già negli anni ’60 sorpassata dai moderni
impianti audio della ditta di Lucio Venditti, e successivamente estinta per
sempre. Ne restano solo ricordi di persone ormai anziane e qualche fotografia o
video, girato con mezzi di fortuna da persone lungimiranti.
Concludiamo questa puntata con
una bella poesia sul Dono di Mario Bosco.
Lu done a la Madonne de lu Ponte
Gn'attacche la ciambotte chelu sone
cumenze ccamminà lu Cumitate,
lu Schineche e na morre di scacchiate
che ttè li bandirelle di lu done
Dapò ... Passe dapò la divuzione:
conche di grane cariche 'nfiurate,
figure di Madonne, uve 'ndurate,
quatrine che ha ricotte ugne frazione,
'na voce che mmi cante dentre ancore ...
E mentrre scoppie attorne l'allegrie,
fra bombe, bande e ssone di campane,
la fede che si sbusciche a lu core,
smove le labbre a tante Avemmarie
pè salutà la Mamme di Langiane.
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