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20 febbraio 2022

Antonio Mezzanotte, Carlo Tapia da Lanciano.


 Carlo Tapia da Lanciano
di  Antonio Mezzanotte

Negli atti giudiziari delle tante controversie tra i piccoli comuni rurali ed i rispettivi feudatari, spesse volte gli avvocati comunali per sostenere le proprie ragioni facevano riferimento allo “Stato discusso” di Carlo Tapia, indicato quale “prova indubitata”, cioè quella che, al di là di ogni ragionevole dubbio, era degna di rappresentare il vero stato delle cose.
Lo “Stato discusso” altro non era che il bilancio dei comuni, che doveva essere sottoposto all’esame della Regia Camera della Sommaria per l’approvazione. Fu Carlo Tapia agli inizi del XVII sec. a volere che i Comuni dovevano munirsi di un resoconto delle entrate e delle uscite, per snellire i pagamenti e ridurre gli sprechi e, per l’epoca, fu una decisione davvero innovativa. E non fu la sola!
Chi era Carlo Tapia? Nacque a Lanciano (CH) nel 1565, figlio di Egidio (magistrato, anch'egli lancianese di nascita), la cui famiglia era di origini spagnole (di Salamanca), e di Isabella Ricci, appartenente alla piccola feudalità frentana (dei Baroni di Pietraferrazzana). Sul letto di morte il padre lo affidò alla tutela di due suoi colleghi magistrati e a soli 18 anni si laureò in giurisprudenza, si avviò nella professione di avvocato e pubblicò un trattatello di diritto pubblico che riscontrò una vasta eco per la profondità della cultura giuridica manifestata.
Per tale motivo, venne presto avviato alla carriera nell’amministrazione vicereale, con incarico presso la regia udienza di Salerno. Qui diede prova di grandi abilità amministrative, combattendo il brigantaggio, contrastando lo strapotere dei baroni locali e svolgendo con efficienza l’incarico di Commissario per il rifornimento di grano della città di Napoli.
A 31 anni divenne giudice della Gran Corte della Vicaria, a 32 entrò nel Sacro Regio Consiglio, uno dei massimi organi dell’amministrazione giudiziaria e finanziaria del Regno di Napoli, nel quale sarebbe rimasto per un quindicennio, distinguendosi per le posizioni rigidamente ostili al ceto baronale.
Tapia si occupò quasi di tutto: di finanza locale, di sanità, di lavori pubblici, di approvvigionamenti, di questioni patrimoniali pubbliche, di diritto ecclesiastico.
Ebbe una grande intuizione, che lo colloca come precursore del diritto europeo: riordinare e presentare in forma organica e commentata tutto l’insieme delle norme giuridiche emanate nel Regno di Napoli, spesso in contraddizione le une con le altre, dal 1200 in poi. Questo Codice del Diritto del Regno di Napoli – detto anche Codice Filippino, in onore del re di Spagna Filippo III - può essere considerato, con un anticipo di 150 anni, l’antesignano della moderna codificazione.
Dal 1612 al 1624 fu reggente del Consiglio d’Italia alla Corte di Madrid, in pratica l’organo consultivo del Re nel governo dei territori italiani passati sotto il dominio spagnolo. Tuttavia, si rese conto ben presto che quella carica non comportava alcun concreto potere di intervento nelle vicende amministrative del Regno di Napoli e, pertanto, chiese ed ottenne di tornare a Napoli rivestendo il ruolo di Reggente del Consiglio Collaterale, l’organo tecnico consultivo del Viceré. In tale posizione, difese strenuamente l’indipendenza della magistratura, delle amministrazioni vicereali e delle comunità locali contro le ingerenze del governo centrale spagnolo e contro la feudalità, ma le sue riforme furono bloccate dall’intervento diretto del Re, indirizzato ormai a sostenere proprio la nobiltà e ad utilizzare le risorse del Regno per le continue guerre intraprese dalla Spagna nello scacchiere europeo.
Con Tapia si chiuse l’ultima grande stagione di respiro europeo e moderno del Regno di Napoli. Dopodiché le magistrature e le istituzioni furono progressivamente occupate dal ceto feudale, private di autonomia, i provvedimenti assunti in favore delle Università (cioè dei comuni) e del Demanio furono disattesi e dal terzo decennio del XVII sec. iniziarono gli anni più duri della dominazione spagnola con la svendita del patrimonio pubblico, lo svuotamento dei poteri delle comunità, l’aumento delle tasse, la prevalenza del baronaggio, la rivolta di Masaniello, la stagnazione.
Ma non finisce qui. Nel 1638, sei anni prima della morte, Tapia pubblicò il “Trattato dell’abbondanza”, una disamina attenta dei problemi alimentari del tempo, delle cause che provocavano la penuria di grano, delle falle nel sistema di approvvigionamento, con l’indicazione dei possibili rimedi, sempre al fine di migliorare la qualità della vita nelle comunità locali e nelle città.
Un personaggio di primo piano dell’epoca moderna, abruzzese, ancora poco conosciuto, quindi da ricordare.

(Nella foto, una incisione raffigurante Carlo Tapia all'età di 30 anni nel 1595)


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